La figura femminile della dea, in uno dei quadri più celebri dell’umanesimo fiorentino, la «Nascita di Venere» di Sandro Botticelli, è nella mente di tutti: i capelli biondi mossi dal vento, il capo inclinato, la gamba lievemente flessa. Poi il mare, e la grande conchiglia aperta da cui Venere nasce. E abbiamo in mente anche le parole per celebrarle: grazia, incanto, proporzione, eleganza, armonia.
Eppure le cose non stanno (solo) così. Di altro il quadro è memoria. A spiegarcelo, è il filosofo francese Georges Didi-Huberman, nel suo saggio «Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà», che l’editore i meritoriamente ripubblica nella collana «Carte d’artisti», a distanza di più di dieci anni dalla prima edizione Einaudi, e a quindici dalla sua uscita in Francia. Didi-Huberman comincia sì dalla Venere ideale, ma basta dare una scorsa ai titoli dei successivi capitoletti per vedere abbandonata la chiarezza cristallina del simbolo ed essere precipitati in una trama di significati in cui del magnifico nudo della dea si scoprono altri, più inquietanti lati.
La fenomenologia della nudità include infatti, l’una dopo l’altra: la nudità impura, la nudità colpevole, la nudità crudele, la nudità psichica, e infine la nudità aperta, aperta nel suo interno, nel suo rovescio, in cui si cela il mistero della carnalità, il buio del corpo dentro la levigata lucentezza della pelle.
La tesi di Didi-Huberman è semplice: la separazione moraleggiante di una Venere ideale e di una Venere naturale, carnale, non si tiene, così come non si tiene la separazione che un grande storico dell’arte, Kenneth Clark, aveva cercato di stabilire fra la «nakedness», ossia la nudità del corpo denudato, inerme, umiliato, e il «nude», il nudo del corpo «armonioso, fiorente, e fiducioso», consegnato alla grande storia dell’arte. Cosa più interessante, tale distinzione non si tiene sul piano teorico, dopo Nietzsche e Freud, ma non si tiene neppure in relazione al capolavoro di Botticelli, a meno di non isolarlo dal suo contesto di senso, rimuovendo le associazioni di idee più o meno imbarazzanti che riportano l’immagine del nudo botticelliano nei territori della sensualità, dell’informe, della crudeltà.
Guardiamo infatti davvero il quadro, lasciando perdere i nostri scipiti ricordi scolastici. Quel che Didi-Huberman ci aiuta a vedere, sulla scorta di Aby Warburg e di Walter Benjamin, sono gli elementi «patetici» e «dialettici» chiusi nell’immagine: la scena umana del desiderio, spostata e quasi nascosta nel tocco del vento che agita i capelli, e la «sfera di crudeltà strutturale» evocata dalla spuma marina, segno della castrazione di Urano, dal cui seme e sangue fiorisce la dea. Il carattere quasi minerale con cui Botticelli scolpisce la figura di Venere (la tempera magra dei colori quasi vitrei, il suo nitore quasi tagliente) valgono dunque come un operazione di isolamento; una rimozione, per dirla con Freud.
Quale lezione se ne può trarre? Che è una pia illusione – e insieme il costrutto ideologico
della storia dell’arte, umanisticamente intesa – pretendere di separare «il tocco di eros» dal «tocco di thanatos», il pudore dall’orrore, la bellezza dall’effrazione e dalla crudeltà, il desiderio di vedere da quello di toccare, e forse anche di colpire. Detto altrimenti, l’uomo non riesce mai a placare, guardando, gli scompigli del desiderio.
Per questo l’ultima Venere raccontata nel saggio di Didi Huberman è quella del Marchese de Sade. Che raccontò del suo viaggio in Italia e delle educate bellezze viste a Firenze, salvo però rievocarle poi nella «Histoire de Juliette». E lì di educato non c’è più nulla, e non c’è immagine attraente che non riveli il suo lato immondo.
Per questo, infine, dalla lettura di queste pagine ricaviamo forse una piccola istruzione anche sul dominio odierno dell’immagine. Sulla non troppo segreta solidarietà fra la rappresentazione patinata della bellezza femminile, proposta da Hollywood, e il suo rovescio, il suo doppio osceno, ossia la dilagante pornografia online.
(Il Messaggero, 12 ottobre 2014)