Archivi del mese: dicembre 2014

Scacchi, quel campione da non perdere

Per un’incredibile svista nel taglia e cuci finale, ho pubblicato stamane questo articolo eliminando il campione russo di scacchi Boris Spassky, trasformando così la sua sfida con Fischer in una sfida di Fischer con Karpov (che invece di Fischer fu il successore). Domani usciranno tre righe di scuse, Qui invece metto il pezzo corretto. Ci volevano gli scacchi perché compissi sul giornale un errore così marchiano.

1367392446_fabiano-caruanaQualche settimana fa si è concluso la sfida per l’assegnazione del titolo di campione mondiale di scacchi. Ma la vera notizia, per noi italiani, è il prossimo campionato mondiale, le cui fasi cruciali cominciano col nuovo anno. Per la prima volta un italiano, Fabiano Caruana, potrà forse arrivare sino alla sfida finale con il campione in carica. Fatevi un giro in rete: scoprirete che Caruana, che oggi ha ventiquattro anni, è diventato grande maestro a soli quattordici anni (il più giovane italiano a conseguire tale titolo), e che attualmente è il numero due nel ranking mondiale, dietro solo al campione mondiale di scacchi, Magnus Carlsen. Si può dunque ragionevolmente sperare che sarà Caruana il prossimo sfidante. E accadrà forse per noi italiani quello che negli anni settanta accadde per l’Occidente intero, quando un americano pazzo e geniale, Bobby Fischer, riuscì a strappare il titolo all’Urss di Boris Spassky (che poi se lo riprese con il quadratissimo comunista sovietico Anatoly Karpov), portandolo dopo decenni in quello che una volta si chiamava il mondo libero. Ammettiamolo, gli scacchi non sono più gli stessi: una sfida al vertice non ha lo stesso sapore che aveva negli anni della guerra fredda, quando valeva quasi come una medaglia d’oro nella più prestigiosa gara olimpica; e non lo sono, in particolare, da quando le macchine sono riuscite a battere gli uomini in un’altra sfida epocale, fra l’allora detentore del titolo mondiale, Garry Kasparov, e l’elaboratore Deep Blue. E, tuttavia, che l’Italia arrivi sul tetto del mondo nel gioco degli scacchi potrebbe valere per noi quello che valse per gli americani negli anni Settanta: la dimostrazione, almeno simbolica, che il declino del paese non è irreversibile. Non sorprende dunque che dopo l’ultimo prestigioso successo (la Sinquefield Cup disputata a Saint Louis: il torneo più forte di tutti i tempi) il presidente del Coni Malagò ha pensato di incontrare Caruana, invitandolo al Foro Italico.

È probabile però che non gli abbia voluto solo fare i complimenti, ma che abbia anche provato a rafforzare in lui il convincimento che deve starci più a cuore: che cioè il giovane Fabiano continui a giocare per l’Italia. Caruana è infatti nato a Miami da genitori di origine italiana, ed ha quindi la doppia nazionalità. Per ora gioca con i colori italiani: domani chissà. A parte Bobby Fischer, che vinto il titolo pensò bene di ritirarsi dalle competizioni ufficiali, gli americani non hanno avuto altri campioni mondiali: non meraviglia dunque che la Federazione statunitense stia già pensando di allettare il giovane Fabiano con proposte assai vantaggiose. E così i prossimi appuntamenti mondiali stanno sotto una duplice incertezza: da una parte, non sappiamo ancora se Caruana arriverà sino in fondo nella partita mondiale; dall’altra, non sappiamo fino a quando confermerà la scelta di giocare per la bandiera italiana.

È un’incertezza che naturalmente interessa anzitutto gli appassionati del gioco: quelli che studiano le partite, affollano i tornei sparsi lungo lo stivale, giocano miriadi di match online. Come mai prima d’ora: Il movimento scacchistico nazionale è infatti in crescita, e certamente una buona mano gliela dà la popolarità che sta guadagnando Fabiano Caruana infilando una vittoria dopo l’altra. Ma sarebbe bello che anche un’opinione pubblica più ampia seguisse la vicenda e sostenesse la decisione del giocatore: sarebbe il segno che almeno un cervello può essere trattenuto, visto che tanti altri sono in fuga, e sarebbe anche un segnale di fiducia, in un ambito in cui solitamente sono ben altre potenze a contendersi il campo. Il campione del mondo attuale è infatti (fatto più unico che raro) un norvegese, per la gioia di quel particolare pezzo di Europa che è la Scandinavia. Intorno si affollano russi, azeri, armeni, georgiani. Incalzano anche gli asiatici: indiani, cinesi. La geografia continentale del gioco lascia dunque poco spazio all’Europa (e all’America) alla quale dopo tutto siamo affezionati, e che siamo abituati a considerare, per un vecchio riflesso, il centro del mondo. Non lo è. Sempre più spesso ci tocca di scoprirlo. E, certo: non sarà uno scontro di civiltà quello per cui faremo il tifo, ma se credete che sia una scontro da poco, vuol dire che non avete mai visto la determinazione ferocie e la cattiveria agonistica che due forti giocatori di scacchi mettono sulla scacchiera. Ce la mettesse anche il Paese, faremmo forse tutti un passo avanti.

(Il Mattino, 29 dicembre 2014)

Quirinale, c’è una terza via

TERZA-VIALa corsa del Quirinale sta per entrare in dirittura finale. La determinazione del Presidente Napolitano a lasciare al termine del semestre europeo non è più in discussione. Così, dei tanti impegni che attendono la politica italiana col nuovo anno, il primo e non più differibile riguarda proprio l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Che nei primi tre turni di votazione è fissata a un quorum decisamente proibitivo: due terzi dell’Assemblea elettiva. Dal quarto turno in poi basta la maggioranza assoluta. Ma all’elezione si può arrivare in tre modi diversi.

Il primo modo discende in linea diretta dal patto del Nazareno. Non che nel patto sia contenuto il nome del futuro Presidente, ma è chiaro che se l’intesa fra Pd e maggioranza di governo da una parte, Forza Italia dall’altra, ha un significato in relazione al tema delle riforme istituzionali, è naturale che lo abbia anche in relazione al massimo garante delle istituzioni del Paese. Dunque, un primo scenario possibile si delinea in continuità col Nazareno: è l’idea che i partiti che si riconoscono in quel patto condividono uno stesso modo di stare nelle istituzioni, e trovano la sintonia su un nome che sia frutto di quell’equilibrio politico, pur nell’osservanza dei rispettivi ruoli di maggioranza e opposizione. È, in altre parole, il metodo più vicino a un accordo robustamente politico che sia oggi possibile in Parlamento. Ed è anche una sorta di prosecuzione non del modo in cui è stato eletto Napolitano per il suo secondo mandato, ma del tentativo (fallito) di Bersani di portare Franco Marini sul Colle più alto: nell’impossibilità (e anche nell’inopportunità) di fare da soli, e in una situazione politicamente assai precaria dopo l’exploit grillino, si cercarono soluzioni che consentissero alle forze politiche di avviare un primo consolidamento dell’assetto uscito dalle urne. La situazione oggi non è altrettanto precaria, Renzi è molto più forte di Bersani nel 2013, e l’impaccio grillino è decisamente minore, sia numericamente che politicamente, e però Renzi da una parte e Berlusconi dall’altra hanno comunque da temere imboscate tese nel voto segreto da minoranze recalcitranti (la sinistra interna da una parte, Fitto dall’altra). Molto comunque dipenderebbe dal nome, e anche se il Cavaliere rinuncia a veti e offre sempre più chiari cenni di disponibilità, è palese che sono inversamente proporzionali al timore di essere lasciato fuori dalle future scelte.

Il secondo modo si situa invece agli antipodi del primo. Si potrebbe cioè essere tentati di scegliere il Presidente della Repubblica avendo occhio al clima che c’è nel Paese, e lanciare un segnale verso l’opinione pubblica invece di guardare agli equilibri parlamentari e ai rapporti fra le forze politiche. A questa seconda via appartengono tutte le candidature da rubricare alla voce «società civile», e affini. Se al primo modo si lega più facilmente un nome politico a tutto tondo – un Veltroni, un Fassino, un Amato – , al secondo appartengono tutti i nomi buoni per un sondaggio on line dei Cinque Stelle. I già provati Prodi e Rodotà, ma anche figure come Raffaele Cantone. Non occorre naturalmente che il nome esca proprio dalle «quirinarie» grilline, ma che venga comunque fuori il profilo di una personalità autorevole, sufficientemente distante dall’attuale scena politica da contenere anche un principio di critica almeno implicito nei suoi confronti. Un nome di quelli che potrebbero passare per la testa di un Renzi ancora rottamatore, insomma. Ma se il premier conosce la forza di quella narrazione, per averla adeguatamente interpretata, è difficile che voglia riproporla da Presidente del Consiglio, mentre si impegna cioè a vestire i panni del costruttore della nuova Italia.

Resta un terzo, possibile modo. Il primo ha infatti dalla sua le ragioni della politica, ma perciò anche le debolezze, visto che il grado di salute dei partiti e la loro compattezza interna è piuttosto bassa. Il secondo non ha probabilmente i numeri necessari per imporsi in Parlamento, ma abbastanza fascino per sbarrare la strada ai nomi che venissero fuori dal Nazareno. Il terzo rappresenterebbe forse una scelta meno netta, meno profilata, ma forse proprio per questo in grado di evitare le trappole che costellano le altre due strade. E anche di non fare ombra al premier, che ha evidentemente la necessità di tenere saldi nelle sue mani i dossier dell’Europa e delle riforme. Si tratterebbe dunque di individuare una personalità istituzionale, o quasi istituzionale, non più in prima fila ma nemmeno fuori dal Palazzo, come facevano i vecchi partiti della prima Repubblica, la Dc e il Psi, per cavarsi dagli impicci dopo che i cavalli di razza e le prime scelte cadevano, spesso sotto il fuoco amico. Un nome di peso, insomma, ma non per questo ingombrante, in grado di garantire ciò che forse Renzi davvero si propone, e cioè che la fisarmonica dei poteri presidenziali, dilatatasi negli ultimi anni di crisi politica, possa cominciare, lentamente, a contrarsi. Ma sono movimenti difficilmente prevedibili, come tutto ciò che si muove per salire sul più alto Colle.

(Il Mattino, 28 dicembre 2014)

Dopo anni di anatemi i primi cambiamenti

change-architect-sign1«La giustizia ha bisogno di un profondo e organico processo innovatore»: lo ha detto  Giorgio Napolitano pochi giorni fa, in occasione dell’Assemblea plenaria del Csm, e qualunque giudizio sull’operato del governo in materia va commisurato a queste parole: a che punto è il processo innovatore? Quanto profondo e organico? In breve: ancora lontano dal traguardo, e un po’ meno organico di quanto si pensasse inizialmente. Certo, il giudizio sul governo Renzi e sul suo Guardasigilli Orlando è positivo, perché qualcosa ha cominciato a muoversi, dopo anni di aspre contrapposizioni dominate non da giudizi di merito sullo stato della giustizia, ma dagli anatemi del berlusconismo (pro o contro). Dire però che è in dirittura d’arrivo la riforma, e che essa ha già inciso sui punti essenziali, è dire troppo. Il governo ha portato a casa l’introduzione del reato di autoriciclaggio, ha in cantiere interventi in materia di corruzione, sta completando la ridefinizione della geografia giudiziaria e operando per una riduzione dei carichi giudiziari pendenti (soprattutto in materia civile). Sebbene il fenomeno del sovraffollamento carcerario rimanga grave e sebbene la riforma della custodia cautelare continui a galleggiare in Parlamento, una nuova sensibilità e qualche misura normativa ci sono. Ma la riforma della giustizia di cui ha bisogno il Paese è un’altra cosa. E riguarda il riequilibrio dei rapporti fra le parti del processo, la riduzione (non l’estensione) degli spazi di eccezionalità nell’ordinamento vigente, una disciplina seria ed effettiva della responsabilità civile dei giudici, la modifica delle elezioni del Csm per tentare di porre un argine al correntismo dei magistrati. E naturalmente maggiore celerità dei processi. La magistratura associata è attestata su una posizione di ferma contrarietà all’insieme delle misure avviate dal governo: non però per colpa di queste misure, quanto della volontà più volte dichiarata dal premier di ridurre i giorni di ferie dei magistrati. Il che la dice lunga sulle difficoltà che attendono il governo (e sul corporativismo miope dell’Anm).

(Il Mattino, 27 dicembre 2014)

Cinque Stelle caos: altri tre in fuga

14Il Movimento Cinque Stelle perde ancora pezzi: altri tre parlamentari se ne vanno. Il gruppo al Senato si è quasi dimezzato: come mai? La risposta dei grillini finora è sempre stata, più o meno: non erano abbastanza puri. Che si tratti di rendicontazioni e scontrini, o delle regole sulla rappresentanza del Movimento, o delle prescrizioni sulle apparizioni televisive, in un modo o nell’altro espulsioni ed abbandoni sono stati sempre presentati come una sorta di prolasso del muscolo politico del Movimento. Qualcuno non ce la fa: i più deboli, i meno temprati si imborghesiscono, si accomodano sulle poltrone del Parlamento e mollano la dura disciplina del cittadino pentastellato. Da cittadini diventano parlamentari: cioè casta.

La contraddizione, però, è tutta qui: si può essere parlamentari del Movimento senza appartenere ipso facto alla casta? Si può entrare nel tempio della mediazione politica, qual è appunto il Transatlantico, e predicare la democrazia diretta, il sondaggio online, la moltitudine dei «mi piace»? È possibile impegnarsi nel gioco degli emendamenti, delle interrogazioni, degli ordini del giorno e delle proposte di legge, e al contempo negare dignità teorica e efficacia pratica alla libertà di mandato del deputato o del senatore? È possibile reggere i tempi lunghi dell’attività parlamentare, mentre fuori il megafono Beppe Grillo e i suoi commentatori in rete continuano a furoreggiare chiedendo tutto e subito? Si può stare in Parlamento con gli abiti del populismo e dell’antipolitica indosso? L’unico terreno su cui la modalità politica sperimentata dai grillini ha dato prove accettabili (fatti salvi i misteri della gestione privatistica della piattaforma online) è quello legato ai nomi: si sottopongono un po’ di personalità alla rete, e si fa il sondaggio: eleggiamo questo o quell’altro? Si addita un deputato e si chiede: lo espelliamo oppure no? Per tutto il resto non funziona. E così anche ai cittadini grillini tocca tutta la fatica che solo il professionalismo politico consente di sopportare. Ma siamo di nuovo alla contraddizione di cui sopra: per il grillino autentico, il professionismo della politica va esorcizzato, estirpato, debellato.

Così ieri ci sono state nuove defezioni. Non dal Movimento ma dal Parlamento: cioè dalla politica così come si fa nei regimi rappresentativi moderni. E questa è materia per la scienza politica: Bernard Manin ha spiegato in un libro importante come democrazia e governo rappresentativo non coincidano affatto punto per punto, e che il declino di quest’ultima non è detto comporti l’appassimento di quella. Pierre Rosanvallon ha recensito tutti gli istituti di quella che ha chiamato «contro-democrazia»: le forme cioè di vigilanza e di critica che la sfiducia nei confronti della democrazia rappresentativa attiva fra i cittadini e nell’opinione pubblica. Di sicuro le sorti della democrazia sono oggi in discussione. Ma resta particolarmente difficile stare su questo ribollente versante teorico e pratico, e al contempo assolvere da deputato o da senatore la tradizionale funzione rappresentativa. Il Parlamento, la scatola di tonno di cui parlava Grillo, non si è affatto aperta, e i grillini ci sono finiti dentro.

Non è un caso che, per governare un gruppo parlamentare sottoposto a sempre maggiori tensioni, Grillo s’è dovuto inventare il Direttorio, contravvenendo al sacro principio dell’«uno vale uno». Col direttorio, ce ne sono cinque di loro che valgono un po’ più di uno (ma sempre meno di Grillo, che vale più di tutti, se non altro perché titolare dei diritti d’uso del nome e del simbolo). Con il direttorio, qualcuno potrebbe dire che la scienza dell’organizzazione si prende la sua rivincita. E quelli che ancora facevano mostra di credere che tutto nel movimento è orizzontale scoprono per la prima volta che anche fra di loro qualcuno sta più in alto e qualcuno più in basso (e Grillo più in alto di tutti).

Così fioccano le dimissioni. Ma non farebbero tanto rumore se  non si accompagnassero a un altro impasse, che riguarda la linea politica: dove va il movimento? Chi vota Grillo quali interessi difende, cosa manifesta o cosa esprime, a parte il disprezzo per la restante parte dell’universo politico? Nessuno lo sa. Nemmeno la battaglia contro l’Euro riesce a prendere un connotato diverso dall’esigenza di «fare pulizia». Così, non sapendo fare altro,  i parlamentari grillini passano il tempo a fare pulizia al loro interno. E fioccano le espulsioni, e una logorrea regolamentare infinita, in grado forse di inaugurare una nuova dimensione dello spirito: l’onanismo politico.

(Il Mattino, 23 dicembre 2014)

Pomigliano se in fabbrica si fa festa

vm2Entrare in Fiat, a Pomigliano, tenendo con una mano un bambino, e con l’altra un altro, non consente certo di capire come stanno le cose in termini di organizzazione del lavoro, di utilizzo degli impianti o di relazioni industriali, però vale la pena lo stesso, se non altro perché insieme con te, in una domenica di sole, entrano migliaia di dipendenti, con i loro figli, con le loro mogli o i loro mariti, e sciamano lungo i viali che costeggiano i grandi capannoni, e salgono sui trenini messi a disposizione dall’azienda per la visita allo stabilimento, e si avvicinano al bancone dove distribuiscono zeppole e graffe, e poi visitano gli stand dove si consegnano i regali per i figli dei dipendenti, si accalcano nello spazio per i giochi riservati ai più piccoli, si assiepano in vista dell’esibizione della squadra di comici più acclamata, quella di «Made in Sud».

Questa è la fabbrica dove la Fiat (ora FCA) decise nel 2010 di provare a rilanciare la produzione con un investimento molto cospicuo. E molto contestato. Le condizioni per effettuare l’investimento richiedevano infatti un impegno in termini di formazione, di miglioramento degli ambienti, ma anche di riorganizzazione dei turni e delle condizioni di lavoro. La storia è nota: ci fu un accordo sottoscritto da tutte le sigle sindacali eccetto la Fiom, e ci fu un referendum: circa due terzi dei lavoratori approvarono l’accordo. La Fiom aprì in seguito un contenzioso legale per condotta antisindacale, in relazione al licenziamento di diciannove  dipendenti, tutti legati al sindacato di Landini. La vicenda giudiziaria si è chiusa quest’anno: i diciannove sono rientrati in Fiat, ma nel frattempo l’azienda è uscita dal sistema confindustriale, dando con il contratto di Pomigliano il via ad una riformulazione del rapporto fra livello nazionale e livello aziendale di contrattazione, che oggi minaccia di obsolescenza tutta la materia del diritto sindacale. Di fatto, dopo accordo e referendum, il comparto metalmeccanico in Italia è arretrato pesantemente, ma non così il gruppo FCA, che ha sostanzialmente mantenuto i suoi livelli occupazionali. E soprattutto la Nuova Panda, che si produce a Pomigliano, sta andando bene sul mercato, così quest’anno in azienda si faranno meno giornate di ferie natalizie.

Intanto però c’è la festa. Compilando un modulo, i dipendenti hanno potuto scegliere un regalo per i loro figli e oggi possono ritirarlo. Ai cancelli c’è qualche protesta, più ironica che arrabbiata: gli «auto- organizzati» non ne vogliono sapere di «frottole e caramelle» distribuite dalla Fiat per «farsi pubblicità». Non so le frottole, le caramelle o i popcorn, ma le graffe, lo confesso:  sono ottime. Una signora chiede quante ne stiano friggendo: «Cinquecento?» azzarda. «Quindicimila» risponde divertita la ragazza che gliene porge una. Ed effettivamente sono tanti, quasi tutti, i dipendenti che hanno portato le loro famiglie questa domenica. Diecimila presenza al mattino, altrettante al pomeriggio. Per sfamare questa piccola città in movimento, ci sono sette forni mobili allestiti sotto un capannone. E tranci di pizza a volontà. E birra e coca-cola. Il clima è tranquillo e festoso: ci sono il tiro a segno, i gonfiabili, i cannoni che sparano neve artificiale, certe grandi bolle di plastica dove i bambini entrano per rotolare all’asciutto sull’acqua. E un buffo travestimento vichingo per grandi e bambini, che vogliono fintamente azzuffarsi: è l’unica nota nordista della giornata. Su un palco, c’è un coro spirituals e folk, che canta e balla a tutto volume, in attesa dello spettacolo comico, che comincia con una parola di ringraziamento all’azienda torinese, e subito prosegue con un liberatorio e collettivo «chi non salta juventino è»: l’unico scherzo tirato stamattina alla proprietà.

Quelli che però vogliono mostrare ai loro figli come si fa oggi un’automobile sono saliti su un trenino e ora passano tra le scocche della Nuova Panda appese in alto, lungo la linea della produzione, ferme come scheletri in attesa di ricevere vita e movimento. Ma i bambini si guardano attorno: di ciò che una volta era una fabbrica, di grasso e pistoni, non sembra rimasto più nulla: la luce è tanta, la pulizia anche. L’unico rumore che c’è lo fanno loro, i bambini, perché adesso la produzione è ferma, ma questo stabilimento – il Plant FCA Gianbattista Vico, considerato uno dei più efficienti dell’intera galassia Fiat – è stato insignito due anni fa  del prestigioso “Lean Manufacturing Award”, classificandosi al primo posto davanti ai plant della concorrenza tedesca.

I bambini della prima rivoluzione industriali di Charles Dickens, insomma, non vivono più qua, e se Engels volesse condurre un’indagine sulle condizioni della classe operaia dovrebbe forse cercare ispirazione altrove. O forse no, forse hanno ragione quelli che dicono che le catene delle condizione salariata si fanno invisibili, ma non sono per questo meno catene. In attesa però di spezzarle, e sempre che si possa, non è un male alleggerirle un po’, almeno sotto Natale. Là fuori chi protesta contro il «modello Marchionne» non teme solo per il futuro occupazionale e la capacità produttiva dello stabilimento, ma lamenta che da anni nulla cambia. Eppure, tornando a casa, l’impressione è che invece qualcosa stia cambiando, e che di un clima non aspramente conflittuale possa giovarsi non solo l’impresa, ma anche i lavoratori e le loro famiglie.

(Il Mattino, 22 dicembre 2014)

Di cosa parla Benigni quando parla di Dio

4738903958_9b405d4f8c_z-640x420Dopo qualche giorno, è facile raccogliere insieme le critiche principali rivolte alla performance di Benigni da parte di quelli che non la bevono. Sono quattro. La prima viene da quelli che dichiarano di avere amato il Benigni di una volta, e di non riconoscerlo più nel Benigni dell’altra sera: dov’è finito – si chiedono – il Benigni irriverente e sfrontato degli esordi, il toscanaccio che scherzava con i santi? Benigni che legge i dieci comandamenti è come Maradona che fa l’elogio di Blatter: non c’è più religione. O piuttosto ce ne sarebbe troppa, anche grazie alle fiction con preti e monache trasmesse dalla Rai. La seconda critica guarda al cachet del comico toscano: quattro milioni di euro. Decisamente troppo alto. Tutti quei soldi per parlare di morale, valori, amore, in tempo di crisi (con le famiglie che non arrivano alla quarta settimana, anzi alla terza): come si poteva starlo a sentire, senza notare l’ipocrisia di Benigni stesso e dell’operazione tutta intera? La terza critica riguarda l’utilità di programmi come quelli dell’altra sera. Presso che nulla: Pascal diceva che non s’è mai visto qualcuno convertirsi grazie a una prova filosofica dell’esistenza di Dio, e infatti dopo un po’ i filosofi hanno smesso di produrne, di simili prove. E invece con la televisione ancora c’è chi ci prova. Una simile perseveranza è quasi diabolica. La quarta critica è decisamente più raffinata e chiama in causa l’analfabetismo teatrale di Benigni, perché luci, regia, performance: non c’era un’idea di programma. Benigni non è Carmelo Bene, e non è nemmeno Eduardo. Naturalmente può dire quello che vuole, ma anche se fa milioni di ascoltatori non farà mai la storia del teatro (televisivo).

(… continua su Left Wing, 22 dicembre 2014)

 

Se i giudici danno le pagelle al governo

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La riforma della giustizia che il governo Renzi sta cercando di condurre in porto non piace ai magistrati. O meglio: non piace all’Associazione Nazionale Magistrati, cioè alla magistratura organizzata. Che ancora ieri, riunito il comitato direttivo centrale, per bocca del suo segretario Sabelli ha ribadito la sua fermissima contrarietà. Con toni che non lasciano adito a dubbi: l’Anm considera che il ruolo, la funzione ed infine l’indipendenza stessa della magistratura siano minacciati dai propositi di riforma del governo.

Non è così. Il governo si propone di intervenire su un certo numero di materie. Tra queste, la responsabilità civile e la riduzione delle giornate di ferie dei magistrati. Ed è in primo luogo per opporsi a queste due misure che l’Anm promuove un’ampia mobilitazione, minaccia scioperi, e mette tutti e due i piedi nel piatto della politica. Nel merito, i due interventi in questione sono sin troppo ragionevoli: in un caso, il governo introduce e prova a rendere finalmente  effettivo un principio di civiltà giuridica che sulla carta esiste già (da quando, nell’88, i radicali promossero, stravincendolo, il referendum), ma che di fatto non conduce quasi mai al risarcimento del danno per mala giustizia; nell’altro, si tratta di un puro e semplice privilegio che il governo intende far cessare (alla buonora).

La si potrebbe finire qua, se l’Anm non temesse inoltre, insieme alla perdita di qualche comoda prerogativa, un ridimensionamento del peso esorbitante che essa ha nella vita sociale e politica del paese: ridimensionamento salutare, da troppi anni atteso e sempre rinviato. Complice, si capisce, l’anomalia berlusconiana: perché era facile, con la vicenda giudiziaria del Cavaliere di mezzo, gridare che si voleva mettere la mordacchia alla magistratura. E lasciare le cose come stavano.

Ma le resistenze corporative tornano ancora oggi a farsi sentire. E poiché è nuovamente esploso il tema della corruzione, qualunque provvedimento di riforma viene adesso stoppato con l’argomento che non serve a combattere la corruzione e a rendere efficiente la giustizia. È, ancora una volta, il tentativo di fare sponda con gli umori dell’opinione pubblica, ma è anche un’offesa non piccola all’intelligenza delle persone. Da nessuna parte, infatti, l’Anm prova a spiegare perché ridurre le ferie e introdurre una effettiva responsabilità civile dei giudici renderebbe impossibili gli interventi di contrasto alla corruzione che vengono auspicati. Perché cioè si dovrebbe ritenere che l’una cosa impedisca di fare l’altra. In realtà, non vi è ovviamente alcun impedimento, ma accusare il governo Renzi di fare annunci e non vere riforme, e mettersi in scia al dilagante malcontento nei confronti dei politici corrotti, serve non ad altro che a schermare la cocciuta difesa del proprio status.

C’è poco da fare: questo status, questa condizione, è la condizione di un soggetto che sta spesso protervamente fuori delle aule dei tribunali o delle procure. Sta nel gioco politico, vi sta peraltro senza avere alcuna legittimazione democratica, e vi sta per far sentire il proprio potere e per lottare affinché questo potere non venga ridotto.

Come altrimenti giudicare la proposta dell’Anm di interrompere la prescrizione con l’inizio dell’azione penale? È vero: dichiarare estinto il reato per intervenuta prescrizione è un fallimento della macchina giudiziaria. Ma la ratio dell’istituto della prescrizione è una tutela dei diritti di chiunque si trovi a essere indagato, perché è inaccettabile rimanere per un tempo illimitato sottoposti all’azione della magistratura inquirente. Ebbene, bisogna essere Franz Kafka, oppure il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, per non mostrare la minima preoccupazione per il tema della garanzie connesse essenzialmente alla prescrizione. E bisogna, soprattutto, per far ciò, sposare quella funesta logica emergenziale per cui la lotta alla corruzione val bene una compressione dei principi e delle forme di una civiltà giuridica liberale, tanto più in quanto, per ogni limitazione dei diritti del cittadino, si propone di fatto un accrescimento del potere della magistratura.

Come se la corruzione si combattesse togliendo ogni limite all’azione dei pm. Non è così, e anche se lo fosse nessuna democrazia può accettare che un corpo si erga a guardiano della pubblica moralità. Altra cosa è chiedere più cancellieri e più mezzi. Ma anche i docenti chiedono più aule, e le università più ricercatori, e la polizia più volanti: fanno bene. Chi può dire infatti che non sarebbe meglio averle, tutte queste cose? Ma chi può dire che averle o non averle c’entri qualcosa con l’elementare senso di giustizia che chiede anche al magistrato di rispondere del suo operato, o di stare qualche giorno di meno in vacanza? Eppure l’Anm continua a legare le due cose, a sollevare strumentalmente il totem dell’indipendenza della magistratura e a ostacolare ogni tentativo di riformare le giustizia.

Ebbene, se la politica, se il Parlamento vuole tornare a far valere il suo primato, è bene che lo affermi non solo contro la tecnocrazia europea, o contro i sindacati, ma pure contro queste pesanti incrostazioni corporative nostrane.

(Il Mattino, 21 dicembre 2014)

Benigni e la magia del racconto di Dio

ITALY-CINEMA-BENIGNIIl solito ingresso da piccolo clown, coi passi di danza e la marcetta, da cagnolino che scodinzola festoso, e Benigni è in scena anche questa volta. Ma questa volta si tratta di Dio. E i primi minuti sono davvero memorabili. Poi comincerà a raccontare una storia – la più grande storia mai raccontata: la storia degli Ebrei, di Mosè, del roveto ardente, dell’esodo dall’Egitto, una storia che tutti conosciamo ma che quasi nessuno ci racconta più – ma i primi minuti sono davvero memorabili.

E non certo per le battute sui pochi romani a piede libero, o sulla Bibbia e su Rebibbia: qualche risata ci vuole, ma la contentezza che Benigni vuole trasmettere è tutta un’altra. Perciò la vera introduzione ai dieci comandamenti non la fanno i politici che si sono messi d’impegno a violarli tutti, i comandamenti, ma Dio stesso. Benigni parla di Dio senza nessuna prudenza. In prima serata. Su Rai Uno. E subito domanda: si può essere prudenti, quando si parla di Dio? Ci può essere misura? E più volte ripete: stasera mi dovete far dire tutto, stasera dobbiamo fare capriole con le parole, stasera dobbiamo trovarci «spersi nel sogno di Dio». E ci riesce: qualche capriola la fa davvero. D’altronde, come può Dio stare nelle nostre parole, nella misura finita della nostra mente? Chiunque abbia familiarità con secoli e millenni di filosofia e teologia sa quanto gli uomini si siano spaccati la testa sopra i paradossi del linguaggio religioso. Chi invece non ce l’ha, è portato a pensare che sia soltanto roba vecchia e usurata. O al massimo che sia «cultura»: degna forse del rispetto che si deve a oggetti culturali venerandi, ma ormai antiquata. Ecco, qualunque cosa si pensi del racconto di Benigni, una cosa credo si capisca benissimo: che proprio di cultura non si tratta, e che Benigni non ci ha invitati a passare la serata lucidando vecchia mobilia.

«Non si può parlare di Dio rimanendo uguali», dice a un certo punto Benigni, ed è un’istruzione così bella e così vera che può persino prendere un valore definitorio: Dio è proprio quella cosa maneggiando la quale non si rimane uguali. Altra capriola: «niente è più salutare per l’anima quanto parlare di cose incomprensibili». E fa’ in modo che gli si possa credere, che si possa, per una sera, sentire la propria anima non come un buco, un vuoto, una mancanza e quasi un rodimento, ma come una cosa piena e viva, a cui si può dare ancora nutrimento.

Poi i superlativi non mancano – Benigni, peraltro, ha chiesto rispettosamente di poter avere licenza di farne uso in abbondanza – e tutto sta sotto il segno della bellezza; e il tremendo del legame religioso, e persino il violento, non compaiono mai nel discorso di Benigni. Poi la credenza si dispone sul registro morbido e suadente del favoloso, ma subito Benigni incalza: se crediamo all’Uomo Ragno per le due ore di un film, perché non possiamo credere, almeno per una prima serata di Rai Uno, che Dio c’è, ed è nei sussulti della nostra anima? Ma è inutile fare le pulci allo spettacolo, alzare il sopracciglio e storcere il naso per questa popolarizzazione del racconto biblico. È inutile mettere note a piè di pagina, con tono professorale, o mostrare di saperla più lunga. Qui c’è un comico che pensa due cose con cui bisogna ancora fare i conti. La prima: che la magia del racconto può rivivere ancora, e l’uomo è ancora quel fanciullo che ha bisogno di incantarsi nelle pieghe di un racconto grande. La seconda: che la tradizione biblica è ancora il luogo in cui cercare queste storie: non per fare la morale a chicchessia, non per rinsecchire la religione in una serie di precetti e prescrizioni, ma per provare a rendere l’uomo comprensibile a se stesso.

Se non diventerete come fanciulli: tra letizia francescana e semplicità evangelica, Roberto Benigni per una sera chiede di deporre le armi della critica (non ne parliamo della critica delle armi). La mamma diceva al piccolo Robertino: impara adesso le cose che più si cresce e meno si capisce. Un’idea di devozione che è l’esatto opposto dell’uscita illuministica dallo stato di minorità, ma che non per questo possiamo accantonare senza temere, almeno per una sera, di perdere qualcosa di essenziale.

(Il Mattino, 16 dicembre 2014)

Una sola casa, due sinistre

Acquisizione a schermo intero 15122014 115502.bmpA un certo punto, la foga oratoria di Fassina è sembrata molto vicina al punto di rottura. Stiamo cambiando identità, ha detto allarmato. Poi, rivolgendosi a Renzi, ha quasi gridato: «non ti permetto di fare le caricature di chi non la pensa come te»: è sembrato così di rivivere in salsa democratica il famoso «che fai, mi cacci?», che segnò la frattura definitiva fra Fini e Berlusconi.

Ma rottura non c’è stata, nonostante la distanza che separa la minoranza interna dalle politiche del governo. Renzi ha chiuso l’Assemblea nazionale del Pd, rubricando i toni anche aspri alla voce «discussione», e facendo appello al principio di lealtà. E stop.

Ma le differenze restano. Anzitutto sui temi del lavoro. La sinistra non voleva il Jobs Act: il Parlamento l’ha approvato. La sinistra chiede di tenere conto del sindacato e della piazza. Renzi ribatte che il sindacato è rimasto indietro.

La dialettica è altrettanto tesa sui temi delle riforme elettorali e istituzionali: la sinistra non vuole l’Italicum con i capilista bloccati; il Presidente del Consiglio lo considera non modificabile nei suoi punti essenziali. La sinistra storce il naso di fronte al Senato non elettivo; per Renzi è coerente con il superamento del bicameralismo. Il dialogo sulle riforme con Berlusconi lambisce l’elezione del Presidente della Repubblica; la sinistra non vuole essere tagliata fuori e prepara qualche sgambetto.

Insomma, niente scissioni, ma lo spettro delle due sinistre continua ad aleggiare. E ha nomi diversi a seconda di chi lo agita: per la minoranza, c’è la sinistra vera e quella che ha perso l’anima; per la maggioranza, c’è una sinistra che vuole cambiare e una ormai solo conservatrice. E via continuando.

Ma, dicevamo, il lavoro. La riforma approvata in Parlamento supera di fatto l’articolo 18, prova a dare forme di protezione sociale anche ai precari che finora non ne hanno goduto, tenta con il contratto a tutele crescenti di semplificare l’attuale giungla dei contratti. La minoranza trova insufficiente l’impegno economico sugli ammortizzatori, ma finisce poi col respingere l’impianto stesso della riforma. Non si monetizzano i diritti dei lavoratori, ha detto Cuperlo. Altro che mediazione: l’idea dell’indennizzo economico per i licenziamenti senza giusta causa è respinta in linea di principio. La dialettica parlamentare impone tuttavia la ricerca di un accordo. Vi hanno lavorato soprattutto i Giovani Turchi di Orfini e Orlando, ma il risultato ha lasciato comunque insoddisfatti i Fassina e i Civati. Che, sul piano ideologico e culturale, si trovano sempre dalla parte del sindacato, mentre nella minoranza prevale la critica per un mondo che viene giudicato sempre meno rappresentativo e sempre più corporativo.

Altro terreno di scontro aspro: quello elettorale e istituzionale. Qui pesano le differenze di contenuto, ma conta anche il posizionamento politico. E c’è pure una questione di metodo: per la minoranza interna, sulla materia costituzionale non c’è accordo di governo che tenga, la dialettica parlamentare deve prevalere. Ad ogni modo, la maggioranza di Renzi mantiene fermi due punti su tutti: il voto deve determinare una vittoria certa, secondo lo spirito del maggioritario; il superamento del bicameralismo deve tradursi nella formazione di una Camera non elettiva. Nella minoranza ci sono spezzoni significativi di cultura proporzionalista, anche se costretti a rimanere sottotraccia, e c’è soprattutto una forte insofferenza per il restringimento del principio di elettività. All’Italicum preferirebbero il vecchio Mattarellum, o anche il Consultellum. In ogni caso non vogliono concedere a Renzi il vantaggio dei capilista nominati, con cui il premier (e Berlusconi) controllerebbero molto più agevolmente i gruppi parlamentari.

Dall’Italia all’Europa. Qui forse le differenze sono meno nette, al di là delle dichiarazioni pubbliche. Perché chi va al governo finisce col mettere la sordina alle posizioni più critiche nei confronti dell’impostazione di Bruxelles, ancora egemonizzata dalla Merkel e dal PPE, mentre chi se ne allontana si allontana pure dall’ortodossia economica della Commissione. È per esempio il caso di Fassina, che si è spinto sino a ipotizzare che l’Italia abbandoni l’euro, posizionandosi addirittura vicino alle destre estreme, come gli ha subito obiettato il Presidente del partito, Matteo Orfini. Il fatto è che, sul piano della cultura economica del Pd, l’impronta liberista si è andata attenuando, di fronte ai magri risultati di questi anni, ma l’Italia non ha comunque la forza politica per imporre un cambiamento di rotta dell’Unione. In linea di principio, la minoranza interna è laburista e neokeynesiana: per essa, il problema è rilanciare la domanda; nella maggioranza si raccoglierebbero invece quelli per cui i problemi veri sono il debito pubblico e la competitività. Ma la difficoltà a far ripartire il Paese con le ricette attuali mette tutti (o quasi) d’accordo a chiedere di non fare le riforme strutturali senza rilanciare gli investimenti.

Renzi dice però che lui l’Italia la cambia davvero. E lo dice così, con uno stile che scava un’altra differenza. La minoranza si sente quasi «antropologicamente distante»: un po’ come con il Cavaliere prima maniera. Per Renzi, quelli che criticano sono gufi; per la minoranza, Renzi è la «Thatcher de’ noantri». Di fatto, la fraseologia di Renzi è il punto più lontano rispetto al lessico della prima Repubblica che il centrosinistra italiano abbia raggiunto. Certo, capita che Renzi citi Berlinguer, o Don MIlani, o persino Marx; ma poi conclude l’Assemblea e l’onore della citazione tocca a Scanu, quello che ripeteva le cose «in tutti i luoghi, in tutti i laghi». Ironia, leggerezza, velocità, e la cultura politica del Novecento finisce in soffitta. Chi pensa poi che Renzi sia un «lettore forte»? Lettore forte è sicuramente Cuperlo, o D’Attorre. Ma Renzi ha un profilo twitter, D’Attorre non ha nemmeno quello facebook.

La cultura politica però conta e come, anche se è difficile sostenere che la sinistra l’abbia conservata immutata in tutti questi anni, e che Renzi sia il primo a stravolgerla. Il veleno o il balsamo del liberismo, le riforme del lavoro, la fascinazione per la terza via, lo scontro col sindacato: sono tutte cose che risalgono agli anni Novanta, quando al governo andarono Prodi e D’Alema. Ma il giudizio su quegli anni è controverso. Ieri Renzi si è rifiutato di fare dell’Ulivo un santino: l’Ulivo ha perso – ha detto – e per lui vincere o perdere non è un particolare secondario. Il massimo teorico dell’ulivismo, il prodiano Parisi, teorizzava invece, ai bei tempi: meglio perdere che perdersi. Ed effettivamente nella minoranza la velleità minoritaria, puramente identitaria, sembra a volte allignare, per esempio in Civati. Ma non certo in Bersani o in D’Alema. Le cose, dunque, sono complicate: il giudizio sulla seconda Repubblica non traccia uno spartiacque netto fra maggioranza e minoranza. In realtà,  non è passata ancora la generazione che Croce diceva occorresse per maturare un giudizio equanime.

Le cose sono complicate anche su un ultimo terreno, quello della giustizia, sul quale peraltro da sempre il dibattito è incandescente e non soltanto all’interno del partito di maggioranza relativa in Parlamento. In linea di massima, la cultura politica della sinistra è stata, in questi anni, giustizialista. Ma a volte più per inseguire l’opinione pubblica – o, peggio, in maniera strumentale, per tenere alta la comoda bandiera dell’antiberlusconismo – che, invece, per convinzione ideale. Certo, ha avuto i Travaglio e i Flores D’Arcais, e il partito dei giudici, ma in minoranza ci sono anche esponenti come Walter Tocci o come lo stesso ex premier D’Alema, che invece hanno l’impostazione garantista della sinistra storica. Sta di fatto però che la riforma la sta facendo il ministro Orlando, e la magistratura riottosa cerca di frenarla cercando una sponda proprio tra le fila della minoranza.

(Il Mattino, 15 dicembre 2014)

Il diritto e i rischi dell’emergenza

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Le misure prese ieri dal Consiglio dei Ministri rispondono a un intento lodevole: di fronte al dilagare della corruzione, che continua a vedere l’Italia agli ultimi posti nelle classifiche internazionali, e dopo gli ultimi, gravi episodi emersi dal «mondo di mezzo» scoperchiato dalla Procura della Repubblica di Roma, mostrare la massima determinazione nel contrasto del fenomeno. La linea dura significa perciò: pene più severe, tempi di prescrizione più lunghi, aggressione ai patrimoni dei corrotti. Giustamente, il governo ha anche evitato di ricorrere a un decreto in una materia, quella penale, che non lo consente, e ha piuttosto auspicato una corsia preferenziale in Parlamento per il disegno di legge approvato ieri. L’opinione pubblica si attendeva una risposta ferma, e la risposta ferma c’è stata.

Ma sarebbe un’affermazione avventata dire che la corruzione dipende da pene troppo lievi, o dalla possibilità di sottrarsi al giudizio grazie alla prescrizione, o infine dalla speranza di tenersi comunque il malloppo, anche se presi con le mani nel sacco. Il premier ha voluto sottolineare il fatto che con i provvedimenti di ieri è venuta a conclusione una discussione che il Consiglio dei Ministri ha avviato già ad agosto: si tratterebbe quindi di decisioni ben ponderate; ma il timore che ancora una volta si assecondi l’emergenza, un po’ storditi dal clamore degli eventi, è grande.

Perché timore? Perché il diritto penale non ha molto da guadagnare – e anzi ha molto da perdere – da interventi legislativi dettati non dalla logica giuridica, ma quasi dalla necessità politica del momento. Si prenda ad esempio il tema della prescrizione: per il cittadino, è semplicemente intollerabile che un imputato vada assolto per il solo fatto che il processo non ha potuto concludersi in tempo. Eppure, l’istituto della prescrizione resta legato a un principio di civiltà giuridica: non si può rimanere sotto processo per un tempo indefinito. Ma cosa resta del principio, se la prescrizione si allunga o si accorcia a fisarmonica, secondo gli umori dell’opinione pubblica ora più, ora meno allarmata? Stessa preoccupazione va espressa per l’intervento sui patrimoni: si vedrà nel dettaglio, ma per quanto sia moralmente comprensibile l’esigenza di sottrarre il maltolto alle grinfie dei corrotti, resta che affidare la confisca di beni non ad un giudicato, ma ad un’iniziativa della magistratura inquirente, incrina l’idea liberale dell’intangibilità della proprietà, che nel nostro ordinamento viene sacrificata  solo in casi speciali, come quelli legati alla legislazione antimafia. E però non è una buona cosa estendere ancora i casi di eccezione: a furia di eccezioni, non si capisce più cosa rimane di normale nell’ordinamento complessivo. Quanto alle pene, Renzi ha detto nei giorni scorsi che ci sono pochi corrotti in carcere a scontare la pena: troppo pochi. Ora, se in questo modo il premier intende denunciare quello che una volta si diceva essere il carattere di classe della popolazione carceraria, fatta quasi sempre di poveri cristi e quasi mai di alti papaveri e colletti bianchi, ha indubbiamente ragione: i numeri parlano chiaro. Ma se pensa che basti alzare le pene per i corrotti per portarne in carcere di più, si sbaglia, purtroppo. Noi abbiamo infatti ben altri problemi, in questo campo. Ne abbiamo uno con la certezza della pena, e ce l’abbiamo dai tempi di Beccaria, e un altro con la sua sempre meno netta tassatività: troppe volte quello che è reato per l’accusa evapora e si fa sfuggente nelle mani del giudice, a causa della vaghezza con cui sono definite alcune fattispecie di reato, buone per intentare un’azione ma non purtroppo per concluderla. Mettere mano a questi aspetti della pena è di gran lunga più importante che intervenire sulla sua più o meno spiccata severità.

Pur apprezzando allora gli sforzi del governo, che vuole trasmettere giustamente all’opinione pubblica la sensazione che non si intende più guardare da un’altra parte, bisogna tenere viva una preoccupazione: che ancora una volta si confidi solo in una certa forza «declamatoria» del diritto penale, senza intervenire davvero sul tessuto civile del paese: sempre più slabbrato, strappato, inquinato. In quel tessuto c’è il politico corrotto, ma c’è anche il pubblico ufficiale infedele, o il dirigente amministrativo che nessuno smuove dalla sua sedia da decenni. Zone molli e grigie, in cui è difficile entrare, ma in cui davvero, se questo governo vuol fare le riforme, bisognerebbe mettere mano.

(Il Mattino, 13 dicembre 2014)

Se i magistrati si fanno pubblicità

Acquisizione a schermo intero 12122014 181429.bmpL’Associazione nazionale magistrati ha acquistato una pagina sul principale quotidiano italiano per farsi un po’ di pubblicità. L’affermazione suona strana: siamo abituati alle pubblicità di automobili, di merendine o di capi di abbigliamento, e invece stavolta si tratta di illustrare all’opinione pubblica il prodigioso, infaticabile lavoro dei magistrati italiani. Ed il numero di processi conclusi in questi anni, numero che pone la giustizia italiana – per chi non lo sapesse – ai primissimi posti in Europa per efficienza di risultati. In maniera niente affatto incidentale, la pagina pubblicitaria spiega poi che se sembra esattamente il contrario, che cioè ben poco funzioni – basta pensare agli arretrati, ai tempi dei processi, alla popolazione carceraria – bene: è per colpa di tutti meno che dei magistrati. Ma, detta così, è un eufemismo. Quel che la pubblicità dell’Anm fa capire è che la responsabilità precisa è delle cattive leggi del Parlamento italiano. E, manco a dirlo, dei partiti politici. Loro, i buoni, non c’entrano per nulla.

Nella pagina pubblicitaria, l’Anm dipinge così il Parlamento italiano come una controparte. Fa come se i diversi poteri dello Stato fossero ormai o dovessero essere agli occhi dell’opinione pubblica presentati come contrapposti l’uno all’altro. Ebbene, non è questo il peggior alimento dell’antipolitica? E non è l’antipolitica la «patologia eversiva» denunciata con grande coraggio dal Presidente Napolitano? In un momento in cui tutto il Paese si indigna per la corruzione della politica romana, il Presidente della Repubblica, senza attenuare di un grammo il giudizio sul degrado dello spirito pubblico, senza rinunciare ad una sola critica anche severa delle responsabilità della politica, ha trovato il modo e le parole per segnalare che questo paese però non si riprende se si assecondano i peggiori umori qualunquisti, se si fa di tutta l’erba un fascio, se si misconosce il valore politico e costituzionale della rappresentanza, e se infine, ci si chiama fuori, come se la politica, tutta la politica, fosse quella di «lorsignori», fatta sempre alle spalle della povera gente.

Questa retorica qualunquista, falsa storicamente e moralmente, lo è ancora di più, lo è anzi in maniera intollerabile quando viene fatto proprio da un pezzo della classe dirigente del Paese, da quelli che una volta si dicevano servitori dello Stato. E che oggi invece sembrano preoccupati meno dell’esercizio delle loro funzioni che della ricerca del consenso al di fuori delle aule dei tribunali. Come se la supplenza esercitata ormai per decenni dalla magistratura associata, a cause delle inadempienze della politica, non dovesse finire mai. Vi è sicuramente un fortissimo riflesso corporativo nella presa di posizione dell’Anm; ma vi è anche, e non meno, la preoccupazione per un ruolo che non si vuole dismettere: lo stesso che spinse i magistrati di Mani Pulite a tenere una conferenza stampa per fermare un decreto legge, vent’anni fa, e che oggi, con spirito molto meno rivoluzionario e molto più di corpo, spinge l’Anm ad acquistare paginate sui giornali. Sono cambiati tempi e luoghi e circostanze, ma la volontà del sindacato dei magistrati di pesare sulla vita pubblica del paese non è affatto venuta meno. Si è solo fatta di gran lunga meno comprensibile, e forse, proprio per ciò, più stupidamente arcigna.

La «rappresentazione distruttiva della politica» di cui ha parlato Napolitano finisce così con l’essere alimentata dalla scoperta di vaste sacche di corruzione non più di quanto lo sia dall’atteggiamenti della magistratura organizzata. Che senza alcuno spirito autocritico, e senza più sentire il bisogno di riconoscersi nel lavoro delle istituzioni democratiche, risolve tutti i mali della giustizia nelle cattive leggi, a cui evidentemente si contrappongono, uniche e sole, le specchiate virtù professionali di giudici e pm.

Nella sua pubblicità-manifesto, l’Anm scrive infine che chiede «vere riforme». Peccato però non dica perché, tanto per cercare l’esempio là dove il dente duole, ridurre le ferie ai magistrati impedirebbe al Parlamento di fare vere riforme. Peccato però non spieghi, più in generale, quale parte delle misure che secondo l’Anm ci vorrebbero per far funzionare la giustizia sarebbe impedita e non verrebbe attuata a causa della sacrosanta volontà del governo di dare effettività alla responsabilità civile dei giudici. La spiegazione non c’è, perché la risposta è: nessuna. Ed è veramente triste, anzi indecente, che nel momento attuale, approfittando dello sconcerto dell’opinione pubblica per i fatti di Roma, si provino a raccogliere i peggiori umori del paese per alimentare una campagna denigratoria nei confronti del Parlamento e della classe politica, incuranti delle conseguenze sulla tenuta complessiva delle istituzioni, al solo fine di tutelare interessi di bottega. Perché di questo purtroppo si tratta, nella pagina dell’Associazione nazionale magistrati sul primo quotidiano italiano.

(Il Mattino, 12 dicembre 2014)

 

Quel clima che fa male al Paese

termometro-621x272C’è qualcuno che vuole provare a difendere la politica romana, dopo l’inchiesta «Mondo di mezzo»? Nessuno. Dunque proviamoci. Proviamo non per puro spirito di contraddizione, né tantomeno per minimizzare i fatti finora emersi (ma quanti sono in grado, ad una prima lettura di giornale, di distinguere il rincorrersi delle voci dai fatti veri e propri, e questi ultimi dai fatti penalmente rilevanti?), ma perché è in gioco qualcosa che riguarda il Paese intero, la spina dorsale della sua politica e, se non è troppo dirlo, della sua storia. Si tratta di questo: l’inchiesta condotta dai pm romani ha portato alla luce una fitta trama di illegalità in alcuni settori dell’economia della capitale, che prospera grazie alla corrotta complicità delle burocrazie locali, e investe anche esponenti politici di rilievo, secondo responsabilità che devono essere accertate. È evidente che, posta in termini così asciutti, non vi sarebbe sufficiente materia per una settimana di titoli da prima pagina, o per parlare di mafia capitolina, o per evocare il clima di Mani pulite, secondo l’allarmata testimonianza di Raffaele Cantone, che al Corriere racconta come gli capiti sempre più spesso che la gente lo fermi per strada e gli chieda (o forse gli urli): arrestateli tutti.

Ma si possono arrestare tutti? O anche: siamo sicuri che si devono arrestare tutti? Tutti chi, poi? Tutti i politici in quanto politici? Se parliamo di clima, non v’è dubbio che il clima sia quello, che il solo fatto di appartenere alla classe politica attira oggi sospetti e dicerie. Essere un politico significa rinunciare ad avere una buona reputazione, almeno agli occhi dell’opinione pubblica. Che non salva più nessuno. Ma di nuovo: si può essere arrestati a causa del clima? E, oltre il destino individuale di questo o quell’uomo politico, si può lasciare che l’infrastruttura principale dell’architettura di una società – quella che si raccoglie intorno agli istituti della rappresentanza democratica – venga travolta dal clima? Ma chi o cosa alimenta questo clima? La corruzione, certo. Il malaffare: è indubbio.

Ma al momento il clima lo fanno le intercettazioni che finiscono sui giornali. Per carità: decida il Ministro, decida il Parlamento come e quando intervenire sulla materia, nel rispetto di tutti gli interessi coinvolti. Ma intanto non è forse un fatto che, ancora una volta, sulla base di intercettazioni che finiscono nei verbali di polizia indipendentemente dal loro rilievo investigativo e che vengono sparate come notizie prima e indipendentemente da qualunque accertamento, si travolge un’intera classe politica (e, forse, l’Amministrazione della città)? Non è evidente che chiunque voglia fare esercizio di distinzione fra «Tizio dice che» e «la cosa che Tizio dice» rischia di essere accusato: quando va bene di ipocrisia, quando va male di connivenza, e così messo a tacere?

Eppure, per restituire le dimensioni del fenomeno, è una distinzione essenziale. Ma non è solo una questione di civiltà o di garanzie giuridiche: questo discorso lo si è già fatto tante volte, e finisce ogni volta per tirarsi dietro la solita solfa del garantismo e del giustizialismo, con i soliti equivoci interessati, e alla fine lascia il tempo che trova. I titoli infatti, rimangono gli stessi, e la sacrosanta indignazione pure.

No, la si può mettere anche su un altro piano, visto che sul piano del diritto e delle sue forme non si riesce a fare un passo avanti. No: la domanda più spregiudicata, ma necessaria, è la seguente: conviene? O forse, più precisamente: a chi conviene? A chi conviene questo bagno di sangue, questo lavacro purificatore, questa continua drammatizzazione mediatica e, suo tramite, la messa in stato d’accusa di un’intera classe politica? Al Paese non conviene. È vero: il clima sembra quello di Mani pulite. Ci siamo cioè già passati una volta: abbiamo già fatto il tifo per i magistrati e sperato che finissero tutti in galera ancor prima che venissero processati (perché effettivamente va così, dalle nostre parti). Ma se si vuole trarre un bilancio storico e politico veritiero di quella stagione, credo si possa dire con buona ragione che non è convenuto all’Italia: non solo non ha scalato posizioni nelle classifiche sulla corruzione, ma si è ritrovata in condizioni di minorità politica nel momento in cui, con l’ingresso in Europa, avrebbe avuto bisogno di ben altro peso, e di ben altra statura.

Ma se allora non convenne, è lecito temere che neanche questa volta l’Italia ne uscirà rinfrancata, ma anzi prostrata da questa nuovo, violento attacco febbrile. Certo, le responsabilità della politica sono grandi, ma vanno individuate – se si vuol fare opera di verità – più nell’incapacità di trovare medicine per questa febbre, che nei capi di imputazione che si fa fatica a delineare nel mare di parole riversate sui giornali. Alla fine, la nostra classe dirigente appare così: più che corrotta, imbelle, meschina e poco ambiziosa, e forse proprio per questo più esposta al piccolo cabotaggio del generone romano, dell’amico dell’amico, del favore e dell’arricchimento personale.

(Il Mattino, 9 dicembre 2014)

De Magistris e il tweet avvelenato

101004_twitter_laptop_reut_522_regularIl testo dell’ultimo tweet del sindaco di Napoli, già magistrato, è il seguente: «Renzi Premier, Alfano ministro interno, Cantone anticorruzione. Primi risultati: scandali expo Milano e Mose Venezia, mafia e corruzione a Roma!». Su Twitter – com’è noto – un pensiero deve stare in centoquaranta caratteri, spazi inclusi. Ma anche se a De Magistris fossero offerti centomila caratteri in più per meglio esprimere il suo pensiero, non sarebbe possibile raddrizzare, giustificare o argomentare in maniera appena sufficiente una simile opinione: in nessun senso, infatti, è possibile considerare gli scandali di questi giorni e delle passate settimane «risultati» del governo Renzi, del ministro dell’Interno o dell’attività di Raffaele Cantone a capo dell’Autorità anticorruzione. Non è che al tweet del sindaco manchi lo spazio per esplicitare i nessi fra le cose che dice: semplicemente i nessi non ci sono. Non ci sono sul piano logico, non sul piano cronologico, storico o politico. Però De Magistris twitta lo stesso e, a meno che non si sia trattato della mano malaccorta di uno stagista del suo staff, rivela in maniera definitiva in che modo intende interpretare il suo ruolo di primo cittadino: non come rappresentante della città e dei napoletani – di tutti i napoletani, come sarebbe suo dovere – ma come megafono potente per una battaglia politica radicale, antagonista, populista. Una battaglia, peraltro, che non ha alcun rapporto con i problemi della città, dai quali anzi distoglie l’attenzione, quando pretende di innescare polemiche infondate, e però fragorose, con parole che nemmeno l’osservatore più distratto, o più becero, potrebbe far proprie. E invece sono le parole di un sindaco, che con le autorità chiamate in causa nel suo twit dovrebbe intessere un dialogo, e innanzi alle quali dovrebbe portare il sentimento e la voce di una città intera, e a cui invece De Magistris ha deciso di contrapporsi duramente, secondo una strategia politica evidente, che strumentalizza e mortifica le istituzioni. E offende e umilia la città: ad onta infatti delle sguaiate dichiarazioni d’amore per Napoli e i napoletani, De Magistris li svergogna con atteggiamenti e pose ribellistiche e plebee, incompatibili con un senso anche minimo delle istituzioni, tenute però al comodo riparo di una fascia tricolore, agitata come una bandana solo per fare il vento necessario a «scassare». Scassare i rapporti con il governo, senza nulla riparare in città. Cosa scriverà allora, la prossima volta? Che tra i risultati del governo c’è da mettere in conto anche la morte di Loris, oppure un rigore negato al Napoli? A questo serve un sindaco: a spararla sempre più grossa, e a coltivare i più ciechi risentimenti? Cosa mette in gioco De Magistris, oltre al suo personale interesse politico? Quanti napoletani rappresenta – e quante intelligenze offende – quando dice che per colpa di Renzi, Alfano o Cantone c’è la mafia a Roma? Fino a quando De Magistris abuserà della sua carica?

(Il Mattino, 7 dicembre 2014)

L’isolamento come strategia

Acquisizione a schermo intero 04122014 130327.bmpIl ritiro della firma e la disdetta degli accordi che il Comune di Napoli aveva raggiunto nello scorso agosto con il governo su Bagnoli sono un fatto di particolare gravità, che accentua l’isolamento istituzionale della città e la condanna ad uno stato di minorità politica. Lì dove riuscivano ad arrivare perfino i sindaci leghisti – quelli che avevano cominciato rifiutando di mettere il ritratto del Presidente della Repubblica nei loro uffici, e che tuttavia con Palazzo Chigi bene o male parlavano  – lì non riesce ad arrivare invece il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Per lui non è possibile osservare alcun patto con il governo. Per lui, non c’è spazio per una normale interlocuzione istituzionale. Per lui, non è possibile mantenere aperto, al di là di divergenze pur profonde, alcun confronto con l’autorità centrale dello Stato, nemmeno nei termini di una dialettica serrata. E il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Del Rio, non può che prenderne atto: l’incontro in programma ieri viene annullato e il sindaco della terza città d’Italia, denunciando con parole aspre e forti il tradimento di Napoli, spinge in realtà la città sempre più lontano dal tessuto istituzionale del Paese. Con quale costrutto, non importa. Con quale prospettiva, per Bagnoli e per la città intera, non è dato sapere. Intanto, quel che si consuma è un altro strappo, l’ennesimo, e la certezza che ben difficilmente si troverà modo di fare qualche rammendo.

Di tutto ciò, non si può dire che De Magistris non sia perfettamente consapevole. È una partita politica altissima quella che si sta giocando, dichiara, e ha ben chiaro come intende giocarla. Pur indossando la fascia tricolore, ha infatti deciso che per lui e per la sua rivoluzione arancione c’è molto più spazio politico, molto più brodo in cui pescare, se interpreta la parte del sindaco di strada, del sindaco arrabbiato, del sindaco di lotta più che dell’uomo di governo. Se prova cioè a declinare anche da primo cittadino, e al presente, il verbo con cui ha salutato il suo successo elettorale. Non è vero, infatti, che ha scassato: può ancora scassare. Scassare le istituzioni, rompere i patti, disdire gli accordi, negare fiducia alle istituzioni, anche se gli toccherebbe di nutrirla quasi soltanto per il ruolo che riveste. Ma nel clima di crisi e discredito in cui versa l’Italia, il Mezzogiorno e Napoli, gli viene molto più facile rovesciare il tavolo che tenerli in piedi. Quindi: via la firma. Che in questo modo si paghi un prezzo altissimo, che la morte di Sansone con tutti i filistei non dia alla città alcun futuro: questo passa in secondo piano. Intanto, qualcuno ne approfitta per ergersi a Sansone, e trascina nella sua incontenibile furia un popolo intero.

Al solito, si potrebbe obiettare che, dopo tutto, Bagnoli non si è fermata oggi, ma qualche decennio fa. Che i disastri ambientali e sociali non sono responsabilità dell’ultimo sindaco in carica ma di una intera classe dirigente. Che infine l’atteggiamento di questo governo non brilla per spirito di collaborazione. Giusto. Ma De Magistris dovrebbe sapere, e anzi certamente sa, che sono le confuse condizioni politiche della città, i tre anni passati invano della sua sindacatura, l’inaffidabilità della sua amministrazione a spingere il governo a tagliar corto. Il sindaco non può limitarsi a sedere al tavolo per mera presa d’atto: giusto anche questo. Se solo, però, negli anni scorsi si fosse seduto sulla poltrona di sindaco per fare qualcos’altro, di Bagnoli.

Ma ormai sembra saltato, in realtà, un punto preliminare: il piano personale, quello politico e quello istituzionale non coincidono. Guai, anzi, se coincidessero. Guai se la politica si facesse solo sulla base degli interessi e delle prese di posizioni personali; guai se le istituzioni perdessero ogni profilo autonomo dalla lotta politica. E invece, con De Magistris, si assiste a questo spaventoso regresso, per cui l’istituzione diviene ostaggio della politica, e la politica sua volta viene schiacciata sul profilo personale (e la sempre più vicina strategia elettorale) del primo cittadino. A cui interessa radicalizzare lo scontro, e farsi interprete dei sempre più vasti umori anti-politici e anti-istituzionali che attraversano il paese.

Ogni istituzione impone al nostro corpo una serie di modelli e dà alla nostra intelligenza un sapere, una possibilità di previsione e di progetto: così almeno diceva Gilles Deleuze. Nel caso di De Magistris, tuttavia, non sembra proprio che la cosa sia riuscita.

(Il Mattino, 4 dicembre 2014)

La politica fragile che Matteo scompiglia

Acquisizione a schermo intero 01122014 131237.bmpSe i passi di Matteo Renzi – gli spostamenti i viaggi le visite – si tirano dietro la coda di polemiche che anche la puntata a Napoli ha sollevato, una cosa allora è certa: tutti gli altri inseguono. Dopodiché si può ben capire l’aspra polemica del sindaco Luigi De Magistris, che Renzi anche in questa occasione non ha voluto incontrare: lui la mette sul piano del garbo istituzionale, del rispetto che è dovuto al primo cittadino della città, e fa pure bene, dal suo punto di vista. Quanto sia credibile il pulpito che De Magistris usa indifferentemente, quando è sindaco di strada e quando è uomo delle istituzioni, è tutta un’altra storia, ma almeno il sindaco di Napoli un argomento ce l’ha. Ma su quale piano la mettono gli esponenti del centrodestra napoletano, i Paolo Russo e gli Antonio Martusciello, che trovano modo di polemizzare con il Presidente del Consiglio per la sua visita agli stabilimenti di Gianni Lettieri? Parlano a nuora perché suocera intenda, evidentemente. Il che la dice lunga sullo stato dei rapporti interni a quell’area politica. Così, con l’apparenza di difendere Lettieri dall’«occhiuta rapina» di Renzi, che lo tirerebbe dalla sua parte, in realtà provano a regolare conti lanciando in modo obliquo il loro ostracismo nei confronti del leader dell’opposizione di centrodestra a Palazzo San Giacomo.

Il capo d’accusa, in ogni caso, non è istituzionale, ma tutto politico: Renzi mira a diluire i confini tra i due opposti schieramenti. E perché lo farebbe? Per costruire un’alternativa politica non più imperniata sulla distinzione politica fra centrodestra e centrosinistra, ma su una lista di uomini affidabili, autorevoli, competenti: il lato illuminato e civile della città.

Questa accusa regge, naturalmente, se regge la premessa. Se cioè il centrodestra e il centrosinistra in città stessero in piedi, e il premier giocasse a buttarli giù. Ma il fatto è che gli uni e gli altri in piedi non stanno, e Renzi non ha nessuna intenzione di offrire loro il braccio per tirarli su. Teme, casomai, di finirci impelagato dentro, e non ha nessuna voglia di farne le spese. Forse, essendo non solo il Presidente del Consiglio ma pure il segretario del partito democratico, qualche attenzione in più dovrebbe riservarla al suo partito. Ma a che punto sono, da quelle parti, visto che in questi stessi giorni il Pd campano dimostra per l’ennesima volta la propria inconcludenza rinviando le primarie per la scelta del candidato alle Regionali? Non certo a buon punto. C’è il rischio così che finisca come nel racconto di Achille Campanile, gli asparagi e l’immortalità dell’anima: alla fine si scopre che, nonostante ogni sforzo, non hanno nulla in comune. Ovviamente non è così, se e finché Renzi del Pd è il segretario: ma intanto, da Presidente del Consiglio, proprio non vuol dare l’impressione che l’andamento lento del Pd locale in qualche modo lo riguardi. Manda così il fido vicesegretario Guerini a trattare, e intanto lui se ne va da un’altra parte.

Dove crea perlomeno altrettanto scompiglio, viste le dichiarazioni imbarazzate, e la guerra intestina che in un’area politica ormai balcanizzata si scatena. Dove, diciamolo chiaramente, non sono le dinamiche politiche che Renzi manda all’aria con le sue scelte provocatorie, bensì piuttosto quelle personali, clientelari, notabilari. C’è un’evidente inversione del rapporto di causa ed effetto: a parte l’esempio imprenditoriale (impossibile pensare che si sia davvero trattato solo di quello), i riverberi politici della visita di Renzi all’Atitech di Lettieri sono effetto e non causa del collasso dell’estrema fragilità del quadro politico locale: Renzi non la determina, casomai ne prende atto.

Il rischio è però che l’Italia intera si avvicini ai prossimi, delicatissimi appuntamenti politici e istituzionali in condizioni assai simili, e che la confusione napoletana diventi una metafora di quella più grande che rischia di prodursi nel Parlamento italiano. C’è ancora, lì dentro, chiarezza di confini politici? La prova più difficile per la politica italiana è sempre stata l’elezione del Presidente della Repubblica: forse non dobbiamo aspettare molto per saperlo.

(Il Mattino, 1 dicembre 2014)