In Liguria, Cofferati sbatte la porta e se ne va: dopo l’inascoltata denuncia di gravi irregolarità, proclamati i risultati e sancita la vittoria di Raffaella Paita, uno dei fondatori del Pd saluta tutti e lascia la politica. In Campania, invece, non c’è due senza tre: alta è infatti la probabilità che il partito democratico si risolva per il terzo rinvio delle primarie, o addirittura per l’annullamento, dopo la strombazzata disponibilità di Gennaro Migliore a parteciparvi. Anche perché la data già fissata, il primo febbraio, cade nel bel mezzo delle elezioni del presidente della Repubblica, e così c’è un ottimo motivo per infilarsi nuovamente nel tunnel di mortificazioni che il Pd campano ama infliggersi da quel dì.
Ora, è vero che l’esperienza delle primarie è recente: il Pd vi si dedica da meno di dieci anni, che per una forza politica sono un tempo relativamente breve. Ma un caso come quello campano non si era ancora verificato: e dire che non ci sono stati terremoti, alluvioni o altri cataclismi. Che cosa allora impedisce al partito democratico di celebrare le primarie? Che cosa impedisce di osservare quel minimo rispetto che si deve al corpo elettorale, che consiste nello stabilire un appuntamento e, poi, nell’osservarlo? Dopo tutto, le primarie liguri sono state convalidate: non si può dire dunque che, agli occhi della direzione romana, disordini o manipolazioni non possano essere circoscritti in modo che non inficino il risultato finale. Né d’altra parte si capisce perché eventuali timori di brogli non abbiano allora impedito di indirle, visto che c’erano già precedenti. Cosa, allora? Vi è una sola risposta possibile: il profilo politico che il partito democratico campano assumerebbe dopo lo svolgimento delle primarie e la vittoria di uno dei due competitor più accreditati, De Luca o Cozzolino. È una preoccupazione legittima – da parte ovviamente dei loro avversari – se fosse però tenuta nel rispetto delle regole: per esempio attraverso la candidatura di un altro esponente politico che provasse a batterli. In effetti, con la discesa in campo di Migliore, pare che stia per accadere proprio questo: salvo che, per giungere a un tale esito, c’è stato bisogno di un paio di rinvii, forse tre, e di calpestare le decisioni fin qui prese. Che prevedevano un allargamento delle primarie a esponenti di altre forze politiche, e una raccolta di firme entro date stabilite. Ma ormai di stabilito non c’è più niente: c’è un processo politico al quale le labili regole del Pd campano si piegano volta per volta, per rendere possibile il difficile parto del nuovo, nuovo che sarebbe infine rappresentato da Gennaro Migliore.
Ma allora si faranno, queste benedette primarie? Non il primo febbraio ma magari due settimane dopo, non con le vecchie regole ma magari con regole nuove, non con i soli esponenti del Pd ma anche con l’apporto di altri (minuscoli) partiti, e non solo con i candidati della prima ora ma con candidati freschi, freschissimi, praticamente di giornata? Calma e gesso: non è affatto sicuro. Non si trova infatti un solo dirigente democratico disposto a giurarlo, nessuno per il quale basti l’argomento: sono previste, dunque si faranno. Lo stesso Migliore, mentre tende una mano agli altri contendenti, dichiarandosi pronto a entrare in lizza, usa l’altra per vestire i panni del candidato unitario, cioè del candidato che sta in campo per superare, non per partecipare alla contesa.
Migliore, bontà sua, si dichiara da sempre favorevole alle primarie, ma, aggiunge, «non se queste dissolvono i partiti». Ora, come facciano le primarie a dissolvere i partiti non è chiaro: è vero, ne cambiano la natura, riducendo il peso di iscritti, apparati, organismi dirigenti. Ma questo lo si sa dal 2007 (e doveva saperlo pure Cofferati, che lo scopre forse con qualche ritardo), cioè da quando il Pd è nato grazie alla liturgia delle primarie come suo «elemento fondativo». Quanto invece alla temuta dissoluzione, il sospetto è che ci si vada molto più vicini coi brogli, certo, ma pure con questo continuo stop and go, con questo sorta di «coitus interruptus» (e più volte interrotto), con questa incertezza che regna sovrana: con le primarie sì, ma solo fino ad avviso contrario; oppure primarie sì, ma solo se ci piacciono i candidati; o infine sì, ma solo se non c’è partita.
Nel corso della prima Repubblica, non si è data attuazione all’articolo 49 della Costituzione per il timore che, irrigidendo i partiti con norme, regolamenti e statuti e favorendo così, in caso di violazioni e ricorsi, le intrusioni della giustizia ordinaria, se ne sarebbe limitata fortemente l’autonomia. Una concezione tutta politica, tipica dei grandi partiti del Novecento e in particolare del partito comunista, che dall’opposizione aveva qualche timore in più. Ma quei partiti avevano collanti ben altrimenti potenti: in termini di ideologia, di disciplina, di partecipazione di massa. Tutto questo è scomparso, o quasi. L’articolo della Costituzione è rimasto inattuato, gli iscritti calano vistosamente: senza un minimo di certezza e legittimità delle procedure chiamarlo partito, francamente, è fargli un complimento.
(Il Mattino, 18 gennaio 2015)