Archivi del mese: novembre 2014

Blair, l’Europa e il potere buono

Immagine1Non è evidente che possa essere un britannico ad avere le migliore idee sul fondamento dell’unità europea. E non è detto che le idee siano davvero le migliori, se si dice che la ragione, il senso, il perché dell’Europa «non è più la pace, ma il potere». Però se quel britannico è il leader laburista Tony Blair, che è stato a Downing Street per una decina d’anni ed è oggi il rappresentante dell’Unione in Medio Oriente, qualche attenzione converrà prestargliela. Anche perché, siano o no le migliori, le sue idee sono perlomeno chiare.

Sull’Europa Blair ha sempre avuto convinzioni diverse dai principali leader politici d’Oltremanica. Il 23 novembre 2001, poco più di due mesi dopo il crollo delle Torri gemelle, tenne a Birmingham il suo primo grande discorso europeista. In un paese tradizionalmente euroscettico – che non ha aderito all’Euro e ancora oggi discute se rimanere o uscire dall’Unione: una prospettiva, quella dell’uscita, per Blair semplicemente disastrosa – l’allora premier britannico non si limitò a sostenere che il suo paese avrebbe dovuto improntare in termini nuovi il rapporto con l’Europa, ma disse anche, più o meno: prima noi britannici abbiamo sostenuto che l’Unione Europea non si sarebbe fatta, e invece sì è fatta; poi abbiamo detto che certo, l’Unione era fatta, ma così com’era non avrebbe potuto funzionare; infine, quando ha preso a funzionare, che noi inglesi non ne avremmo comunque avuto bisogno. Ogni volta, insomma, siamo rimasti un passo indietro, concluse allora. Ma oggi? Potrebbe dire le stesse cose, oggi? Si può dire che l’Unione europea funziona, se le spinte disgregatrici – dalla Gran Bretagna alla Francia all’Italia – si fanno più forti, se la moneta unica viene percepita come una gabbia soffocante per le economie del continente, invece di essere il mattone principale della costruzione del mercato di beni servizi e persone più vasto del mondo?

Nell’intervista al Corriere di ieri, Blair nomina due cose, che devono tornare a funzionare. La prima è sulla bocca di tutti, anche se non tutti, anzi quasi nessuno la vede allo stesso modo. La prima è, cioè, la crescita: se l’Europa non cresce, è impossibile ridurre il debito. Attenzione: non dice il contrario, non dice quello che finora abbiamo sentito, che cioè se non si riduce il debito, non c’è modo di crescere. Prima la crescita, dunque. E per Blair occorre un intesa politica, anzitutto sul piano degli investimenti pubblici, per rilanciare l’economia, un’intesa sostenuta da un «grande compromesso» fra i principali paesi europei. La capacità di stringere un compromesso è – si potrebbe dire, esagerando un po’ – la miglior prova della superiorità non solo morale e ideale ma politica ed effettuale delle democrazie rispetto ai regimi autocratici. È, però, una prova che bisogna saper dare. Se è vero – come Blair ricorda – che la nascita dell’euro fu anzitutto un fatto politico, per tenere unita l’Europa dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del mondo bipolare, è allora la politica europea che deve sostenerne il peso, e imporre quelle correzioni contro cui recalcitrano gli interessi economici nazionali (anzitutto dei paesi forti, Germania in testa).

Ma poi c’è la seconda cosa. Soprattutto la seconda. La comunità europea è nata, ricorda Blair, per una ragione semplice: per mettere la pace fra popoli che per secoli si sono combattuti. Dopo più di un cinquantennio di pace, però, questo cemento non basta più. In verità nemmeno la pace è più cosa ovvia: basti pensare a quel che accade in Ucraina, e all’imbarazzante astensione dei paesi europei all’assemblea generale dell’ONU di pochi giorni fa. Sulla mozione di condanna del nazismo, presentata dalla Russia di Putin, gli europei si sono astenuti per non scontentare i nazionalisti filo-occidentali ucraini. Ma in generale, in tutti gli scenari oggi aperti nel mondo, l’Europa può esserci solo a patto di avere la forza sufficiente. Blair lo sa e lo dice. Perché dunque l’Europa? Per avere forza. Blair risponde con sorprendente schiettezza: l’Unione Europea può trovare la sua missione solo se dà ai popoli europei la forza che occorre loro. E ciò perché la politica è anzitutto un teatro di forze, e nessuna idea ha realtà effettuale se non si sostiene grazie alla forza. In realtà la sinistra, anche la sinistra italiana, lo ha sempre saputo: è stata, anzi, nella schiera comunista più a lungo di quanto lo sia stata sul piano della cultura e delle idee essenzialmente per questa ragione, perché senza il puntello prestato dai paesi del socialismo certe idee non sarebbero mai avanzate. E d’altra parte nessuna egemonia culturale – politica o religiosa –  potrebbe mai stabilirsi grazie alla mera predicazione: non è mai stato così. Questo non significa che la politica stia tutta nel rapporto di forza. Non è eccesso di realismo. Al contrario: se infatti non si fa in modo che gli ideali siano forti, finirà che solo la forza resterà come unico orizzonte ideale da servire. E questo sì che sarebbe un tradimento del sogno europeo.

(Il Mattino, 28 novembre 2014)

Un non voto contro le Regioni

Fa un po' freddo ma non preoccuparti, Fabrizio Prevedello

Fa un po’ freddo ma non preoccuparti, Fabrizio Prevedello

In attesa dell’esito del voto, il non voto lascia il segno sulla domenica elettorale. Una rondine non fa primavera, due elezioni regionali non fanno un voto politico generale. Ma intanto le elezioni di ieri dicono con chiarezza che le note squillanti che risuoneranno per i vincitori non spengono la nota scura, scurissima, dell’affluenza, che subisce un crollo verticale. Difficile scambiarlo per un segnale di salute del nostro sistema democratico. Il dato può essere per la verità variamente commentato: a seconda che si guardi agli altri paesi europei, o alla tradizione nazionale. Se si tiene al primo confronto, i dati di partecipazione appaiono deludenti ma non così preoccupanti come possono e devono apparire quando invece si tiene al secondo confronto, che evidenzia una paurosa disaffezione dei cittadini dalla politica. Confrontata infatti con la storia elettorale del paese, l’affluenza di ieri è un dato negativo senza precedenti. Va detto però che su un tracollo così clamoroso incide ovviamente, e molto, la variabile locale: in Emilia Romagna si è andati al voto dopo le dimissioni di Vasco Errani, condannato questa estate in primo grado per falso. A un epilogo così drammatico di un’esperienza amministrativa che, con piccoli cambiamenti e una sostanziale continuità, dura da decenni, si è poi sommata la bufera – prima mediatica che giudiziaria – dei rimborsi spese dei consiglieri regionali, e di giustificativi imbarazzanti per acquisti in nessun modo riconducibili all’attività politica. Succede così che la Calabria può vantarsi di una percentuale di affluenza superiore all’Emilia Romagna, in passato regione leader in termini di civismo e partecipazione: un sorpasso sorprendente, ma ottenuto in discesa, perché l’affluenza cala ovunque. E di parecchi punti percentuali. A non dire, peraltro, che anche l’esperienza calabrese è terminata in maniera traumatica, per effetto di una condanna in primo grado del governatore uscente, Giuseppe Scopelliti. Come meravigliarsi, allora, se le due Regioni esprimono nel non voto il disgusto determinato da finali di partita così ingloriosi, e dall’assenza di una riconoscibile dimensione progettuale o ideale da qualsiasi ipotesi di governo locale? Nelle vicende amministrative di un sistema regionale rimasto finora impermeabile all’esigenza di riforme e cambiamenti profondi, il prerequisito della credibilità non viene soddisfatto da un personale politico grigio, scadente, trasformistico (specie al Sud), che non accende né entusiasmi né passioni. E, nel settimo anno della crisi, viene inevitabile che l’avvitamento del notabilato politico verso una gestione sempre più miope del potere (e del sottopotere clientelare) allontani i cittadini dalle urne. D’altronde, se nello scenario nazionale si percepiscono segnali di cambiamento, è difficile individuarne di altrettanto netti sul piano locale. I probabili vincitori, Stefano Bonaccini in Emilia Romagna e Mario Oliverio in Calabria, entrambi del Pd, non appartengono alla nouvelle vague renziana se non per cooptazioni successive. Se pure dovessero vincere, non si può dire che abbiano finora saputo convincere e motivare il voto. A chiunque vinca, infatti, mancherà comunque la maggioranza assoluta degli aventi diritto. Per il momento, i numeri dell’affluenza certificano questo: la maggioranza reale non c’è, sta da un’altra parte almeno rispetto ai palazzi della politica regionale.

Platone invitava i filosofi a rannicchiarsi sotto un muricciolo, in tempi di bufera. E i filosofi erano per lui quelli che dovevano prendersi cura della cosa pubblica, e finanche governare le città. Quando però non sussistono le condizioni per il buon governo, suggeriva di ritirarsi e aspettare. Ora, il voto di ieri non è stato un voto di attesa: una parte dei cittadini si è effettivamente ritirata dall’esercizio del voto, dando forma alla più ampia defezione dagli istituti della rappresentanza democratica che finora si sia prodotta in Italia. Si può solo sperare, allora, che la classe politica – a cominciare dai nuovi presidenti di Regione – raccolga il segnale e provi finalmente a rialzare il capo. Ma intanto ieri, per la politica italiana, è stata una giornata amara. Da capo chino, e cosparso di cenere.

Perché Napoli ha diritto alla certezza

Acquisizione a schermo intero 20112014 141400.bmpDi nuovo in bilico, la città attende che il Consiglio di Stato si pronunci oggi sui ricorsi proposti dal governo e dalla prefettura di Napoli contro la decisione del Tar di sospendere gli effetti dell’ordinanza prefettizia, che in ottemperanza della legge Severino sospendeva il sindaco Luigi De Magistris a seguito di una condanna in primo grado, per fatti e comportamenti relativi alla sua passata esperienza di magistrato. Mettere in un’unica proposizione il nodo giuridico, politico e morale in cui è stretta Napoli non è facile, ma descrive perfettamente la situazione aggrovigliata in cui si trova la città, e l’incertezza che regna sul suo futuro politico e amministrativo, cioè sul suo futuro tout court.

Il Consiglio di Stato può seguire la linea dei giudici amministrativi di primo grado, che giudicando sbilanciata la misura della sospensione posta a «salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» – ma a danno dell’amministratore che non ha ancora subito una condanna definitiva -, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale che tuttora pende presso la Suprema Corte, tanto più che la misura sanzionatoria è scattata retroattivamente. Oppure può valutare che la sospensione stabilita dal prefetto discende strettamente dall’applicazione del dettato della legge Severino, non osservando la quale il prefetto avrebbe potuto persino incorrere in un’omissione di atti di ufficio: in questo caso, la decisione andrà nel senso di una smentita del Tar, e il sindaco di Napoli sarà di nuovo sospeso dalla carica.

È difficile fare previsioni: lo è sempre, quando una legge non è una buona legge. Tanto più che nella matassa sono implicati, insieme ai profili giuridici, anche quelli politici, e persino quelli morali. Perché non v’è dubbio che la decisione del Consiglio di Stato interviene sulla vita politica cittadina, e può cambiarne il corso, così come è indubbio che l’intervento è richiesto da una legge che ha preteso di irrogare una sanzione sulla base non di un giudicato, ma di qualcosa come una squalifica morale, che si vuole discenda dalla condanna di primo grado. In ogni caso, comunque il Consiglio di Stato si sarà pronunciato, rimarrà da attendere il verdetto della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale della legge.

Dopodiché c’è Napoli, c’è la città, la capitale di un Mezzogiorno sempre più investito dalla crisi, e sempre meno capace di individuare un sentiero di sviluppo per venirne a capo. L’incertezza a cui si rimane appesi è sicuramente conseguenza di un garbuglio giuridico, intorno al quale si arrovellano i magistrati, ma è anche espressione fedele di una debolezza politica che la città sconta. Debolezza che si registra su entrambi i versanti: sia su quello sul quale è fieramente attestato il sindaco, disposto a procombere da solo ma non a prendere atto delle difficoltà in cui Napoli è impantanata, sia sull’altro, sul quale attende la «turba magna» delle altre forze politiche, che ancora tergiversano senza alcuna vera capacità di iniziativa politica, come se niente e nessuno potesse sospingerli ad agire.

Perché per un verso, reintegrato o no, De Magistris conta su una maggioranza precaria, quasi sporadica, e  ormai priva di un disegno politico riconoscibile; ma, per altro verso, che si tratti del centrosinistra o del centrodestra, non c’è modo di vedere profilarsi un’alternativa netta e chiara, che sappia indicare una prospettiva per il dopo De Magistris. Il tempo sospeso che Napoli vive discende sì dalle circonvoluzioni della giustizia amministrativa, ma in realtà è figlio di ben altro: da una parte dell’isolamento politico in cui si è cacciato il sindaco, senza più una reale interlocuzione con gli altri livelli istituzionali e quindi con una capacità di governo di assai più corto respiro; dall’altra dell’inazione delle forze di opposizione, che non riescono ad approfittare dell’impasse cittadina per rimettere in moto la politica, e candidarsi credibilmente alla guida della città.

Se si volesse fare della letteratura, si potrebbe trovare in questo stallo una metafora perfetta della condizione in cui vive la città. Ma si tratta di amministrazione, non di letteratura, e sarebbe molto meglio lasciar perdere le metafore.

(Il Mattino, 20 novembre 2014)

Memoria e futuro, ma chi li ha visti?

114499239_KjTQxE_1416316367Il Forum delle Culture di Napoli è ormai vicino al bilancio. E si vorrebbe pure vedere: siamo a fine 2014, porta l’anno del 2013, forse avrà comunque una coda nel 2015. Ma i numeri, impietosi, sono già in larga parte disponibili, e questo giornale li ha fatti ieri: poco pubblico, poco o pochissimo indotto, poca o pochissima comunicazione, poca o pochissima promozione dell’immagine della città e del territorio, pochi eventi degni di questo nome, nessun risultato duraturo. A fronte di una spesa di sedici milioni di euro – di cui dieci per la città di Napoli – solo quattrocentomila spettatori (secondo i calcoli di Comune e Regione). Un esito lontanissimo dalle aspettative. Forse però era sbagliato nutrirne, di aspettative. Lo ha detto anche Claudio De Magistris, fratello nonché consulente del sindaco: attese troppo grandi, risultato mediocre. Ma non basta una dichiarazione sconsolata per evitare che il nome della città sia legato ad un fallimento per certi versi persino imbarazzante. Per chi pensava che Napoli avrebbe cambiato volto, che si sarebbe proposta come una capitale mondiale, che avrebbe colto l’occasione per piantare le proprie millenarie radici nel futuro, che avrebbe favorito una rinascita grande di fervore culturale, iniziative, progetti – per chi l’aveva vissuta o pensata così, questa fine malinconica e rassegnata rischia di essere una dichiarazione di resa: l’ammissione che la dimensione universale del Forum, e la portata di una manifestazione così ambiziosa, non può essere assicurata da una città troppo impegnata in beghe locali, troppo chiusa in piccole o grandi conventicole, assolutamente impreparata a fornire il primo e fondamentale requisito per gestire simili occasioni: tenere tutto insieme, stringere tutto in un unico disegno, in un progetto coerente, condiviso e credibile. Senza avere pretesa alcuna di fornire una definizione che metta tutti d’accordo su cosa sia cultura, visto però che di un Forum delle culture si è trattato, voglio provare a suggerire due maniere di caratterizzare l’oggetto mancato di questa kermesse. Fare cultura – così almeno dicono gli antropologi – è intrecciare cesti, compiere quel paziente lavoro di tessitura che consiste nell’attorcigliare fibre, e tenere così insieme il dentro e il fuori, il pieno e il vuoto, l’alto e il basso, gli uomini e gli dèi. Fare cesti, raccogliere, riunire: attività fondamentali da che l’uomo è l’uomo. A Napoli però ormai non riesce più: tutto si slabbra, si sfilaccia, si separa. La storia del Forum – i conflitti di competenza, il cambio di uomini e di amministrazioni, le gelosie e le rivalità, gli strascichi polemici – ne è la più lampante delle dimostrazione. Nulla si tiene insieme, tutto finisce un po’ di qua e un po’ di là, qualcuno va per conto suo, nessuno riesce a tenere le fila e dirigere ma tutti si prendono un pezzetto, accontentano un assessore, si fanno amico un operatore, mettono il cappello da qualche parte. Il senso d’insieme si perde, il Forum delle culture si vanifica. Ma fare cultura significa anche un’altra cosa: lasciare resti. E così fare memoria, e consegnarla ad una storia. Gli animali infatti, non lasciano resti, ricominciano ogni volta daccapo. Solo l’uomo ha oggetti culturali, che sono per l’appunto quel che resta del suo lavoro, e da cui si può ripartire. Si ricomincia almeno da tre, insomma. Ma il Forum delle Culture, purtroppo, di resti, di tracce, ne lascia davvero poche. Non sono sicuro che arrivino a tre. Ed è un peccato grande: in una città che conserva ancora memorie di secoli, aver fatto poco o nulla di memorabile, in grado di sfidare – che so – almeno un decennio. Vengono poi i discorsi sul turismo che doveva essere incrementato e che incrementi, di fatto, non ne ha conosciuti; o sugli ambienti cittadini che avrebbero potuto essere rigenerati e che non lo sono stati, o infine sulla politica che non ha saputo restituire alla città una dimensione consona alla sua tradizione, procurando solo una scia di recriminazioni e il solito palleggio di responsabilità. E una distanza crescente da Roma, e un senso di isolamento – persino, a volte, di sfida – che certo non poteva giovare allo spirito della manifestazione. Ma ormai va così. E uno si scorderebbe pure il passato, e chi ha avuto e chi no, se avesse un futuro da immaginare. Il Forum doveva o almeno poteva servire a questo, ma se ne sta andando pure lui. (Il Mattino, 18 novembre 2014)

Se l’intolleranza genera violenza

Acquisizione a schermo intero 16112014 113046.bmpOra che gli studenti hanno diramato il video, è doveroso rinnovare la solidarietà a Paolo Macry, per l’irruzione subita nei giorni scorsi all’università di Napoli, da parte di un gruppo di attivisti studenteschi presentatisi bruscamente alla sua porta. A chieder conto delle cose scritte dal professore, e, quasi, a chieder conto del fatto di essere un professore. Evidentemente, agli studenti sfugge qualcosa, se diffondono il video e lo accompagnano con un comunicato in cui sostengono di aver portato le prove che non c’è stata alcuna violenza, alcuna intimidazione, alcuna sopraffazione. No, la violenza non c’è stata ma, a termini di vocabolario, il tentativo di intimidazione c’è stato, e pure bello grosso. Presentarsi in molti, senza preavviso, facendo ressa, alzando i toni, usando espressioni assai poco riguardose, e chiedere (con l’aria minacciosa di chi pretende) un confronto in modi e circostanze decise da loro, e offendere, e togliere il disturbo pregando il professore di ringraziare gli studenti per la loro presenza, perché altrimenti non l’avrebbero finita lì, significa una cosa sola: cercare di incutere timore. Cercare di mettere soggezione. Non discutere: accusare. La prima condizione di un libero confronto è infatti che esso non si svolga sotto una simile pressione, per l’urgenza decisa da una parte soltanto; né si può essere chiamati a subirne le modalità – qui! ora! – per decisione presa univocamente da altri. Quando succede, non siamo più al confronto: siamo al processo popolare.

Paolo Macry è uno dei migliori intellettuali di questa città; e uno dei più liberi. Scrive quello che pensa, e pensa quello che dice. Non ragione per schemi precostituiti, non rinuncia ad argomentare i propri giudizi, non ritira la penna dal foglio per timore di questo o di quello. Il tentativo di intimidazione non poteva, dunque, riuscire. Ma anche se Macry avesse la metà della cultura e della lucidità d’analisi di cui dà prova nei suoi articoli, non per questo dovrebbe subire le aggressioni verbali di studenti incolleriti. E l’Ateneo, che ha come minimo un codice etico a cui riferirsi, non può passare sotto silenzio un episodio del genere. I ragazzi si meravigliano, nel comunicato, che ad esprimere solidarietà a Paolo Macry siano intervenuti autorevolissimi uomini politici, come il governatore Stefano Caldoro o Antonio Bassolino. Sembra così che si stupiscano del significato della parola autorità, di ciò che in democrazia l’autorità rappresenta e di ciò che ne comporta l’esercizio. Perché non può passare come normale amministrazione il prodursi di un simile corto circuito, per cui dalle colonne di un giornale si finisce dinanzi a un gruppo di studenti a rispondere nella forma di un interrogatorio. Gli interrogatori non si fanno dinanzi a tribunali improvvisati. E non si risponde a chi ti chiede di farlo seduta stante, sol perché lo pretende.

Infine, gli studenti rimproverano Macry di aver ingigantito la cosa. Evidentemente non ne hanno compreso le proporzioni. Forse, checché ne dicano, non hanno sufficiente consapevolezza del clima che c’è nel paese, del disagio e della sofferenza sociale. O, se ce l’hanno, non ne hanno abbastanza di quanto poco basti ad infiammare animi già abbastanza accesi. Un episodio è un episodio, poi forse ce ne sarà un altro, ma quello dopo ancora è facile, purtroppo, che sia un episodio di violenza, e questo non possiamo davvero permettercelo. Non noi, non loro, né nessun altro.

(Il Mattino – Napoli, 16 novembre 2014)

La Campania laboratorio dei nuovi poli

elef_bSembra di sentire quella filastrocca dei bambini, con gli elefanti che ballavano sul filo di una ragnatela: la ragnatela, ma robusta, è evidentemente il patto del Nazareno e a ballare non sono elefanti ma i ben più piccoli partitini di centro, che non si capisce ancora se ballano sopra o sotto il tre cento, sopra o sotto il quattro: sopra o sotto, cioè, la soglia di sbarramento. Quanti finiranno giù? Quanti invece rimarranno appesi al filo? Intanto, Renzi e Berlusconi procedono: la legge elettorale cambia rispetto al testo già approvato al Senato, e il premio va alla lista, non più alla coalizione. La sostanza del patto è questa, e cambia davvero poco se l’asticella sarà portata un punto percentuale più su, o un punto più giù. Difficile cioè che abbia ragione Maurizio Sacconi, quando sostiene senza tema di ridicolo che, posta la soglia al tre per cento, è garantita la rappresentatività, mentre al quattro si tratterebbe di una «soluzione bastarda». Politicamente parlando, con il premio alla lista è tutta un’altra musica. Fino ad oggi valeva infatti il principio: «extra coitionem nulla salus»; ma adesso la coalizione salta, e chi vorrà cercare la salvezza dovrà se mai chiedere un posto nella lista dei partiti maggiori. A meno che non abbia una sua propria, significativa consistenza: elettorale e culturale, ideologica e politica, tanto da portare in Parlamento qualcosa di più di un manipolo di deputati passati fortunosamente oltre la soglia (e magari destinati subito dopo al sempre più variegato gruppo misto). Ma i partiti che oggi galleggiano in mezzo al mare della politica, come scialuppe che hanno mollato gli ormeggi da ben più grandi vascelli in difficoltà, non hanno affatto quella consistenza: sono solo naufraghi in cerca di salvezza. Sarebbe sbagliato quindi paragonarli ai vecchi, e in qualche caso persino gloriosi  partiti proporzionalisti della prima repubblica – il liberale, il repubblicano, il socialdemocratico. Sono, piuttosto, accrocchi non sempre bene assortiti di notabili locali, tenuti insieme quasi soltanto dai meccanismi di voto, e dalle leggi e leggine collegate.

Che però si muovono di conseguenza. Si mettono cioè in cerca di un approdo che metta in salvo la scialuppa. In Campania, questa spasmodica ricerca produce fra l’altro il seguente risultato, che nella stessa giornata, a poca distanza l’una dall’altra, esce l’agenzia che dà notizia della dichiarazione del coordinatore napoletano del Nuovo Centrodestra, Raffaele Calabrò, secondo la quale bisogna andare avanti con Caldoro, e quell’altra che riferisce invece della trattativa avviata da Ncd con il partito democratico in vista delle ormai imminenti elezioni regionali, sotto l’impulso non di altri che dello stesso Raffaele Calabrò.

Si dirà: sono le tipiche fibrillazioni che precedono la stretta finale, e naturalmente è colpa dei giornali, che riportano male e distorcono. Ma, di fatto, nessuno sa in questo momento con qualche ragionevole certezza se il Nuovo Centrodestra starà di qua o di là. E probabilmente, allo stato attuale, non lo sanno neppure i dirigenti dell’Ncd. Se d’altronde la madre di tutte le battaglie che Alfano conduce a Roma – quella per il tre cento – ha il significato di un salvacondotto per sé e pochi altri, è normale che la stessa logica di sopravvivenza si propaghi anche ai piani inferiori. E quindi anche in Campania.

La logica di sistema che il patto del Nazareno però innesta contiene indubbiamente una spinta decisa al ricompattamento del centrosinistra e del centrodestra (e in più anche una scommessa sul grillismo, che entrambi i contraenti si propongono evidentemente di contenere e riassorbire). L’idea dunque che a destra le cose possano cambiare attraverso la disgregazione di Forza Italia e la formazione di un nuovo centro (l’ipotesi da cui Alfano e i suoi erano partiti), è destinata a tramontare, e così le scialuppe che erano partite in quella direzione, e che nelle diverse realtà locali si trovano in punti diversi del loro cammino, prima o poi saranno costrette a rientrare, se non affonderanno tristemente durante la difficile traversata. Altro spazio, altro mare, obiettivamente, non c’è.

(Il Mattino, 13 novembre 2014)

Il «gomorrismo» che fa male a Saviano

saviano-23Che cosa vuol dire condannare o assolvere l’avvocato dei Casalesi, per le minacce portate contro Roberto Saviano e Rosaria Capacchione? Qualunque cosa voglia dire in termini processuali, questi termini sono di gran lunga sopravanzati dal significato che la sentenza prende su un altro piano: quello mediatico. A che serve, infatti, una sentenza che manda assolti Bidognetti e Iovine, e condanna il loro difensore? A nulla: non a Saviano né a tutti noi. Una minaccia che non viene dai due capi camorra non è più la stessa minaccia. Ma in verità l’esito processuale conta fino a un certo punto, e al limite non conta affatto.

Meglio non essere fraintesi: per il loro lavoro, Roberto Saviano e Rosaria Capacchione si sono esposti davvero, con coraggio, pubblicamente, rischiando l’incolumità personale. E conducendo dopo di allora una difficile vita sotto scorta. Non si può usare strumentalmente il paradosso della sentenza di ieri, in attesa dei prossimi gradi di giudizio, per diminuire la serietà e la gravità dei pericoli corsi. Così come non si può diminuire l’importanza delle loro inchieste, delle loro denunce, della loro attività di scrittura. Alla camorra hanno dato fastidio, molto fastidio. E continuano a darne.

Ma nella costruzione del «gomorrismo», di una gonfia mitologia dell’inferno e dell’indignazione, quel che rileva sono i personaggi e la storia e una certa maniera di raccontarli. La narrazione civile è un tema importante della storia pubblica di un Paese: non è affatto indifferente che cosa si racconta e come. Il grande merito di Roberto Saviano è stato quello di puntare una luce viva sulle attività dei Casalesi, che prima del suo libro erano a mala pena conosciute, o non conosciute affatto. Per questo, Saviano paga tuttora un prezzo personale molto alto.

Ma un conto sono i fatti di Gomorra, un conto è l’assegnazione delle parti che il sensazionalismo mediatico, accompagnato dall’eccezionalismo giudiziario, produce. Quanto al il primo passi, ma il secondo non è affatto indolore che si affermi, almeno per la civiltà giuridica di un paese. Ora, «Repubblica» ha spiegato ai suoi lettori che il processo Spartacus 2, di sei anni fa, fu «rovesciato dai camorristi in un vero e proprio processo contro la parola: la parola dello scrittore, la parola del giornalismo». Ovviamente non fu affatto così: non solo nessun camorrista può condurre processi «veri e propri», ma soprattutto – come Saviano stesso non si è stancato di spiegare – tutto avrebbero voluto i boss meno che metter su un processo contro la parola. Non è certo così che si mette a tacere qualcuno. Questo è invece quello che si è voluto fare dopo, ossia la produzione del mito: è insomma il racconto di «Repubblica», la rappresentazione che ci viene restituita sui giornali, e che necessariamente – perché si stagli limpida e netta e senza sfumature – finisce col mettere da parte qualunque valutazione di fattispecie giuridiche, strategie difensive, condotte processuali. Se si sta dalla parte giusta, il resto sono chiacchiere, cavillazioni, sofisticherie. Il resto è del demonio, e sta dalla parte sbagliata del Paese. E ovviamente la parte giusta ha questa infallibile caratteristica: che presume sempre di essere tale, senza incertezze.

Provate allora a entrare in uno studio forense, e a chiedere, a cercare in punta di diritto di raccapezzarvi intorno alla sentenza di ieri, anche solo per fare dell’accademia, per formulare qualche ipotesi di scuola: il «gomorrismo» non vi costringerà a supporre in tutto ciò un indebolimento della vostra coscienza morale, uno spirito da Azzeccagarbugli? Dopo tutto, l’avvocato che è stato condannato non è accusato, in altro processo, di associazione a delinquere? Non è a tutti chiaro come stanno le cose? E se in appello andranno tutti assolti, chi avrà il coraggio di dire che forse era sbagliato il processo, e tanto più era sbagliato, condotto male, fondato su presupposti anomali, quanto più si ha la certezza morale che i boss sono colpevoli, e con loro pure l’avvocato?

Se fosse tutto chiaro non vi sarebbe nemmeno bisogno dei processi. Succede però, che siccome si devono pur celebrare, li si piega e li si tira là, dove il «gomorrismo» li ha già sbrigati. Ma se c’è un’idea che occorre conservare del diritto, è che è diritto, e non si deve piegare. Nemmeno alla migliore delle buone coscienze, O al più sensazionale dei titoli.

(Il Mattino, 12 novembre 2014)

L’indegnità che divide Renzi e Cantone

Acquisizione a schermo intero 10112014 205003.bmpPuò darsi che la legge Severino non presenti profili di incostituzionalità. Certo, la vicenda De Magistris qualche dubbio lo pone, almeno agli occhi del tribunale amministrativo che, accogliendo il ricorso del Sindaco, lo ha reintegrato nelle sue funzioni, dopo che a seguito dell’applicazione della legge era scattata invece la sospensione. Vedremo quali saranno le decisioni in merito della Suprema Corte, ma si comprende bene la presa di posizione del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che all’indomani del provvedimento del Tar ha subito manifestato l’intenzione di correggere il dettato di legge.

L’opinione del Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, è parzialmente diversa. E richiede di essere ascoltata con attenzione, non solo per il ruolo che Cantone occupa, ma anche per l’esperienza e le conoscenze che, da magistrato, ha maturato in materia. Cantone ha spiegato per quale motivo, a parer suo, e indipendentemente dalla questione del sindaco di Napoli, la legge Severino sia una legge necessaria ed opportuna, che fa al caso nostro. Al caso cioè di un Paese che non è in grado di allontanare dalla vita politica attiva personaggi discutibili, chiacchierati, perfino condannati in primo grado, senza che per l’appunto sia una legge a intervenire e obbligare. Cantone ha sostenuto che, certo, può essere necessario restringere i casi in cui scatta la legge, per limitarla alle fattispecie più allarmanti, ma resta appunto che per reati gravi, come la corruzione e la concussione, è bene che la sospensione sia stabilita per legge fin da quando si ode la sentenza di primo grado, e dunque anche prima della pronuncia definitiva di colpevolezza. Non è in questione – ha detto – la presunzione di innocenza, che non sarebbe riguardata dal provvedimento, ma l’indegnità morale del condannato in primo grado, che proprio per questa indegnità deve essere allontanato, secondo il magistrato, dalla carica pubblica.

Le preoccupazioni di Cantone si comprendono bene, e sono pure condivisibili: il contrasto alla corruzione e al malaffare passa infatti anche attraverso un’opera di rinnovamento del ceto politico e amministrativo che le leggi devono, quando possono, aiutare. E bene fa Cantone a intervenire tutte le volte in cui occorre segnalare un indebolimento degli strumenti legislativi atti a contrastare i fenomeni criminali.

Tuttavia, sull’argomento che usa, è bene avanzare più di una perplessità. Se infatti, come vuole Cantone, la condanna in primo grado dimostra «l’impresentabilità» dell’amministratore pubblico che la subisce, e giustifica quindi la sospensione dalla carica, ne consegue che non in virtù di un giudicato, ma solo di un giudizio morale emesso da un pubblico ministero, e fatto proprio dai giudici del primo grado, un rappresentante del popolo, eletto dal popolo, viene sospeso nell’esercizio delle sue funzioni. Ciò significa: che in materia di rappresentanza elettiva, la  moralità o l’immoralità finisce col pesare quanto l’innocenza o la colpevolezza; che a dichiarare quale status morale si possegga sia d’ora innanzi un magistrato; che la distanza fra la sanzione giuridica e la colpa morale si attenua, nel caso, fino a scomparire.

Ora che tutto ciò sia pericoloso lo dimostra non il caso scandaloso del sindaco, che, pur avendo patteggiato una condanna, rimane tuttavia in carica (si dà anche questo), ma quello dell’amministratore pubblico che nei gradi successivi venisse assolto: difficile restituirgli l’onore, dopo che lo hai cacciato da palazzo di città. E ancor più difficile sostenere di averne rispettato i diritti: suoi e dei suoi elettori.

Certo, a fronte dei casi in cui l’elettorato premia i farabutti (che spesso, si noti anche questo, si sa esser tali anche senza qualunque sentenza di qualunque grado), la soluzione migliore sarebbe di cambiare l’elettorato. Ma non lo si può fare, e in verità il fatto che con la legge Severino si sia cercato qualcosa come un surrogato, non potendosi adottare la soluzione più drastica, non depone a favore della legge.

Nel nostro Paese, d’altro canto, le misure drastiche non mancherebbero. Vige una legislazione antimafia che consente infatti di prenderne: non siamo affatto molli o imbelli, su questo fronte. Ma si tratta di una legislazione speciale che sarebbe decisamente avventato prendere a modello di civiltà giuridica, dal punto di vista almeno dei principi fondamentali del diritto. Ecco, domandiamoci se è davvero questo che vogliamo, avvicinare sempre più le leggi ordinarie agli standard di garanzia più limitati offerti dalla legislazione antimafia: è davvero questa la via che il Paese deve percorrere? Rispondere di no non significa affatto essere tolleranti  con il malaffare, o voler convivere con la corruzione, ma tenere al buon ordine delle leggi, e a quegli elementi liberali del diritto che devono continuare a parerci irrinunciabili, chiunque segga sulla poltrona di primo cittadino della nostra città.

(Il Mattino, 10 novembre 2014)

De Girolamo al mercato delle elezioni

Acquisizione a schermo intero 09112014 131603.bmpNunzia De Girolamo, leader campano del Nuovo Centrodestra, pensa e dice che Caldoro deve smetterla di fare il socialista, o l’ex socialista, altrimenti lei (loro, l’Ncd) ne trarrà le conseguenze, passando armi e bagagli con il centrosinistra. Naturalmente, è un’impresa ardua capire in quale senso della più che centenaria parola Nunzia De Girolamo intenda che Caldoro non debba più essere socialista; cosa, nella politica regionale, sia così gravemente viziato di socialismo da suscitare le perplessità dell’ex ministro: quali provvedimenti, quali atti, quali decisioni. In realtà l’impresa non è affatto ardua: è assolutamente impossibile. E tutto preoccupa la Di Girolamo meno che le traveggole del socialismo reale in una sola regione, la Campania. Quello che davvero preoccupa – anzi: interessa – la De Girolamo è di far pesare i voti del Nuovo Centrodestra. Far pesare il sostegno a Caldoro e, se non pesa abbastanza, toglierlo. Tutto qua: non c’è bisogno di frugare fra i sacri libri del socialismo, e nemmeno fra le pieghe del bilancio regionale. Le elezioni si avvicinano e, nonostante la promessa di novità scritta addirittura nel nome della sua formazione, Nunzia De Girolamo rispolvera il più vecchio (e, bisogna dirlo, collaudato) modo di intendere la politica: cosa mi dai, cosa ti do. E recupera anche la sperimentatissima politica dei due forni: se siamo determinanti per la vittoria del centrosinistra, spiega ad alta voce, anche da quella parte faremo lo stesso ragionamento: cosa mi dai, cosa ti do. E alla fine tireremo le somme. Per ora minacciamo. A sinistra chiediamo che non si facciano le primarie, perché noi non ci mettiamo al seguito di nessuno; e a destra, invece, chiediamo magari l’opposto: che le primarie si facciano perché nessuno regala niente a nessuno e dove sta scritto che Caldoro è il nostro candidato. Nessun apprezzamento – né positivo né negativo – per il metodo delle primarie, solo questioni di opportunità. E naturalmente nessun giudizio di merito, e nessuna valutazione programmatica.

Ora, se fosse soltanto un racconto malevolo delle intenzioni del Nuovo Centrodestra, si potrebbe pure pensare di aver travisato. Ma la De Girolamo ha esposto tutto a chiare lettere in una riunione dei maggiorenti del suo partito: c’è poco da fantasticare. Le cose, dunque, stanno così: gli equilibri politici della regione possono essere decisi sulla base di un mercanteggiamento di tale fatta. Chi pensava che basta essere giovani, e donne, per cambiare il paese, immettere nuove idee e condursi con ben altro stile, è servito. Chi si faceva illusioni sulla politica 2.0, sui nuovi partiti nati dal disfacimento dei vecchi, o sulla liberazione di nuove energie compresse dalla cappa novecentesca delle consunte ideologie: è servito pure lui.

Ma è inutile fare gli ingenui: la partita in Campania può essere davvero decisiva. Se il dato delle europee potesse essere considerato un punto di partenza, è chiaro che il centrosinistra sarebbe favorito. Ma il voto dello scorso maggio godeva dell’effetto Renzi, che non è affatto chiaro se si manifesterà anche l’anno prossimo, in una partita in cui, al momento, il presidente del Consiglio non è affatto voluto entrare. Sta di fatto però che il centrosinistra può persino fare cappotto: prendersi la Campania e con la Campania anche le altre regioni che vanno al voto. I voti del Nuovo Centrodestra fanno gola, e la De Girolamo lo sa.

Solo che non fa nulla per nasconderlo. Non prova neanche per sbaglio a proporre istanze, programmi, idee. Nulla del genere. Nello schema politico che da Benevento la De Girolamo è riuscita, bruciando le tappe, a portare sino a Roma, e che, dopo qualche disavventura, torna ora di nuovo a galla a Napoli, non è previsto alcun investimento sul piano culturale o programmatico. Altro che socialismo! Quel che c’è sono cordate, pezzi di personale politico, rimasugli di classe dirigente che salgono sulla zattera dell’Ncd in attesa di capire a che santo votarsi, cioè come si strutturerà il nuovo sistema politico.

In tutto ciò ci sono anche effetti sistemici: quanto più infatti l’offerta politica si struttura intorno a formazioni maggioritarie, tanto più succede che i piccoli partiti si svuotino di identità per fungere esclusivamente da cuscinetto fra i partiti maggiori, una specie di purgatorio benevolente per chi vuole passare da una maggioranza all’altra, possibilmente senza mai finire all’inferno dell’opposizione. Non è inevitabile, ma succede: non meno, ma sempre più spesso, secondo le migliori tradizioni trasformistiche del nostro paese. Che una volta avevano almeno il senso di grandi operazioni politiche, e che ora invece hanno solo la taglia modesta di piccoli uomini (o donne). D’altronde, il duca La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia non è che l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Ecco, di tutto si può accusare la De Girolamo, meno che di essere ipocrita.

(Il Mattino, 9 novembre 2014)

Azioni giudiziarie e lotta popolare

come-generare-il-vapore_690092b1a052fe4bad74796d6adda8e6«Azioni giudiziarie e lotta popolare»: è la tenaglia con cui si prova ad organizzare la resistenza, da un lato,  contro la decisione del governo di affidare a un commissario di nomina governativa la gestione dell’area di Bagnoli e, dall’altro, contro una strategia di smaltimento rifiuti efficiente che non ci condanni a pagare nuove salatissime multe all’Unione Europea.

La cosa sorprendente (ma non troppo) è che quella coppia di termini è impiegata dal sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che così lascia ufficialmente il campo dei poteri democratici per passare armi e bagagli dalla parte della contro-democrazia. Non si tratta di nulla che il sindaco che tutto voleva scassare non abbia già praticato, da ultimo nelle settimane di sospensione dalla carica di primo cittadino, ma che nelle parole usate contro il provvedimento del governo trova una formulazione perfetta, da manuale. Il manuale, s’intende, è quello del politologo francese Pierre Rosanvallon: scritto qualche anno fa, il saggio di Rosanvallon si intitola appunto, molto significativamente, «La contro-democrazia», e reca un sottotitolo non meno significativo: «La politica nell’era della sfiducia». Il libro prova infatti a rispondere alla domanda: come si esprime la partecipazione democratica, quando la politica istituzionale non gode più della fiducia dei cittadini? La complicazione ulteriore rappresentata dal caso De Magistris – cioè da un uomo delle istituzioni che pretende tuttavia di incarnare la sfiducia nelle istituzioni, e così di coagulare consenso – non era contemplata nel libro, che infatti è di qualche anno fa. Ma tutto il resto c’è: tutta la fenomenologia, varia e articolata nel tempo e nello spazio, di come si faccia sentire la voce dei contro-poteri più o meno spontanei, più o meno indipendenti, che vigilano, denunciano, manifestano e giudicano, e di come ne risultino diminuiti la democrazia rappresentativa e i pubblici poteri, tutto questo c’è ed appartiene alla diagnosi.

Quanto alla prognosi, forse c’è da essere un po’ meno ottimisti di quanto non fosse Rosanvallon, che nel libro salutava con qualche speranza le forme di partecipazione che si manifestano al di fuori dei circuiti della rappresentanza democratica, e invitava a non confondere questa politica «negativa» – politica della defezione e dell’astensione dalle urne, del rifiuto e dello scontento nelle piazze – con una pura e semplice depoliticizzazione della società.

Di fatto, però il risultato è proprio la confusione, a volte la paralisi, e sempre l’impaludarsi della politica in un gioco di veti reciproci e nel proliferare di istanze non legittimate democraticamente.

Non molto diversamente vanno le cose ad Acerra, dove minaccia di esplodere nuovamente la crisi dei rifiuti per la resistenza opposta dai cittadini al conferimento delle eco-balle di incerta natura. Gli attori investiti del problema sono la Regione, l’impresa, i comitati, e il vescovo. Sebbene le problematiche siano molto diverse da Bagnoli si assiste ad un analogo copione, in cui brillano per assenza i partiti. Sono sostanzialmente assenti sul territorio, privi di una elaborazione progettuale, privi anche della capacità di articolare i bisogni della popolazione, la quale dunque si auto-organizza, si esprime in comitati spontanei, preme sulle figure istituzionali lasciate sempre più sole a fronteggiare la protesta. La quale peraltro cresce e si forma come le bombe d’acqua: con la stessa, apparente casualità, in punti singolari e per singole tematiche. Di visione generale non c’è traccia. E mentre l’acqua cade giù, i partiti, invece, evaporano. Così si arriva alle mamme esasperate, che alle telecamere spiegano che i camion con le ecoballe andavano fermati «per il principio di precauzione». È una dichiarazione che merita di finire non già nei libri di scienze ambientali, ma sì in quello di Rosanvallon. E non solo perché le mamme sono in Italia un tradizionale contro-potere, ma perché l’unico modo di non agitare il principio della precauzione indipendentemente da ciò che da esso principia – e cioè: sempre e comunque – è disporre di un opposto principio di fiducia, cioè di affidamento ad un potere legittimo, sostenuto dalla mediazione dei partiti, che si accolla su di sé l’onere della responsabilità e, dunque, della decisione.

Ma questo affidamento è sempre meno possibile nelle forme tradizionali della democrazia rappresentativa. E in attesa delle forme nuove, mentre avanza la tanto celebrata disintermediazione, per ora sperimentiamo sempre più spesso soltanto la disarticolazione.

(su Il Mattino del 7 novembre 2014 , con il titolo «Se mancano i progetti la protesta ha vita facile»)

La dolce morte non è una performance

occhio_telecameraSi può morire in molti modi. Si può anche scegliere di morire in molti modi. Avuta notizia di un cancro al cervello in fase avanzata, e saputo che le restavano pochi mesi di vita, Brittany Maynard, di anni 29, ha scelto di morire. Ha stabilito una data, ha reso pubblica la data, ha veduto insieme col marito il Grand Canyon, suo ultimo desiderio, e dopo un breve ripensamento di pochi giorni, si è tolta la vita, prima che il cancro distruggesse quel che le restava da vivere. Prima di soffrire troppo.

L’aspetto legale della vicenda è ovviamente legato all’assistenza prestata a termine di legge nello Stato dell’Oregon, dove il suicidio assistito è consentito, e dove il caso di Brittany è dunque solo uno fra molti. Ma la vicenda non avrebbe raggiunto l’opinione pubblica se fra la possibilità offerta dalle leggi dello Stato dell’Oregon e la decisione di Brittany, fra il diritto e la vita (ma anche fra i momenti più provati di una persona e la sua condivisione «social») non corresse una distanza che è impossibile colmare. La morale, la politica e il diritto si attorcigliano intorno al nodo: come bilanciare le determinazioni dell’individuo, la sua libertà e autonomia, con la responsabilità e l’interesse della società, che non può rimanere indifferente – se e finché è una società umana – al modo in cui i suoi membri muoiono. Ma in qualunque modo il nodo fosse sciolto, non sarebbe nel perimetro della legge che troverebbe soluzione il problema del significato che ha la morte per l’uomo. Quel significato, infatti, come del resto ogni significato, ogni parola, ogni concetto  non è affatto nella disponibilità di ciascuno, per quanto possa essere ampliato il perimetro della legge, fino a comprendervi anche il gesto di Brittany. In ogni caso, quel gesto non può rimane ristretto entro i confini dello Stato dell’Oregon.

I momenti fondamentali della vita – la nascita come la morte – sono circondati da millenni da riti, pratiche e credenze di tipo religioso: la cosa non avviene per puro caso, o peggio per una resistenza ostinata e irragionevole all’avanzare del progresso e dei lumi, ma perché la costruzione del senso umano di una vita richiede qualcosa di più di un impegno meramente individuale. Non stupisce perciò che quel che fa più impressione, nella storia di Brittany Maynard, è la pubblicità che l’ha investita, e che Brittany stessa, peraltro, ha voluto. L’abbia voluta o no per far avanzare la coscienza del problema dei malati terminali e dei loro diritti, resta il fatto che per la prima volta – sia detto con il più assoluto rispetto per un destino tragico, per il dolore dei suoi familiari e per la sua stessa sofferenza, che è stata grande e intollerabile – per la prima volta la morte è stata, ha avuto il senso di una performance. Anche in passato la morte ha potuto essere e anzi spesso è stata una prova, e un mettersi alla prova. Ma nella performance c’è insieme il senso di una prestazione estrema, spinta fino al limite delle proprie possibilità, e quello di una teatralità, di una spettacolarità che richiede necessariamente un pubblico. Un pubblico online, questa volta.

Ora c’è un ambito che negli ultimi anni ha messo al centro la struttura della performance. Questo ambito è l’arte, ed è utile rifletterci su. Nel mondo dell’arte  il corpo, il gesto dell’artista, la sua azione, che un tempo rimanevano del tutto fuori dell’opera – l’opera era il quadro, oppure la statua – sono divenuti invece il mezzo e insieme il fine stesso della produzione artistica. Perché questo accade? Si possono indicare probabilmente più ragioni, ma tutte sono in qualche modo legate alla fine del canone estetico dell’Occidente. In una parola: non si dipinge più secondo il bene e il bello. Non c’è più un ideale a cui avvicinarsi, rispetto a cui riuscire o fallire. Lasciato dunque a se stesso, e senza una cornice di senso per ciò che fa, all’artista non rimane che mettere alla prova (prova estrema, senza limiti assegnabili) non altri che se stesso.

Ormai, la medesima cosa accade nei riguardi del morire. È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il destino dell’uomo. Ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione, in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può appartenere qualcosa come un senso. Perciò, non essendovi più una regola della buona morte, e nemmeno qualche banale istruzione naturale, «sul campo», come diceva Montaigne, sarà sempre più frequente che nuove performance, nuovi record vengano stabiliti. Morire in santa pace sarà sempre più difficile.

(Il Mattino, 5 novembre  2014)

Se la casa dei partiti è senza fondamenta

img1024-700_dettaglio2_I-festeggiamenti-di-De-Magistris-insieme-ai-suoi-collaboratoriCome se nulla fosse. È una scelta: si può fare come se nulla fosse. Condanna, sospensione, ricorso, reintegro. Si può fare come se la breve vacanza sulla poltrona di primo cittadino nulla o quasi avesse cambiato del corso politico della città, non solo del destino personale di Luigi De Magistris. Il quale è tornato a fare il sindaco, ed ha ritrovato la sua maggioranza. Non quella con cui fu eletto, per la verità: quella non c’è più da un pezzo, né ci sarà in futuro; ma quella, ridefinita dal continuo comporsi e ricomporsi delle aggregazioni in seno al consiglio comunale, che tuttavia supera la fatidica soglia dei 25 consiglieri e tiene in piedi la baracca. Questa minestra passa il convento, e non è additando al pubblico ludibrio i singoli consiglieri che si cambierà la pietanza. Che poi De Magistris, per arruolare qualche soldato di complemento, si sposti ulteriormente a sinistra, provando persino a capitalizzare politicamente l’esperienza del «sindaco di strada», ci sta: fa parte del gioco, e De Magistris – lo si è capito da tempo – intende giocarlo sino in fondo.

Ma non possono fare come se nulla fosse né il centrodestra né il partito democratico. Una lezione dovranno pur trarla. Certo: né gli uni né gli altri avevano i numeri per sfiduciare De Magistris. Benissimo. Ma la domanda è allora: che cosa, invece, avevano e che cosa hanno? Il centrodestra ha il presidente della regione, Stefano Caldoro. Basta? No, a quanto pare non basta. Non basta per contare su una leadership da tutti riconosciuta, non basta a modificare gli equilibri politici in città e non basta neppure a compattare il centrodestra. È ragionevole ritenere anzi che a Caldoro non convenisse neppure che le cose precipitassero verso le elezioni, perché far votare insieme Comune e Regione non l’avrebbe certo aiutato. Mentre un De Magistris in sella può comunque togliere al Pd un po’ di voti a sinistra. Il calcolo ci sta, la prospettiva politica un po’ meno.

E il partito democratico, invece, cos’ha? Ha Renzi a Palazzo Chigi, d’accordo: ma a sud di Roma le tracce di Renzi si perdono subito. È successo così che, nel fuoco della crisi, a Napoli venisse addirittura, con l’aria del plenipotenziario, il vicesegretario nazionale, Lorenzo Guerini. E cosa ha fatto Guerini, in visita guidata in città? Ha detto, ridetto e fatto capire che la sindacatura di De Magistris volgeva al termine. Dopodiché se n’è tornato a Roma, e De Magistris è tornato a Palazzo San Giacomo. Allora delle due l’una: o Guerini non aveva contezza della situazione napoletana, oppure si faceva parecchie illusioni. Nel primo caso, qualcuno gli ha venduto fumo; nel secondo è stato lui a venderlo. Perché i consiglieri comunali del Pd erano quattro prima della venuta di Guerini, e quattro sono rimasti dopo: su cosa dunque confidava il vicesegretario? Evidentemente, sulla capacità di raccogliere adesioni intorno a un progetto politico credibile per il dopo De Magistris. Se le adesioni non ci sono state c’è poco da fare: vuol dire che quel progetto non c’è, o non è credibile.

Ma in realtà il progetto, così come la credibilità, non è cosa che si improvvisa. Richiede tempo, tenacia, competenza, autorevolezza. Le interviste vengono dopo. Capita così che il centrosinistra peschi il jolly della sospensione del sindaco, ma scopra di non avere altre carte in mano: non un gruppo dirigente coeso, non un’idea di città, non il merito di aver condotto un’opposizione chiara e senza sconti che, al dunque, possa approfittare delle palesi difficoltà della maggioranza.

Ma, in fin dei conti, di cosa ci si deve meravigliare? Cosa è stata, infatti, la rivoluzione arancione? La più plateale dimostrazione della difficoltà del sistema dei partiti, a Napoli certificata dalla giunta De Magistris ancor prima che tracimasse, sul piano nazionale, l’ondata grillina. Solo che mentre a Roma qualcuno prova a mettere argini, a Napoli non sembra affatto che i lavori siano cominciati, e la costruzione dell’alveo naturale in cui possono confrontarsi opzioni politiche e leadership alternative di centrodestra e di centrosinistra è rimandata, purtroppo, a data da destinarsi.

(Il Mattino, 2 novembre 2014)