Così il Csm lava i panni sporchi in casa

strategia_struzzo1Altro che proverbiale saggezza di Salomone! Al figlio di Re Davide, chiamato a decidere a quale madre affidare il figlio conteso, non venne l’idea giusta. Se avesse seguito i lavori del nostro Consiglio Superiore della Magistratura, non avrebbe avuto bisogno della proposta-choc – tagliare il bimbo a metà – ma avrebbe fatto come si farà d’ora innanzi a Milano: un po’ per ciascuno. Avrebbe potuto dare cioè il bimbo alla madre più anziana, poi, quando si fosse fatta troppo vecchia, sarebbe potuta subentrare l’altra. A Milano, infatti, la soluzione trovata è questa: nel contrasto che ha visto il vice capo Alfredo Robledo opporsi al Procuratore Edmondo Bruto Liberati non si dà ragione né all’uno né all’altro, ma si manda Robledo per un annetto circa a Venezia, in attesa che Bruti Liberati vada in pensione, e poi lo si richiama a Milano. Salomone avrebbe forse proposto di dividere la Procura in due, ma poiché la Procura non è come un figlio e poiché, soprattutto, è probabile che nessuno avrebbe fatto un passo indietro (pazienza se la Procura sarebbe finita in pezzi), il CSM ha pensato bene non di decidere, ma di sistemare le cose alla bene e meglio. Di cavarsela con un accomodamento, insomma. Ora, lasciamo perdere lo sfondo biblico – anche perché, forse, la figura da richiamare sarebbe piuttosto Pilato che Salomone – il fatto è che, nel seguire questa vicenda e il suo epilogo da operetta, ne viene fuori un’immagine dell’autogoverno della magistratura che conferma ancora una volta tutte le opacità e i riflessi corporativi che, purtroppo, compaiono ogni volta che si prova a guardare dentro il sistema. L’autonomia dell’ordine giudiziario, che sta scritta in Costituzione, diviene così il presupposto per dedicarsi senza intralci o interferenze alla poco nobile attività del lavaggio dei panni sporchi in famiglia. Chiunque ha pensato in questi mesi di aspro conflitto fra i due alti magistrati che uno aveva ragione e l’altro torto, che si erano scambiate parole troppo forti perché si potesse soprassedere o minimizzare, che c’erano precise responsabilità da individuare ed eventualmente comportamenti da sanzionare, che l’amministrazione della giustizia richiede chiarezza, che l’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dipendere dalle appartenenze correntizie, che l’opinione pubblica ha qualche diritto di sapere come si assegnano i fascicoli in Procura (questo, all’origine, l’oggetto del contendere) si trova di fronte a questa poco onorevole via d’uscita: l’uno a Venezia e l’altro a Milano, per il tempo necessario a far dimenticare le cose (e gli uomini). Dal momento che stabilire un’incompatibilità ambientale per trasferire Robledo rischiava di essere troppo deflagrante e assolverlo significava gettare un’ombra troppo lunga sul procuratore capo – e in entrambi i casi si rischiava di scoperchiare troppe cose – si è mantenuto il coperchio ben fermo sopra la pentola della Procura, cercando di salvare capra e cavoli. Solo che i cavoli sono anche i nostri, quelli dei cittadini su cui ricadono capi d’accusa e sentenze, e non solo quelli legate alle posizioni di carriera dei magistrati.

E tutto questo accade nel Palazzo di Giustizia simbolo del Paese, quella del terremoto giudiziario di Tangentopoli e del pool di Mani Pulite, quella che mandò a processo l’intera Prima Repubblica; accade nella Procura che è stata di Borrelli e di Di Pietro, di Colombo e di D’Ambrosio, e che ha occupato le cronache politiche di questi vent’anni con i processi a Berlusconi. Ora, sarebbe affrettato trarre da questa vicenda prove sulla politicizzazione della magistratura e sulle zone grigie in cui si mantiene l’attuale sistema di autogoverno: affrettato ma soprattutto inutile, perché lo sappiamo già. Ma non è inutile, invece, ricordare almeno questo: mesi fa, allo scoppiare del caso, un quotidiano molto sensibile alle vicende della Procura di Milano, La Repubblica, scrisse che sarebbe stato scorretto prenderle a pretesto per rappresentare il Palazzo di Giustizia di Milano come «un covo di vipere e un coacervo di correnti», invece di decidere chi avesse torto e chi ragione. Ebbene, è successo che a non decidere i torti e le ragioni è stato ieri il CSM: se quel quotidiano ci vide giusto, allora vuol dire che la rappresentazione della procura milanese come un coacervo di correnti, e forse anche come un covo di vipere, non appartiene a parti politiche interessate, ma ispira nientedimeno che il modus operandi del Consiglio Superiore della Magistratura. Difficile fare meglio, cioè peggio.

(Il Mattino, 15 gennaio 2015)

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