Archivi del mese: febbraio 2015

I magistrati e il paradigma delle minacce

ImmagineSu una cosa il presidente Sabelli ha indiscutibilmente ragione: la riforma dell’istituto della responsabilità civile dei giudici non la si fa perché «ce la chiede l’Europa», perché pendono ricorsi alla corte di giustizia europea o perché fioccano multe contro il nostro Paese. Ma le ragioni dell’Associazione Nazionale Magistrati e del suo presidente, purtroppo, finiscono qui. La legge approvata dal Parlamento, che prova finalmente a rendere effettiva una qualche forma di responsabilità per il giudice che sbaglia, andava fatta per dare finalmente attuazione a un principio sacrosanto di civiltà giuridica. Per Sabelli, invece, grazie a questa legge «si tenterà di intimidire il giudice, anche se i giudici non si lasceranno intimidire». Ora queste parole meritano un’interpretazione attenta, anzitutto per escludere che Sabelli pensi che il ministro della Giustizia o il Parlamento italiano mettano in campo o anche solo favoriscano azioni intimidatorie nei confronti della magistratura. D’altra parte, anche Sabelli – come molti, come troppi – ha l’abitudine deleteria di riferirsi in generale (e in maniera, bisogna dirlo, qualunquistica) alla «politica», al pessimo segnale, al «messaggio» che la «politica» avrebbe dato. Ma non si tratta della politica e non si tratta di messaggi: si tratta del Parlamento e si tratta di una legge. Un magistrato dovrebbe tenerne meglio conto, anche nell’esercizio, pur libero e legittimo, del commento e della critica.

Ma cosa c’è che non va nella nuova normativa? Evidentemente il contenuto intimidatorio. Vorrà un giudice esporsi, se al cittadino sarà data la possibilità di intentare un’azione contro di lui? Sarà abbastanza sereno, ora che questa eventualità non è più meramente teorica, e l’ammissibilità dell’azione non sarà «filtrata»? Filtrata però da cosa? Il comunicato dell’Anm spiega:  «da cause infondate per difetto dei presupposti». Ma che ottima cosa è la logica! La logica infatti (non Sabelli) qui ci soccorre: possiamo temere l’intimidazione dei magistrati italiani a colpi di cause infondate? Certo che no. Ma Sabelli sembra pensare invece che ogni serenità è perduta. Devo dire che «sembra» soltanto pensarlo, perché subito dopo aver detto che si tenterà di intimidire i giudici, aggiunge che però i giudici non si faranno intimidire. Io, in verità, ne sono convinto. Trovo anzi offensivo anche solo ipotizzare che possano esserlo. Nelle fila della magistratura ci sono stati e ci sono uomini che non solo non hanno mai fatto un passo indietro di fronte a ogni genere di minaccia o intimidazione, ma hanno messo a repentaglio la loro stessa vita per servire la giustizia. Domando: è credibile che questi uomini, questi coraggiosi servitori dello Stato, si rivelino improvvisamente pavidi per timore di perdere una fetta del loro stipendio? (E a proposito, ma per i troppo pavidi e i troppo negligenti non sono già previste azioni disciplinari da parte dell’organo di autogoverno della magistratura?).

Non solo. La riforma approvata dal Parlamento prevede che a giudicare se scatti la responsabilità civile del magistrato siano altri magistrati. Di chi o di cosa deve dunque avere paura il magistrato? Se avesse qualcosa da temere, perché non dovremmo pensare di qualunque cittadino che finisse dinanzi a un magistrato che deve provare lo stesso, oscuro timore? O forse è di questo che si tratta, della possibilità di intimidire solo ed esclusivamente i cittadini a processo, ma non mai i magistrati che irresponsabilmente procedono? Ma è questo che sta scritto in Costituzione? Così va interpretata la presunzione di innocenza? Il segretario generale dell’Anm, Maurizio Carbone, ha parlato di una «spada di Damocle» sopra la testa dei magistrati: addirittura! Ma su chi vuole invece che quella spada penda disinvoltamente? Perché di nuovo: se pende su un magistrato solo perché un suo collega giudicherà il suo operato, come non pensare che allora pende su tutti noi, quando dovessimo essere sottoposti per qualunque ragione a giudizio innanzi a un giudice che invece non ne risponde?

Il Presidente Sabelli butta poi la palla in tribuna. Sono altri i problemi della giustizia: la corruzione, la prescrizione… come no. Non ne dubito, anche se dubito di pensarla allo stesso modo pure su questi argomenti. E però mi chiedo: cosa c’entra? Nessuno pensa che con la riforma portata tenacemente in porto da questo governo e dal ministro Orlando si svuoteranno d’incanto i palazzi di giustizia e saremo tutti più buoni. Ma non si vede perché l’approvazione della riforma dovrebbe impedire al parlamento, all’opinione pubblica e all’Anm, ciascuno per la sua parte, di continuare ad occuparsi di corruzione o di prescrizione. E come si fa a giudicare frettolosa o prematura una legge che arriva dopo ben venticinque anni dal referendum voluto dai radicali, e di fatto rimasto lettera morta nei venticinque anni successivi?.

Gaia Tortora, la figlia di Enzo Tortora, ha ringraziato il governo. Ecco: noi ringraziamo Anna Tortora per aver aspettato venticinque anni, anche se, a quanto pare, per il presidente Sabelli doveva aspettare ancora.

(Il Mattino, 27 febbraio 2015)

La pentola a pressione

Acquisizione a schermo intero 26022015 180238.bmpOra che le primarie non sono più rinviabili – ed è una notizia, perché solo ora la data del primo marzo ha acquistato il carattere della definitività – il partito democratico scoppia. Letteralmente. L’eurodeputato Massimo Paolucci e il deputato Guglielmo Vaccaro, due dei maggiorenti del Pd campano che hanno provato in ogni modo a scongiurare il voto di domenica, abbandonano il partito. Il primo esplicitamente, il secondo lasciando intendere che potrebbe addirittura votare Caldoro, pur di non schierarsi con uno dei due candidati maggiormente accreditati alla vittoria finale, Cozzolino o De Luca. Ma chi voterebbe il centrodestra è complicato immaginare che resti invece nel centrosinistra.

Quello che già era evidente nelle settimane e nei mesi scorsi, e che tuttavia rimaneva nascosto dietro il paravento dei continui slittamenti della competizione elettorale, diviene dunque di dominio pubblico: il Pd campano non è un partito, ma un pentolone in cui ribolliscono storie, uomini e interessi – e insieme rancori, rivalità e inimicizie – che non possono essere cucinati insieme. O almeno: né gli organismi dirigenti locali  (che hanno grandi responsabilità nella gestione di tutta questa fase) né i candidati maggiori hanno sufficiente rappresentatività perché l’europarlamentare Paolucci o il deputato Vaccaro si sentano garantiti in caso di una loro vittoria. Ai loro nomi dovremmo forse sovrapporre le relative etichette, e parlare in un caso di dalemiani (Paolucci), nell’altro di lettiani (Vaccaro), ma così avremmo solo issato qualche altro pudico paravento per una vicenda che, in realtà, non trascende affatto il suolo campano.

Ora, è chiaro a tutti che non si tratta di un confronto anche duro di linee politiche, di divergenze sulle scelte programmatiche, o di incoercibili convinzioni ideologiche. E neppure si tratta dell’ultima linea di divisione che si è formata nel Pd: il vecchio contro il nuovo, i rottamatori contro i conservatori. Né Paolucci né Vaccaro sono infatti uomini politici di primo pelo. Né Paolucci né Vaccaro sono venuti su con l’ultima leva generazionale, quella dei Renzi boys&girls. Né Paolucci né Vaccaro sono dei martiri ingenui, trovatisi improvvisamente nella fossa dei leoni. Nelle loro parole, peraltro, non c’è un’altra idea di regione o un’altra qualità di meridionalismo: c’è puramente e semplicemente, con una franchezza persino brutale, disistima profonda per De Luca e Cozzolino, e sfiducia altrettanto profonda nella capacità del Pd di assicurare alla competizione elettorale un corso regolare. Ma in questo modo è come se ai piani alti della politica non si trovasse per loro più nessuno, e non rimanesse che spingere tutto e tutti nello scantinato buio delle questioni personali e delle lotte di potere. E quando un deputato di esperienza come Vaccaro scrive che l’unico modo di salvare le primarie era evitare di tenerle – che è come dire: commissariate tutto – o che le casse della Regione Campania non sono al sicuro con De Luca o Cozzolino, significa che la prima condizione della comune militanza politica, cioè la fiducia, è venuta completamente meno.

Restano da fare ancora due considerazioni. La prima: oggi è giovedì. Alle primarie mancano cioè quattro giorni: non è un po’ tardi per scoprirsi nel cuore un così immacolato candore? Non somiglia troppo, la denuncia di Paolucci e Vaccaro, a quello che ti vuole bucare il pallone, perché non vuol perdere la partita? La seconda: oggi è giovedì. E sì: alle primarie mancano quattro giorni e i democratici si giocano davvero una grossa fetta della loro credibilità. Solo attraverso un ordinato, ordinatissimo svolgimento della competizione il centrosinistra può parare il colpo. Circolano in queste ore foto, voci, indiscrezioni, che danno il centrodestra pronto a invadere il campo del centrosinistra determinando l’esito delle primarie. Ora, un conto è che gli elettori moderati entrino nei seggi, tutt’altro sono gli accordi sottobanco coi capibastone locali dello schieramento opposto. Ma siamo realisti: le primarie del Pd non sono regolamentate per legge. E sono aperte, cioè può votare praticamente chiunque. In simili condizioni, pesano sicuramente i comportamenti e i costumi politici dei candidati. Ma conta anche la forza e la salute complessiva di un partito che, se tale appunto fosse, non temerebbe inquinamenti, perché avrebbe le proprie risorse – organizzative, di militanza, di idee – per respingere patti scellerati. Di quante di simili risorse dispone oggi il Pd? Non è un giudizio che possiamo dare prima: lo si darà dopo il voto, e alla luce del sole.

(Il Mattino, 26 febbraio 2015)

Caos Pd, la somma di tante debolezze

Acquisizione a schermo intero 25022015 110434.bmp«Lacrime, grida, e pianti, urla, terrori/ Spargeranno sangue, carestia, nulla sarà risparmiato»: la grande profezia di Nostradamus non si riferiva certo al partito democratico campano, e certo esagera un po’ nei toni, ma effettivamente nulla o quasi viene risparmiato all’elettore, al simpatizzante o all’iscritto del Pd che, avendo preso diligentemente nota della data di convocazione delle primarie, ha pensato non una, non due, non tre ma quattro volte di potersi recare al seggio per scegliere il candidato governatore del centrosinistra. Domenica prossima sarà la volta buona? Pare proprio di sì, anche se la giornata di ieri è stata un’altra di quelle giornate convulse in cui è circolato di tutto e di più, ivi compresa la pubblicazione, da parte di uno dei candidati alle primarie, il socialista Marco Di Lello, di un elenco di nomi della direzione regionale del partito, in calce ad una richiesta di annullamento delle primarie. Nel frattempo si rincorrevano le voci, le smentite, i veleni, le precisazioni, come se la prima cosa che dovesse preoccupare il centrosinistra non fosse il buon andamento della campagna elettorale e, poi, delle operazioni di voto, ma tutto il resto, tutto quello che cioè appassiona chi le primarie le vuole e chi invece no; chi pubblica allarmato liste di nomi e chi propala notizie false e tendenziose; chi telefona a Roma speranzoso e chi telefona a Roma parecchio incazzato. Insomma: una Babele. E la somma confusa e incomprensibile di troppe debolezze.

C’è anzitutto la debolezza della dirigenza piddina locale, che non è stata in grado di assicurare, nemmeno nell’ultima settimana prima del voto, un minimo di certezza sulla strada intrapresa. C’è poi la debolezza del partito preso nel suo insieme, privo com’è di un vero collante che impedisca di rimettere in discussione ad ogni passo le decisioni adottate.   Una regola, qualunque regola, può essere infatti seguita solo se non è minacciata continuamente di essere revocata in dubbio. Solo se è condivisa: accettata, dice il filosofo, dentro una comune forma di vita. Nel Pd campano, complice una statuto cervellotico fatto apposta per rimettere ogni volta tutto in discussione, questa condivisione minima sulle regole non c’è. C’è infine la debolezza dei candidati. Che sono di due tipi. Ci sono quelli che vorrebbero ma non possono, che cioè hanno cercato fino all’ultimo sponde romane per far saltare il banco delle primarie; e quelli che possono, e vogliono pure, e però non sono voluti (o benvoluti) dalla nouvelle vague del partito. E cioè De Luca e Cozzolino, volta a volta dipinti come orchi, come draghi sputa-fuoco o divora-tessere, ma che, a conti fatti, rimangono gli unici capaci di sottoporsi senza sotterfugi, subordinate o vie di fuga alla prova del voto.

Che a questo punto si terrà, non può non tenersi. L’elenco dei nomi era una patacca, oppure è scomparso. O forse ha perso pezzi per strada. Ma è chiaro che ogni ulteriore rinvio, ogni ipotesi di annullamento giungerebbe a questo punto fuori tempo massimo. Va da sé, uno vorrebbe aggiungere, se davvero qualcosa nel Pd andasse da sé, e non fosse necessario ad ogni passo farcela andare. Sta il fatto che la finestra elettorale regionale si è aperta nel peggiore dei modi. Forse si chiuderà in un modo migliore: forse i numeri della partecipazione ci faranno ricredere, e tutto filerà liscio senza brogli e contestazioni. Di sicuro però il Pd non ci ha fatto finora una gran figura.

E in verità forse non ce la facciamo neanche noi, non ce la fa neanche il mondo «là fuori», cioè tutti quelli che da questa vicenda non si sentono minimamente coinvolti e che perciò guardano molto distrattamente o finanche ignorano le convulsioni del partito democratico. Non lo dico perché, invece, lo spettacolo sarebbe appassionante, ma perché solo là dove  vi fosse una società civile forte, vigile, robusta simili comportamenti si rivelerebbero  davvero controproducenti per chi li adotta – in termini di reputazione, di immagine, di credibilità, di voto. Certo, uno poi volge lo sguardo dall’altra parte, e si ritrova la storia del complotto intestino contro Caldoro, e veleni sparsi a piene mani anche nel centrodestra, e allora gli tornano per forza in mente le centurie di Nostradamus, e insomma di strada da fare di qui al voto, e dal voto ad un futuro meno fosco per la crescita economica, sociale e civile della nostra terra, è ancora tanta.

(Il Mattino, 25 febbraio 2015)

Gli scritti di Togliatti e il lento revisionismo del Pci

downloadLe ragioni per leggere Togliatti oggi non mancano. Il volume curato da Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca per la collana  «Il pensiero occidentale» lo dimostra. In verità Togliatti, che pure fu uomo di vaste letture,  non fu certo un filosofo, ma un capo politico, e, anzi, per un indirizzo di pensiero puramente speculativo non aveva alcun vero interesse. Il suo stile di leadership – come spiegano ene i curatori, nella introduzione generale al volume – era però fondato proprio «sull’esercizio della direzione intellettuale». Una direzione robusta, come dimostrano ad esempio gli appunti su Croce, qui pubblicati: la riforma crociana della dialettica hegeliana – annotava il Migliore dopo la morte del filosofo – a confronto dell’hegelismo è una «castrazione». Filosoficamente parlando, si tratta di un giudizio ben fondato, come lo è il giudizio sul sistema crociano dei distinti: piccola cosa, a confronto dell’«opera colossale» di Hegel.

Ma è il peso complessivo avuto da Togliatti nella cultura italiana del ‘900 ad essere attestato dal volume. E attraverso la sua biografia intellettuale – in questi termini è costruita la raccolta – si getta uno squarcio di luce profondo sulla vicenda non solo politica del nostro Paese, e se ne comprendono nodi essenziali. In particolare, hanno qui grande rilievo gli scritti sul fascismo, apprezzati anche da De Felice, e quelli dell’immediato dopoguerra: per Togliatti, gli anni in cui doveva nascere di una democrazia «di tipo nuovo» e, quindi, delinearsi la «via italiana al socialismo». Risultano invece assai meno rappresentati gli anni del Comintern: non per un goffo tentativo di ridimensionare il ruolo del dirigente comunista internazionale, ma per la buona ragione che la vera impresa politica e intellettuale di Togliatti sta altrove, nel tentativo di innestare il partito nuovo, che nasceva nell’Italia divisa del dopoguerra, dentro la storia d’Italia.

Nell’opera costituente, questo innesto si può dire riuscito. Può dirsi anche che fu, nel lungo periodo, la forma in cui il Pci praticò il suo lento «revisionismo». Il volume raccoglie comunque materiale sufficiente per comprendere la trama ideologica con cui i comunisti vi parteciparono; per ricondurvi anche l’«operazione Gramsci», compiuta nel secondo dopoguerra con la pubblicazione delle carte del pensatore sardo; per vedervi infine all’opera la concezione realistica e storicistica della politica togliattiana: senza edulcorazioni, senza scolasticismi, senza tinte agiografiche.

Ma è forse in poche paginette, pubblicate sul finire del ’52, che si trova la ragione più attuale di un confronto con la cultura politica di Togliatti e del comunismo italiano. Siamo nel pieno della battaglia contro la legge maggioritaria (la «legge truffa») e Togliatti la bolla come «la più grande assurdità antidemocratica e antiliberale […] inventata da un cervello rinsecchito». Ma non è certo per ricevere da Togliatti lezioni di democrazia o di liberalismo che val la pena richiamare questo giudizio, quanto per conoscerne le motivazioni. Servirsi di un uno per cento di maggioranza per far scattare il premio significava, secondo il segretario del Pci, far calare una saracinesca fra le due parti del Paese, e vedere consolidarsi un blocco clericale, conservatore e reazionario. Questa critica di fatto prevalse e, dopo il ’53, democrazia, parlamentarismo e proporzionalismo si saldarono l’uno con l’altro. Ma la premessa era appunto la profonda spaccatura ideologica e di classe del Paese, e l’idea che il sistema maggioritario avrebbe finito col perpetuarla. È allora il caso di chiedersi se lo stesso realismo di Togliatti non imponga, venuta ormai meno quella premessa, di riconsiderare il senso della riforma costituzionale ed elettorale oggi intrapresa. Era, insomma, un’altra Italia; ma conoscerla aiuta forse a capire anche l’Italia di oggi.

(Il Messaggero, 25 febbraio 2015)

Gli scatti di merito bussano a scuola

buona-scuolaIl principio enunciato dal governo nella definizione della nuova scuola italiana è perentorio: non c’è vera autonomia senza responsabilità. E non c’è vera responsabilità senza valutazione. Per questo, la valutazione si appresta ad entrare anche nella scuola. Una rivoluzione, almeno nelle intenzioni. Siccome però di intenzioni è lastricata la strada dell’inferno, è bene guardare con attenzione cosa sta accadendo in queste ore, e che forme sta prendendo il progetto di riforma della scuola. La filosofia di fondo è che le risorse destinate agli scatti di anzianità debbano essere allocate «secondo criteri di premialità e di valorizzazione delle competenze». Questa filosofia è in parte attenuata nello schema attorno al quale si sta lavorando, essendo previsto un 30-40% di risorse destinate comunque alla progressione della carriera docente in base all’anzianità, mentre il 60-70 % sarà distribuito in base al merito. Non è poco, anzi è tanto. O almeno: è abbastanza, per produrre un mutamento profondo di abitudini, mentalità, comportamenti. Sia nei rapporti del territorio con la scuola, che fra gli stessi docenti. Governare con giudizio questa fase di cambiamento sarà indispensabile.

La valutazione del merito sarà affidata ad una Commissione composta da quattro membri: il dirigente scolastico e tre docenti, dei quali due eletti dal consiglio dei docenti, e uno appartenente invece allo staff della dirigenza. Rispetto alla proposta iniziale, c’è sicuramente un miglior punto di equilibrio tra la componente elettiva e quella non elettiva (formata dal dirigente e da un docente di sua nomina). Ma rimane affermata un’esigenza, quella di affidare anzitutto al dirigente il compito di migliorare il lavoro all’interno della scuola usando una leva mai finora azionata: quella del merito.

La valutazione, su base triennale, sarà espressa in crediti didattici acquisiti in base al successo formativo degli studenti, al complesso delle attività docenti, ai giudizi resi sui docenti da famiglie e studenti. È, forse, l’aspetto di più complessa definizione, che sarà demandato a un decreto attuativo successivo.

Infine, rimane ancora da stabilire se fissare o meno soglie nella assegnazione da parte del singolo istituto scolastico della quota premiale. Non è un particolare irrilevante: senza introdurre tetti, rimarrebbe alla Commissione la possibilità di procedere a una distribuzione a pioggia, che di fatto vanificherebbe il senso dell’intera procedura di valutazione. Potrebbe accadere? Potrebbe accadere. È chiaro che in un contesto come quello scolastico, in cui le dinamiche competitive e anti-egualitarie innescate da premi e incentivi, rappresentano una novità quasi assoluta, le resistenze al cambiamento sono forti, e forti dunque le spinte a svuotare nei fatti l’impatto delle nuova normativa.

Per il governo è perciò importante far passare il principio; ma per la scuola sono altrettanto importanti due cose: che i principi non restino sulla carta; e che non producano effetti contro-finali, che non si vada cioè in direzione opposta a quella auspicata.

Potrebbe accadere? Potrebbe accadere anche questo. Anzitutto perché una riforma vera della scuola non si fa senza risorse aggiuntive. Il piano di immissione in ruolo dei precari e gli interventi di edilizia scolastica dovrebbero dimostrare i propositi seri del governo. È bene sapere però da dove si parte, cioè da scuole che invitano gli studenti a portare da casa le risme di carta per le fotocopiatrici. Come saranno valutati i risultati dei docenti della scuola che ha la carta rispetto a quelli della scuola che la carta non ce l’ha?

C’è poi un altro aspetto su cui sarà bene che i riformatori mettano un supplemento di attenzione. All’interno del corpo docente di un istituto, di una sezione, di una classe, è bene che continuino a vigere anche dinamiche di tipo cooperativo, non solo competitivo. Una valutazione che tenesse conto del carattere non esclusivamente individuale della funzione docente e della formazione sarebbe sicuramente più consona all’ambiente scolastico nel quale la si vuole calare.

Ma resta che al termine di questa rivoluzione, se avverrà, non avremo scuole di serie A e scuole di serie B: quelle, infatti, le abbiamo già. La vera differenza è invece tra un sistema che cristallizza le differenze (magari fingendo che non vi siano, per non doversene preoccupare) e un sistema che provi invece non dico a rimuoverle, ma almeno a smuoverle un po’.

(Il Mattino, 24 febbraio 2015)

Come imparammo ad amare la guerra

Bomba1-640x420Torna la grande politica. Cioè: torna la guerra. Si tratta solo di scegliere dove la si vuol fare: se ad est, in Ucraina, oppure a sud, in Libia. Fermo restando che nostri soldati sono impegnati in missioni internazionali anche in altri scenari, e che fra Siria e Iraq c’è forse spazio per succulente operazioni di terra a fianco degli americani, se solo Obama mostrasse finalmente i muscoli. Insomma: un ricco bouquet.

(continua su Left Wing, 22 febbraio 2015)

Bergoglio e l’identità che si fa dialogo

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Nel mondo contemporaneo si può ancora parlare di verità, senza mortificare il pluralismo. Il saggio di Jorge Mario Bergoglio è costruito nello spazio reso disponibile dalle due proposizioni seguenti: da un lato, «voler ridurre tutto a un denominatore comune è un errore»; dall’altro lato, «il pluralismo non sembra così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima vista». La questione che il futuro Papa Francesco affrontava in un saggio denso e illuminante, apparso in lingua originale nel 1984 e ora riproposto nell’ultimo fascicolo della rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», è la questione della forma cristiana dell’unità: come conciliare la verità, che è una, con le prospettive teologiche, che sono molte? Sulla scorta delle riflessioni di von Balthasar e di Karl Lehmann, le due proposizioni di Bergoglio tracciano il perimetro: l’unità non può andare a scapito delle differenze; le differenze non possono trincerarsi nella propria unilateralità, rinunciando a cercare un terreno comune. Il primo errore conduce a forme di becero conformismo e di chiuso autoritarismo; ma anche il secondo errore conduce a forme di chiusura, di «monismo gnostico», di reciproca incomunicabilità e, infine, estraneità.

Il secondo errore ci riguarda più da vicino. Perché le società contemporanee non hanno dietro di sé un’unità di confessione da preservare dagli eccessi del pluralismo teologico, come la Chiesa cattolica. Ma il problema dell’unità ce l’hanno lo stesso. In verità, l’Occidente ha dinanzi questo problema da quando Platone scrisse il «Parmenide», duemilacinquecento anni or sono: come l’uno? Come i molti? Può stare l’uno senza i molti? Possono stare i molti senza l’uno? La «sinfonia» di cui parla la teologia di von Balthasar, che Bergoglio provava nel suo testo a riformulare, non è infatti molto distante dalla «koinonìa», dalla comunione, di cui parla Platone: tenere insieme i molti, senza soffocarli in un unità immobile, presupposta; dare spazio ai molti, senza distruggere l’unità, ma anzi facendola vivere nel dialogo tra le parti. Si può fare? Sul piano teologico, riesce a farlo lo Spirito, figura della relazione tra le persone; sul piano filosofico, per secoli ha provato a farlo il «logos», la logica speculativa. Ma se il secolo scorso è stato ricchissimo di riflessioni teologiche intorno alla maniera di pensare il rapporto fra l’uno e i molti, Dio e l’uomo, verità e libertà, in una straordinaria esplosione di nuove prospettive di ricerca (sia in ambito protestante che cattolico), in filosofia, la faccenda si è fatta maledettamente più difficile: non a caso, il ‘900 può essere detto il secolo più antiplatonico dell’intera storia della filosofia.

Sul piano politico, invece? Non siamo forse alle prese con il medesimo problema, posti innanzi ad esso con drammatica urgenza dagli imponenti fenomeni migratori, dall’esplodere dei fondamentalismi islamici, dalle incerte linee geopolitiche lungo le quali il mondo riesce sempre meno a ritrovare un ordine?

Quando John Rawls scrive «Una teoria della giustizia», il più influente libro di teoria politica della seconda metà del dopoguerra, non considera ancora un problema la pluralità di visioni del mondo che si confronto nell’arena liberal-democratica, e non ha quindi ancora motivo di domandarsi se la tela della democrazia, se i suoi principi e le sue regole riescano a contenere spinte sempre più impetuose e marcate, o non piuttosto si strappino e cedano nel confronto e nello scontro fra gruppi umani e sociali profondamente distanti gli uni dagli altri. Oggi la domanda è ineludibile: se si vanno attenuando, almeno nella loro espressione politica, le differenze di classe, riemergono differenze anche radicali su altri terreni: valoriali, culturali, religiosi, che mettono a dura prova la pacifica convivenza e il pacifico godimento di diritti e libertà.

Come vanno trattate allora queste differenze? È accettabile che si chiudano in sé, senza contaminarsi, misurarsi con l’altro, integrarsi? No, non è accettabile. Il rischio infatti è la chiusura ideologica, la pretesa a una verità esclusiva, fondata sulla negazione dell’altro. Ma funziona, al contrario, la loro riduzione più o meno forzosa a un’unica misura standard, decisa a priori, sempre uguale, a prescindere da storie, tradizioni, identità? Nemmeno. Non può funzionare nemmeno così.

Nel saggio, Bergoglio, sulle orme di von Balthasar, accenna a due criteri per far vivere l’unità senza schiacciare le differenze, e le differenze senza chiusure idiosincratiche. L’uno è il criterio della prossimità (il farsi prossimo all’altro), l’altro il criterio della massimalità (il considerare la verità più grande di noi). Ma entrambi i criteri funzionano solo se la verità rimane a distanze sufficiente da ogni cattura umana, troppo umana, e in fin dei conti ideologica, l’ideologia essendo la pretesa di avere la verità nella propria esclusiva disponibilità.

Ora, c’è una traduzione «politica» per questo concetto? C’è un pluralismo autentico, non debole e rinunciatario, ma forte e abbastanza «sinfonico» da non lasciare le differenze andar per conto loro? Forse sì. Forse lo si può fondare sull’idea che ciascuno di noi ha un punto di indisponibilità rispettando il quale soltanto si può accedere a un dialogo autentico. E però anche viceversa: supponendo cioè che quel punto non è già dato, riottoso e tetragono, prima del dialogo con l’altro, ma scovato proprio in esso e grazie ad esso. Se così fosse, il pluralismo delle democrazie contemporanee non sarebbe una rinuncia all’unità, ma anzi il modo più autentico per rinnovare la sua ricerca.

(Il Mattino, 20 febbraio 2015)

Il voto resta l’unica via d’uscita

Il Mattino, 15 febbraio 2015

A una settimana dalle primarie, le primarie sono l’unica cosa che il Pd possa fare, per chiudere una faccenda che in ogni altro ipotesi si risolverebbe in un vulnus alla democrazia. Non quella politica generale, per fortuna, ma quella interna ai partiti, che non è poi tanto poco importante. Se le cose andassero diversamente, forse non saremmo al circo equestre – come va dicendo Vincenzo De Luca, in evidente difficoltà per via della condanna in primo grado che gli impedisce non di candidarsi, ma di entrare in carica qualora le primarie le vincesse – ma sicuramente ci troveremmo di fronte ad una vicenda quasi farsesca. Degna di finire in qualche manuale sulla cattiva politica, se qualcuno vorrà scriverne uno.

E però, nonostante ormai non si possa fare altrimenti, politicamente parlando, è evidente che la linearità e la chiarezza, auspicabili almeno in questi ultimi giorni che precedono l’appuntamento elettorale, non appartengono ancora al Pd campano. Che pure in queste ore, mentre si allestiscono seggi e si stampano schede, non rinuncia a tentare altre carte pur di annullare l’appuntamento del 22 febbraio prossimo. L’ultimo nome fatto circolare è quello di Raffaele Cantone. Nome autorevolissimo, per carità: ma pescato come un jolly che qualcuno vorrebbe buttare sul tavolo pur di non giocare la partita. Di Cantone non si ricordano quasi più le innumerevoli smentite, rilasciate per mesi interi, ogni volta che un giornalista gli porgeva il microfono per chiedergli se se la sentisse di scendere in lizza. Prima di andare a presiedere l’autorità nazionale e dopo, Cantone, invero, non se l’è mai sentita: non ad ottobre, non a novembre, non a dicembre o a gennaio. Eppure, a febbraio qualche dirigente democrat ci ha provato e ci prova ancora. Cantone declina e conferma la sua serietà, per fortuna sua, nostra e del governo, che lo ha scelto per un compito di primissimo piano e di grande delicatezza, e certo non apprezzerebbe un ricollocamento a distanza di pochi mesi. Ma la stessa serietà è difficile trovarla nei comportamenti di quei dirigenti piddini che a lui sono tornati nuovamente a rivolgersi.
Tramonta Cantone, così come è tramontato velocissimamente l’astro di Nicolais e ancor prima quello di Orlando (che in verità non ci ha mai pensato, mentre attorno a lui altri ci pensavano). In tutto questo affannarsi, il timore di spaccature insanabili nel Pd non c’entra. E non lo diciamo perché siamo chissà quanto convinti dello strumento, ma per la buona ragione che il Pd è già profondamente spaccato: altrimenti tutta questa pantomima non sarebbe andata in scena. Le primarie, d’altra parte, si fanno proprio per contrapporre l’una all’altra due o più candidature: la contrapposizione è cioè prevista e però anche regolata. Non tenere le primarie significa invece costruire un’altra contrapposizione: tra i candidati che le primarie le vogliono fare e il partito che non le vuole fare. Con la non piccola differenza che questa diversa, strisciante contrapposizione è molto più opaca e sicuramente molto meno democratica.
Non c’entra neppure la paura di imbrogli. E anche in questo caso non lo diciamo perché siamo certi che non ci sarà un solo voto farlocco, ma perché annullare le primarie sette giorni prima della data stabilita sarebbe di fatto un imbroglio ancora più grande. Un partito sano, avvertito del rischio, non annaspa, procrastina e poi magari annulla, ma si attrezza per tempo, si struttura e si organizza in modo da assicurare il regolare svolgimento del voto. Non c’è altro da fare, di qui a domenica.
Dopo domenica, invece, qualche primo bilancio si potrà pur tirarlo. Vinca Migliore, vinca Cozzolino o vinca De Luca (se si ostina a correre ugualmente), sarà il momento di chiedersi cosa è stato il centrosinistra campano da quando Antonio Bassolino ha lasciato il campo. Non è una domanda facile, e soprattutto non sarà una risposta indolore, per il Pd. È un fatto, che peraltro si può riconoscere fin d’ora, che l’ampia ala del rinnovamento non ha saputo distendersi in Campania e levarsi in volo. Cinque anni all’opposizione non hanno innescato un vero processo di ricostruzione dell’offerta politica. Per colpa di chi? Della resistenza del vecchio o dell’inconsistenza del nuovo? Temo molto più la seconda cosa che la prima. Il vecchio ha tutto il diritto di resistere, il nuovo perde invece ogni diritto, se è inconsistente. Proprio le peripezie di queste settimane lo dimostrano: le primarie, vessillo del nuovo, sono state gestite nel più logoro dei modi, per l’incapacità di trovare interpreti che sapessero impugnarle come la propria bandiera.
D’altronde, basta rifletterci su: se i nomi che si ritengono, a torto o a ragione, migliori e più credibili devono la loro credibilità proprio alla distanza che hanno mantenuto dalle vicende campane, e se vengono presi in considerazione solo nell’ipotesi di un superamento della situazione come si è data finora, non vuol forse dire che sono gli stessi dirigenti democrat a condannare il Pd che c’è, in nome di quello che vorrebbero ci fosse?

(Il Mattino, edizione napoletana, 15 febbraio 2015)

Com’è piccolo il teorema meridionale

old-open-window-mats-silvanIl «teorema meridionale» esiste: lo ha descritto su queste colonne Giancarlo Viesti. Esiste anzitutto in quanto la convinzione che la questione meridionale sia la questione dei meridionali e di loro soltanto – delle responsabilità delle classi dirigenti, dell’esiguità del capitale sociale, della debolezza del tessuto morale e civile, della criminalità e della corruzione che allignano dappertutto – tale convinzione è largamente diffusa nell’opinione pubblica e orienta giudizi e comportamenti sia intellettuali che politici.

Dal teorema discende infatti una conseguenza precisa: riversare risorse sul Mezzogiorno non serve a nulla. La si potrebbe dire persino così: qualunque iniziativa pubblica, qualunque investimento, qualunque incentivo andrà sprecato se non sarà preceduto da una «riforma intellettuale e morale» della società meridionale. Con ogni evidenza – voglio dire: con l’evidenza dei numeri che raccontano un progressivo disimpegno dello Stato nazionale nel Mezzogiorno – il «teorema meridionale» esiste: la seconda Repubblica ci è stata costruita su.

Ora, criticare l’infondatezza di un simile teorema non ha mai voluto significare negare le responsabilità, le esiguità e le debolezze di cui sopra. Piuttosto, riportare ogni volta e preliminarmente il discorso su un tal punto  vuol dire rinchiudersi in un’alta, nobile, ma al fondo sterile lamentazione moralistica dei mali e dei vizi del Sud. Che forse salva la coscienza, ma non per questo cambia le politiche.

Lo stesso Gramsci, che della riforma intellettuale e morale avvertiva acutamente l’esigenza per l’intera nazione, chiedeva poi: «Ma può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico?». No, non può esserci. Il capitale sociale non si accumula solo con le buone azioni, le buone pratiche e la buona educazione: ci vogliono, diceva Gramsci, le riforme economiche, un mutamento della posizione nel «mondo economico».

Dalle note di Gramsci ad oggi molte cose naturalmente sono cambiate, ma prima di tutto – va da sé – è cambiato il mondo. Se dunque nell’analisi questi cambiamenti non sono registrati, è difficile che la diagnosi risulti appropriata. Com’è dunque possibile che in un fase storica come quella attuale, dominata dai problemi dell’integrazione fra aree del continente con strutture economiche diverse, com’è possibile che la questione meridionale non richieda alcuna considerazione di ciò che succede oltre il Garigliano, e dunque nessuna preoccupazione per le politiche pubbliche chiamate a correggere eventuali squilibri e disparità? Com’è possibile che il problema del Mezzogiorno sia soltanto ed esclusivamente il Mezzogiorno, mentre nel contesto sovranazionale si parla addirittura di «mezzogiornificazione» delle periferie europee? Se il verbo non inganna, Mezzogiorno lo si può persino diventare, non solo rimanere, per effetto di politiche europee che con il capitale sociale hanno molto poco a che fare, e di politiche nazionali sempre meno concentrate su capitoli decisivi per contrastare la desertificazione umana e industriale del Sud.

In realtà, lo sviluppo di un’area depressa è necessariamente un tema nazionale e internazionale, cioè del contesto circostante. Che in verità non si limita a stare tutto intorno, ma condiziona fortemente: a volte promuovendo, per una qualche forma di contagio che la geografia economica conosce e descrive molto bene, altre volte invece frenando, per vincoli di struttura che gli economisti conoscono altrettanto bene. E che però si ignorano bellamente, quando si imbastisce solo il discorso sulle colpe del Sud, ataviche o no che siano.

Tanto tempo fa, in un illustre palazzo di Napoli, capitò che alla presentazione di un libro l’autore fosse severamente criticato da un collega per la scarsa o nulla considerazione in cui teneva elementi di storia locale. L’autore, un autorevolissimo professore con poca voglia di litigare, si limitò a rispondere con garbo che apprezzava anche lui grandemente la storia locale, se non altro perché aveva studiato insieme col collega in quello stesso palazzo. Ricordo con piacere queste alte finestre, aggiunse poi, ma ricordo anche che da esse non riuscivamo a vedere che una piccola porzione di mondo. Ecco: il teorema meridionale tiene dentro solo una porzione molto, troppo piccola del problema.

(Il Mattino, 13 febbraio 2015)

Sanremo in paradiso con i luoghi comuni

Acquisizione a schermo intero 12022015 190123.bmpSanremo è Sanremo, ma questa volta sul palco sono saliti pure, se non sbaglio, un francese, un tedesco e un italiano che vanno nel deserto. Oppure volano su un aereo. O si trovano in mezzo a un lago e non sanno come fare. Le barzellette di una volta – ma in rete potete ritrovarle tutte – cominciavano così: il francese sempre guascone, il tedesco sempre rigoroso, l’italiano sempre furbo che fregava entrambi. E l’altra sera che cosa si è avuta, con l’esibizione di Alessandro Siani, se non una riproposizione alquanto sciatta di questo genere di comicità più o meno facile, più o meno greve, più o meno stereotipata? Poi magari fa ridere e fa pure un boom di ascolti, come il direttore di Rai Uno, Giancarlo Leone, non ha mancato orgogliosamente di sottolineare, ma di questo si tratta: meglio dirlo chiaro. Le battute di Siani si situano tutte o quasi su questo registro. Sono pòrte con la simpatia che il capello lungo lucido, la barba mal rasata e il sorriso accattivante possono assicurare all’attore napoletano, ma non per questo ascendono ai vertici della comicità mondiale. Decisamente no. Figuriamoci dunque se ci si può meravigliare, studiata o meno che sia, dell’uscita infelice sul ragazzino ciccione che forse non entra nella poltroncina. Una caduta di stile: come se il resto avesse chissà quale stile. Ma poi: non è uno sproposito, non è esagerato, non è involontariamente, decisamente, irresistibilmente comico scrivere che la battuta «rivela un vuoto di cultura e azione nell’educazione alimentare che va colmato»? Addirittura! Se c’è un vuoto di educazione alimentare non c’è certo bisogno di Siani per rivelarlo. E, soprattutto, trarre dalla scadente prova sanremese di Siani materiali per un programma di governo rivela una mancanza di senso delle proporzioni che, questa sì, non si sa davvero come colmare (l’autore di questo seriosissimo commento è infatti nientemeno che Corrado Passera, leader della neonata formazione «Italia unica»). Il fatto è che il monologo di Siani non conteneva un’idea che è una. Non diceva nulla sull’Italia di oggi, sui suoi vizi o sui suoi difetti; non dimostrava nessuna particolare intelligenza della società o degli italiani, non sfoggiava nessuna verve speciale. Ridiamo pure dei ciccioni, allora, e dei negri e dei froci: ma perché? A che pro? Una gliela vorrebbe anche concedere, a Siani, un po’ di salutare scorrettezza, ma per mettere alla berlina chi, per denunciare che cosa? Evidentemente, nulla di più o di diverso da un tedesco ottuso e da un francese sbruffone. Per ridere oggi come quaranta anni fa: francamente, non ne vale la pena.

Così come, in verità, non valeva la pena di portare sul palco la famiglia più numerosa d’Italia per dare un colpo al cerchio e uno alla botte: siccome abbiamo l’ospite transgender, equilibriamo con un inno alla famiglia tradizionale. Solo che di tradizionale non c’è molto, in un nucleo familiare composto da papà, mamma e sedici figli. Sedici. Li avete mai visti, sedici fratelli o sorelle? No. E allora eccoveli! Col che si allestisce quel genere di spettacolo da fiera, che un tempo portava sulle scene l’uomo più alto del mondo, a fianco magari della donna barbuta. E siccome la donna barbuta a Sanremo c’è davvero, perché non invitare – devono essersi detti gli autori – anche un altro portentoso fenomeno, il signor Anania, sua moglie e tutta la sua numerosissima prole? Persino il Papa ha detto di recente di andarci piano, a far figli. Ma niente: i signori Anania – o più precisamente la Provvidenza, ripetutamente chiamata in causa – non ne hanno voluto sapere, e uno dopo l’altro sono arrivati a sedici.

Ora, ce n’era davvero bisogno? Quale discorso razionale sulla famiglia si può fare, partendo da qui, dal record? Oppure si pensa che i cattolici siano gli ultimi rimasti a far figli, che Dio li benedica? Ma di nuovo: a che serve una caricatura del genere (della famiglia, e del cattolicesimo)? Cosa dimostra? Forse che se vogliamo siamo pronti per una nuova battaglia del grano, o per raggiungere quota 90? Ovviamente i signori Anania non hanno colpa alcuna (Siani forse sì: di lesa comicità napoletana, ma questa è un’altra storia). Ed è vero pure che l’intrattenimento per famiglie non deve necessariamente rispettare preoccupazioni sociologiche o contenere inviti alla più severa riflessione filosofica. Ma domando: si perdono molti punti di share se si aggiorna il repertorio delle barzellette? E una famiglia ordinaria: siamo autorizzati a pensare che esista ancora?

(Il Mattino, 12 febbraio 2015)

Una farsa inaccettabile

ImmagineC’è una città, una regione, una nazione al mondo, dove una tornata elettorale sia stata indetta e poi rinviata non una, non due, non tre ma quattro volte: di mese in mese, di settimana in settimana? Non c’è ancora, ma a quanto pare ci sarà tra poco, non appena la direzione regionale del partito democratico campano si riunirà per spostare un’altra volta – la quarta, per l’appunto – la fatidica data delle primarie. Ufficialmente, il nuovo rinvio sembra rendersi necessario per consentire a Gennaro Migliore, l’ultimo arrivato, di fare anche lui un po’ di campagna elettorale, come i suoi avversari già allineati dall’autunno scorso ai nastri di partenza. Ma in realtà nessuno – non la Provvidenza né il destino né il caso – hanno impedito a Migliore di scendere prima in lizza. Che cosa, dunque? Nulla, se non la necessità di inventarsi qualcosa che allontani la competizione. La quale prevederebbe regole certe per presentare le candidature, e una data certa per lo svolgimento del voto. E nient’altro. E invece qui si tira fuori di tutto e di più, pur di non arrendersi alla fisiologia del processo elettorale. Tutti sostengono che le primarie napoletane del 2011 furono inficiate da brogli, anche se una ricostruzione attendibile di quel che accadde ancora non c’è. Come che sia, di certo nessuno sospettava allora che si sarebbe potuto fare anche peggio. Questa volta infatti sono i vertici stessi del partito ad alterare sotto gli occhi di tutti il normale andamento della sfida, ancor prima che essa venga svolgendosi, con una incertezza circa l’esito ultimo di questo processo che rende incomprensibile agli occhi dei più l’intera partita in gioco.

Una simile condotta ha in realtà non una ma due cause. La prima è arcinota: è l’insoddisfazione di pezzi della dirigenza dem nei confronti dei candidati più accreditati alla vittoria finale, il sindaco De Luca e l’europarlamentare Andrea Cozzolino. Pezzi da novanta: ma la paura, per l’appunto, fa novanta. L’insoddisfazione non è dovuta infatti al timore che con l’uno o con l’altro non si vinca, perché anzi i sondaggi danno sia l’uno che l’altro in vantaggio su Caldoro, ma alla volontà pura e semplice di rottamarli. Questa volontà, peraltro, preesiste alla condanna di primo grado che nel frattempo è stata inflitta a De Luca: la quale dunque è solo un pretesto, non un motivo reale per ritardare ancora la competizione. Il paradosso è che il padre di ogni rottamazione – cioè Renzi, a cui si attribuisce più o meno abusivamente un niet nei confronti dei due principali contendenti – Renzi, dicevo, le primarie a suo tempo le ha volute eccome: prima perdendole, poi vincendole. Senza quella vittoria non starebbe dov’è, con la legittimazione che ne ha tratto. Renzi è passato cioè per il voto, non per il rinvio del voto. Qui invece si vuole fare la rottamazione senza fare le primarie. Deve insomma essersi costituito una sorta di cerchio magico anche in Campania, che lavora in questa direzione: il guaio è che il cerchio non ha nessuno intorno a cui ruotare. Manca cioè il nome del salvatore, e così non resta che prendere tempo.

Ma c’è poi una seconda causa di tutto questo ritardare, rinviare, procrastinare. Ed è la scarsa o nulla considerazione in cui evidentemente il Pd campano tiene il giudizio dell’opinione pubblica. Cercatelo, un cittadino, un elettore, un simpatizzante democratico che si complimenti per il modo in cui il Pd sta procedendo: non lo troverete. Cercate un commentatore, un analista, un osservatore – un saggio, un libro, un articolo di giornale – in cui possa trovare apprezzamento una simile maniera di tenere elezioni primarie: non troverete neanche questo. È un altro paradosso: il Pd ha deciso di affidarsi alle primarie per aprirsi alla società, ampliare la partecipazione, rinnovare la sua vita interna, ma tutto quello che sta facendo lo allontana sempre più dalla società al cui giudizio vorrebbe sottoporsi. Come se i peggiori vizi della vecchia politica fossero talmente radicati, da non soffrire più neppure del fatto che, con le primarie gestite a questo modo, quei vizi non li si spazza certo via, ma ci si limita solo a mostrarli in pubblico. Davvero: ci vuole una buona dose di impudenza, per pensare a un nuovo rinvio.

(Il Mattino, 11 febbraio 2015)

Heidegger antisemita e i conti aperti con la storia

Come ha dimostrato Donatella Di Cesare nel suo recente libro su Heidegger e gli ebrei, l’antisemitismo del filosofo di Messkirch e la sua adesione al nazismo non possono essere considerati semplici accidenti. Gli episodi pubblici, del resto, e il profilo biografico di Heidegger sono noti ormai da molto tempo e non lasciano adito a dubbi. Ma la pubblicazione dei Quaderni Neri (progettata dallo stesso filosofo) aggiunge altre tinte a un quadro già fosco e obbliga a riaprire la discussione. Nell’ultimo volume, che sta per vedere la luce in Germania, Heidegger parla infatti della Shoah come dell’«autoannientamento» degli ebrei. Finora Heidegger era stato attaccato per il suo silenzio sull’immane genocidio: ora siamo messi di fronte alle sue parole, e non è più possibile parlare di debolezze morali, di errori, pavidità o altro. Finora ci si chiedeva perché, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, Heidegger non avesse mai preso le distanze pubblicamente dal nazismo e dal suo passato. Ora sappiamo che non era soltanto il suo passato, neanche dopo il ’45, e che quelle distanze non le ha prese perché, in fondo, non c’erano. Per lui, la colpa degli Alleati, che avevano vinto la guerra, era persino maggiore dei crimini nazisti. E il fatto che l’antisemitismo di Heidegger non poggiasse su basi razziali probabilmente non diminuisce ma aumenta la responsabilità del suo pensiero.

Ma un conto è domandarsi come sia possibile che uno dei più grandi filosofi del Novecento abbia potuto condividere il destino politico del nazionalsocialismo; un altro è invece concludere in maniera sbrigativa che Heidegger, se dunque fu nazista, non fu affatto quel gran filosofo che si dice, come se la sua compromissione col nazismo inficiasse anche l’intero suo itinerario filosofico. O come se fra un Heidegger e un Goebbels alla fin fine non ci fosse poi tanta differenza. E come nessuno si sogna di leggere quest’ultimo, se non per ragioni strettamente storiche, così nessuno dovrebbe più leggere Heidegger, per lo stesso motivo. Ovviamente non è così, e una polemica condotta in tal modo rischia persino di essere fuorviante. Il rapporto fra vita e pensiero è esso stesso un problema filosofico, e non basta inorridire dinanzi alla prima per ritrarsi anche dinanzi al secondo.

In certi casi ciò è evidente. Spesso ci si dimentica dell’antisemitismo di Gottlob Frege, uno dei padri della logica del ‘900, ma nessuno si sognerebbe di desumere dalle sue opinioni un giudizio sul suo lavoro di logico. Nel caso di Heidegger la faccenda è più complessa ed anche più scabrosa, non solo per il tempo in cui Heidegger ha vissuto e per i giudizi che ha reso, quanto piuttosto perché diversa è la modalità con cui si annodano nel suo pensiero il piano storico-esistenziale e quello concettuale. Ma purtroppo per sciogliere questo nodo non basta vedere quale funesta prova abbia dato di sé il pensatore della Foresta Nera.

Infine, il nazismo di Heidegger non è sufficiente nemmeno per dare un giudizio liquidatorio su quei versanti del pensiero europeo del dopoguerra che hanno largamente attinto alla sua lezione filosofica. In Italia Gianni Vattimo è stato tra i primi a discutere Heidegger, sdoganandolo – come si dice – a sinistra, e ora quasi si risente per tutte queste polemiche. Ma non c’è bisogno di minimizzare né di sentirsi chiamati in causa. È sufficiente invece far presente che, se fosse solo questione di cattivi maestri, forse non dovremmo più aprire alcun libro di filosofia, o quasi.

(Il Messaggero, 9 febbraio 2015)

Contropiede lento, ma il Pd è in surplace

ImmagineStefano Caldoro rompe gli indugi e annuncia con un tweet la sua ricandidatura. Alle prossime elezioni regionali il candidato del centrodestra è il governatore uscente. C’è tuttavia, nel suo breve messaggio, una condizione: «Punto a un nuovo mandato – scrive infatti il governatore – con l’unità della coalizione». La candidatura dunque c’è; manca però ancora l’unità. Ma è come nel celebre esempio che fa Aristotele:  «in battaglia, quando l’esercito si è volto in fuga, se un soldato si arresta, si arresta pure un secondo, e poi un altro ancora, sino a che si giunge al principio dello schieramento». Sino a che, cioè, l’esercito – in questo caso la coalizione di centrodestra – rinserra tutte le sue file. La scommessa di Caldoro è dunque anzitutto quella di mettere finalmente un punto fermo e riuscire a ricomporre, con la sua discesa in campo, lo schieramento che lo ha sostenuto durante il primo mandato.

Non è semplice. Caldoro ha preso la sua decisione nel momento in cui, a livello nazionale, più alta è la confusione: Forza Italia è spaccata, e la spaccatura si riflette anche in Campania; anche Ncd conosce forti fibrillazioni al suo interno, mentre la Lega di Salvini tira dritto per la sua strada esercitando insieme attrazione e repulsione sui vari segmenti del centrodestra. In questo quadro, Caldoro si è reso conto che ritardare ancora la decisione significava lasciar andare ognuno per proprio conto. E, soprattutto, sottrarsi alla responsabilità politica che invece gli compete: non solo presentare al giudizio dell’elettorato il risultato della sua azione di governo, ma porsi come guida della coalizione e assumere in pieno la leadership del centrodestra. Questo passo doveva essere compiuto, e con il tweet di ieri è stato finalmente compiuto. Il tempo dei pour parler è finito.

Non basta. Caldoro ha rivendicato un risanamento finanziario che è un indubbio risultato se si guarda ai cinque anni trascorsi, ma non può essere una garanzia sul futuro. Ora deve anche offrire ai suoi alleati una prospettiva capace di proiettare la regione ben oltre le emergenze del passato. Finora il governatore ha motivato le sue scelte di programma sulla base dell’eredità ricevuta. A torto o a ragione – giudicheranno gli elettori – ha giustificato il decremento dei livelli di assistenza sanitaria, o i ritardi nella progettualità strategica, nelle infrastrutture, nei programmi di sviluppo, imputandoli a retaggi antichi o recenti che a suo dire gli tarpavano le ali. Ora però deve dimostrare di saper anche volare alto, offrendo ai suoi potenziali alleati una piattaforma di ampio respiro che vada oltre l’oculata ragioneria di questi anni. Questa è ancora una regione dalle profonde diseguaglianze e con forti sacche di sofferenza sociale. Tassi di disoccupazione elevatissimi, tassi di dispersione scolastica elevatissimi, bassa competitività e contrazione della base industriale: dai trasporti ai rifiuti alla sanità, senza una forte strategia di crescita non c’è futuro.

Caldoro ha però un piccolo vantaggio: è partito prima del centrosinistra. Sembrava dovesse avvenire il contrario: il Pd aveva cominciato a ragionare di primarie nell’agosto dello scorso anno, prometteva di tenerle in autunno, sta finendo l’inverno e c’è ancora qualcuno che dubita che si faranno. Ai nastri di partenza c’è l’europarlamentare Andrea Cozzolino, che scalpita in vista dell’appuntamento del 22 febbraio, e rimane ancora, a contendergli la vittoria, l’anatra zoppa, Vincenzo De Luca, benché tutti, da Roma e da Napoli, gli dicano che per la condanna di primo grado inflittagli e le conseguenze della legge Severino la sua candidatura non è opportuna. Eufemismo per dire che non si può fare. Rimane anche il socialista Marco Di Lello, il dipietrista Di Nardo, e Gennaro Migliore, che solo oggi annuncia nell’intervista al Mattino la presentazione delle firme necessarie per ufficializzare una candidatura fino a ieri fittizia. Forse perché fino a ieri si riteneva che, in realtà, la sfida non si sarebbe tenuta, e Migliore aspettava solo di ricevere una qualche investitura dall’alto.

Questo strano surplace del Pd, che nella campagna elettorale per le primarie discute soprattutto del come e del se le primarie si faranno, è destinata giocoforza a finire. A quel punto, forse, la Campania potrà allinearsi a quello che accade in una normale competizione politica. Due candidature, due leadership, due schieramenti in cui qualcuno, da una parte e dall’altra, ha finalmente deciso di tenere il punto, per costruire uno schieramento e una proposta politica su cui misurare idee, credibilità, autorevolezza.

(Il Mattino, 7 febbraio 2015)

La guerra dei nervi

Acquisizione a schermo intero 04022015 184207.bmpProbabilmente il video diffuso ieri con le immagine dell’esecuzione del pilota giordano Muadh al-Kasasibah, arso vivo dai miliziani dell’Isis, è un falso. La Giordania aveva chiesto prove certe che il suo pilota fosse ancora in vita, prima di accedere allo scambio di prigionieri proposto dai miliziani dello Stato islamico, ma quelle prove non sono mai arrivate, forse perché Muadh al-Kasasibah era già morto. È stato invece diffuso un video, ancora una volta girato e confezionato a regola d’arte, in cui si mostra l’uomo, chiuso dentro una nera gabbia metallica, alla quale viene dato fuoco. La ripresa mostra poi un corpo avvolto dalle fiamme, il fumo che si alza, le mani portate a coprire il capo, la morte. L’autenticità della scena è dubbia: prima che le fiamme lo investono, l’uomo non fa alcun tentativo per riparare in un angolo; dopo che le fiamme lo hanno investito, l’uomo riesce a rimanere a lungo in piedi, senza compiere alcun gesto frenetico o scomposto; quando infine si piega, non cade a terra ma rimane in ginocchio, e nelle braccia conserva ancora la forza per appoggiarsi alle sbarre e per tenere quasi le mani giunte, mentre china la testa, in una posizione che sembra di implorazione. Una scena terribile e atroce, ma, nella sua atrocità, esteticamente rigorosa, precisa, perfetta. Sia nelle inquadrature che nelle posture. Se il filmato è falso, è studiato; ma, se è studiato, è ancor più significativo della guerra psicologica e mediatica che l’Isis intende condurre e sta conducendo. Sui due aggettivi, però – psicologica e mediatica – bisogna intendersi.

Il filmato vale anzitutto come una dichiarazione: questa è la fine orrenda che fanno i nostri nemici. Vale poi come una sfida all’Occidente: noi siamo in grado di dare la morte con una crudeltà e una spietatezza di cui solo noi siamo capaci. Vale, infine, come una rivelazione ‘filosofica’: la dittatura contemporanea delle immagini comporta un obbligo di visibilità, ma il massimamente visibile, ciò che in ogni immagine vi è di più forte ed è in grado di imporsi fino all’insostenibilità e all’inconcepibilità è la morte. Noi siamo dunque i più forti, perché siamo in grado di insediarci con la massima intensità possibile nello spazio mediatico del visibile.

Se questa è la tesi, allora non si tratta semplicemente di spaventare, di incutere timore: da questo punto di vista, il video non è più agghiacciante delle decapitazioni, o più impietoso del ragazzino che spara un colpo di pistola alla nuca dei prigionieri. C’entra dunque la fragile psicologia di noi «buoni europei» – disabituati alle atrocità della guerra e perciò, agli occhi dei terroristi, deboli e battibili – ma c’entra, ancor prima, la volontà di occupare il più saldo supporto su cui cresce oggi e si forma la nostra psiche: una volta era la carta, una volta le anime erano fatte dalla carta, e dalle parole scritte sulla carta e custodite nell’intimità della coscienza; oggi invece sono sempre più gli schermi e le reti immateriali che costruiscono lo spazio della comunicazione e dei media, le estrusioni lisce e traslucide in cui siamo con sempre maggiore forza spinti, sempre più irretiti.

Che fare? Nec ridere, nec lugere, sed intelligere. Si tratta di capire. Più in alto dell’immagine sta il concetto, anche se il concetto – e il concetto che l’Occidente ha anzitutto di sé – è un po’ ammaccato. Ma capire si deve. E ritrovare il bandolo della politica. Dall’inizio della guerra siriana ad oggi, la priorità dell’Occidente, in mezzo ai molti errori, è cambiata: non più la caduta del regime baathista di Bashar Al Assad, ma il contenimento dell’ISIS, che è riuscito a saldare l’opposizione al regime di Damasco con la guerra civile in Iraq, il jihadismo globale e i foreign fighters occidentali. È, questa, una priorità strategica, sia per la violenta carica ideologico-religiosa dello Stato islamico, che rappresenta di per sé una minaccia, sia perché la dissoluzione delle entità statali in un’ampia fascia mediorientale costituisce un potenziale di instabilità veramente esplosivo. I mezzi da impiegare – sia di intelligence che militari – siano proporzionali al pericolo. Ma senza una politica vera, senza una capacità di reale interlocuzione con le potenze della regione, quei mezzi non basteranno. E non farà differenza se le immagini che vedremo saranno vere o false: saremmo comunque lontane dal capirle e, quindi, dal contrastarle.

(Il Mattino, 4 febbraio 2015)

Il Cavaliere e il diritto a fare politica

silvio-berlusconi-7-675x447Alla cerimonia di insediamento del nuovo Presidente della Repubblica, che durerà in carica fino al 2022, ci sarà anche Silvio Berlusconi. Tra gli stucchi del Quirinale, a fianco alle più alte cariche dello Stato, ci sarà anche il doppiopetto del Cavaliere. Non è affatto una presenza abusiva. Anche se una parte del Paese continua a pensarlo, l’uomo che è stato più a lungo Presidente del Consiglio nel corso di un ventennio, a cui ha finito finanche col dare il suo nome, ha ricevuto formale invito dal Colle. Dunque ci sarà: stringerà mani, scambierà opinioni. A volte anche gli aspetti meramente formali della vita istituzionale prendono un significato simbolico. Lo stesso dicasi delle impreviste coincidenze: nello stesso giorno, Berlusconi ha infatti avuto anche una buona notizia (ci voleva, in mezzo a tante brutte nuove): finirà di scontare la sua pena con qualche anticipo, già dal mese di marzo. E, dunque, non si sarà ancora spenta l’eco delle parole del Presidente della Repubblica nel suo discorso alle Camere, che già il problema dell’agibilità politica di Silvio Berlusconi si troverà daccapo sulle scrivanie della politica. E, si può scommettere, di nuovo al centro del dibattito pubblico.

È inevitabile: si può pensare che il centrodestra, che Forza Italia, che il Cavaliere rinuncino a porre il problema, una volta che saranno terminate le visite settimanali ai malati di Alzheimer di Cesano Boscone? Certo, rimane di ostacolo la legge Severino, per via della quale Berlusconi è ancora ineleggibile. Ma, in primo luogo, quella legge viene considerata da più parti come incostituzionale, e la Suprema Corte dovrà presto pronunciarsi in merito. E, in secondo luogo, è sul tavolo la nuova normativa in materia fiscale, rinviata al 20 febbraio, i cui effetti potrebbero riverberarsi anche sullo status del Cavaliere. Vedremo cosa Renzi deciderà al riguardo, e cosa il nuovo Presidente sarà chiamato a firmare.

Ma come che sia riguardo all’una o all’altra possibilità – o ad altre ancora, che fossero allo studio – rimane il fatto, politicamente assai rilevante, del principale leader dell’opposizione, che può prendere parte alle cerimonie del Quirinale su invito ufficiale della Presidenza, stringere patti con il Presidente del Consiglio nelle sedi del governo o del suo partito, partecipare ai processi di riforma elettorale e costituzionale, avendo nel frattempo terminato di scontare la pena ma non potendo tuttavia ancora candidarsi a nulla.

Naturalmente, c’è un modo molto semplice di affrontare questo problema: negandolo. Negando, cioè, che la politica abbia le sue ragioni anche se a volte la legge le disconosce. Di sicuro c’è però che la legge, in uno Stato di diritto, non può a sua volta essere disconosciuta, finché c’è. E dunque il problema, per gli italiani che votano Berlusconi e forse anche per chi lo invita sul Colle, esiste.

In altro modo, però, è lo stesso Cavaliere a non affrontare davvero il nodo. Non perché non lo abbia posto finora con forza: c’è chi, anche nel suo schieramento, ritiene anzi che gli errori compiuti sin qui, in particolare nell’ultima vicenda del Quirinale, siano dipesi proprio dalla volontà del Cavaliere di ottenere, in cambio della disponibilità dimostrata, quella benedetta agibilità politica che insegue fin dal giorno in cui è decaduto dal Senato.  E tuttavia anche Berlusconi affronta in fondo il problema negandolo, perché si rifiuta da sempre di affrontare seriamente il nodo vero: la nuova leadership del centrodestra. Da sempre: cioè almeno dal giorno della caduta del suo ultimo governo, nel 2011. È difatti da quel giorno, quando ancora Renzi non occupava tutta la scena, che il centrodestra si dibatte con divisioni e lacerazioni insuperabili. Tutti i pezzi che il Popolo della Libertà prima, Forza Italia poi, han perso o han visto rivoltarsi contro – da Fini ad Alfano a Fitto – non hanno fatto che porre quest’unico tema: quello della leadership, della successione, del ricambio (chiamato anche, pudicamente, democrazia interna).

Berlusconi non ne vuole sapere: non è probabilmente neppure in condizione di immaginare la cosa. Così il settennato che si apre oggi, col giuramento di Sergio Mattarella, rischia di proporre il seguente paradosso: che il primo, aspro scontro politico, potenzialmente in grado di incidere sugli equilibri della maggioranza come dell’opposizione, e di produrre forti tensioni in quasi tutti i partiti (ad eccezione di quelli anti-sistema, cioè dei grillini e forse della Lega, che saranno perciò ben contenti di provare a trarne lucro) riguarderà il futuro politico di un uomo, il cui destino è in realtà già segnato da quasi un lustro. Parte della spregiudicatezza che ha dimostrato Renzi deriva dall’averlo compreso prima di tutti. Vedremo se lo ha allo stesso modo inteso anche il nuovo Capo dello Stato. Che voglia egli partire dalle speranze e dai bisogni dei concittadini lo lascia ben sperare, perché affrontare speranze e bisogni degli italiani con serietà, sobrietà e determinazione significa anche sgombrare il campo dalle ostruzioni che la politica in questi anni ha lasciato crescere sul campo ben oltre il dovuto. Sergio Mattarella ha il profilo giusto per aiutare il passaggio ad un’altra stagione della vita della Repubblica.

(Il Mattino, 3 febbraio 2015)