Non pieghiamo Leopardi alla città di oggi

Acquisizione a schermo intero 27102014 101420.bmpGiacomo Leopardi, Zibaldone: «Il clima d’Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle loro parti più meridionali». Bisogna dunque che ci si domandi se, con un tal clima, in queste nazioni ci si dedichi all’arte della conversazione, arte e costume civile e civilizzatore quant’altri mai. Arte salottiera e illuministica, moralistica e letteraria, borghese e mondana. Ma la risposta è no: l’Italia non è la patria della civile conversazione. A Napoli, per esempio, «si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia, ma non si conversa».

Ora, la Napoli che si vede nel film di Mario Martone non è certo un luogo di fiorite conversazioni. Colori rossi e scuri, meretrici e lazzaroni, grida e pestilenze, e sopra ogni cosa il fumo e la lava ardente del «formidabil monte, sterminator Vesevo». Ma poche volte Giacomo conversa, in verità, lungo tutto il film: non si conversa a casa del padre Monaldo, tra i libri della biblioteca paterna e le sudate carte e lo studio disperatissimo. Giacomo fugge, e raggiunge Firenze, ma neanche lì il giovane poeta si trova a suo agio, poco incline a fare conversazione alla maniera della società letteraria dell’epoca. Non si conversa neppure a Napoli, dove il poeta è trascinato nei gironi infernali della città. Ma anche quando siede al tavolino di un caffè sorseggiando un gelato, sotto il colonnato di piazza Plebiscito, non è affatto per scambiare parole e pensieri con gli altri avventori.

C’è in generale molta poca voglia di parlare «civilmente» lungo tutto il film: voglia di vivere forse, ma nessuna voglia di parlare. O di pensare. I «sovraumani silenzi» incombono, e rischiano sempre di dilagare sopra le poche parole spese e dopo ogni tentativo, da parte del giovane Giacomo, di abbracciare più intimamente la vita. I pensieri rimangono così chiusi nei fogli che Leopardi porta con sé in tutti i suoi spostamenti, in una massa di riflessioni che quasi mai sono rivolte al suo secolo e che disegnano, nella trama del film, un altro luogo: mai pubblico, e mai politico. E in verità proprio per questo raggiungono noi, molto più di qualunque altra parola sia appartenuta all’Italia della prima metà dell’Ottocento. Non è sorprendente perciò che il film di Martone convinca di più quando ci tocca con quelle parole, e quando ci permette di misurare la distanza fra quelle parole – potenti, lucide, spietate – e il mondo circostante: Napoli e l’Italia dell’epoca. È la distanza che Leopardi stesso sperimenta: non a proprio agio nell’orizzonte tradizionale del cattolicesimo legittimista del padre, ma neppure tra le «magnifiche sorti e progressive» che si cercano o si indovinano nei salotti e nei gabinetti scientifici, ai tavolini dei bar o, più tardi, nelle piazze, e che saranno celebrati per tutto il secolo decimonono, secolo «superbo e sciocco».

Ma Napoli, nel film, non appartiene a Leopardi come Leopardi non appartiene a Napoli. «Ranieri mio caro» scrive una volta Giacomo all’amico napoletano «la vita che ho non è tanta, che abbia forza di ammazzarmi». Vita e pensiero non si incontrano, e non c’è nel film un solo pensiero che Napoli dia al poeta, nulla che non siano le aride pendici del Vesuvio. Può darsi che Martone abbia indugiato un po’ troppo sull’amore mercenario e i diavoli che abitano i bassifondi della città, ma più che la rappresentazione offerta da Martone della città dove Leopardi trascorre gli ultimi anni della sua breve vita, più del cielo amabile e pur dell’aria «colerosa» che Leopardi vi incontra, è una domanda metafisica, sul senso stesso dell’esistenza, che mantiene Napoli sullo sfondo del film, e, forse, della storia. Nel secolo delle più ardenti passioni politiche, della formazione dello Stato nazionale, della questione sociale, delle rivoluzioni, il pensiero di Leopardi ha disegnato per sé altri percorsi. Chi volesse riflettere sul destino di Napoli, non dovrebbe allora fare la recensione di quanti cieli azzurri si vedono nel film, o di quante inquadrature sono dedicate al Vesuvio o al golfo, o di quanta musica e di quanto chiasso si ascolti, ma di quanti e quali pensieri Napoli abbia bisogno per trovare le vie della modernità. Di quali conversazioni. Perché però chiederlo a un film, e a un poeta, che quelle vie guarda da una profondissima distanza? Di accorciare quelle distanze tocca a noi, oggi, senza piegare la «varia filosofia» di un pensatore così potentemente inattuale alla misura sempre angusta del nostro difficile presente.

(Il Mattino, 27 ottobre 2014)

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