Di nuovo in bilico, la città attende che il Consiglio di Stato si pronunci oggi sui ricorsi proposti dal governo e dalla prefettura di Napoli contro la decisione del Tar di sospendere gli effetti dell’ordinanza prefettizia, che in ottemperanza della legge Severino sospendeva il sindaco Luigi De Magistris a seguito di una condanna in primo grado, per fatti e comportamenti relativi alla sua passata esperienza di magistrato. Mettere in un’unica proposizione il nodo giuridico, politico e morale in cui è stretta Napoli non è facile, ma descrive perfettamente la situazione aggrovigliata in cui si trova la città, e l’incertezza che regna sul suo futuro politico e amministrativo, cioè sul suo futuro tout court.
Il Consiglio di Stato può seguire la linea dei giudici amministrativi di primo grado, che giudicando sbilanciata la misura della sospensione posta a «salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica» – ma a danno dell’amministratore che non ha ancora subito una condanna definitiva -, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale che tuttora pende presso la Suprema Corte, tanto più che la misura sanzionatoria è scattata retroattivamente. Oppure può valutare che la sospensione stabilita dal prefetto discende strettamente dall’applicazione del dettato della legge Severino, non osservando la quale il prefetto avrebbe potuto persino incorrere in un’omissione di atti di ufficio: in questo caso, la decisione andrà nel senso di una smentita del Tar, e il sindaco di Napoli sarà di nuovo sospeso dalla carica.
È difficile fare previsioni: lo è sempre, quando una legge non è una buona legge. Tanto più che nella matassa sono implicati, insieme ai profili giuridici, anche quelli politici, e persino quelli morali. Perché non v’è dubbio che la decisione del Consiglio di Stato interviene sulla vita politica cittadina, e può cambiarne il corso, così come è indubbio che l’intervento è richiesto da una legge che ha preteso di irrogare una sanzione sulla base non di un giudicato, ma di qualcosa come una squalifica morale, che si vuole discenda dalla condanna di primo grado. In ogni caso, comunque il Consiglio di Stato si sarà pronunciato, rimarrà da attendere il verdetto della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale della legge.
Dopodiché c’è Napoli, c’è la città, la capitale di un Mezzogiorno sempre più investito dalla crisi, e sempre meno capace di individuare un sentiero di sviluppo per venirne a capo. L’incertezza a cui si rimane appesi è sicuramente conseguenza di un garbuglio giuridico, intorno al quale si arrovellano i magistrati, ma è anche espressione fedele di una debolezza politica che la città sconta. Debolezza che si registra su entrambi i versanti: sia su quello sul quale è fieramente attestato il sindaco, disposto a procombere da solo ma non a prendere atto delle difficoltà in cui Napoli è impantanata, sia sull’altro, sul quale attende la «turba magna» delle altre forze politiche, che ancora tergiversano senza alcuna vera capacità di iniziativa politica, come se niente e nessuno potesse sospingerli ad agire.
Perché per un verso, reintegrato o no, De Magistris conta su una maggioranza precaria, quasi sporadica, e ormai priva di un disegno politico riconoscibile; ma, per altro verso, che si tratti del centrosinistra o del centrodestra, non c’è modo di vedere profilarsi un’alternativa netta e chiara, che sappia indicare una prospettiva per il dopo De Magistris. Il tempo sospeso che Napoli vive discende sì dalle circonvoluzioni della giustizia amministrativa, ma in realtà è figlio di ben altro: da una parte dell’isolamento politico in cui si è cacciato il sindaco, senza più una reale interlocuzione con gli altri livelli istituzionali e quindi con una capacità di governo di assai più corto respiro; dall’altra dell’inazione delle forze di opposizione, che non riescono ad approfittare dell’impasse cittadina per rimettere in moto la politica, e candidarsi credibilmente alla guida della città.
Se si volesse fare della letteratura, si potrebbe trovare in questo stallo una metafora perfetta della condizione in cui vive la città. Ma si tratta di amministrazione, non di letteratura, e sarebbe molto meglio lasciar perdere le metafore.
(Il Mattino, 20 novembre 2014)