Bergoglio e l’identità che si fa dialogo

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Nel mondo contemporaneo si può ancora parlare di verità, senza mortificare il pluralismo. Il saggio di Jorge Mario Bergoglio è costruito nello spazio reso disponibile dalle due proposizioni seguenti: da un lato, «voler ridurre tutto a un denominatore comune è un errore»; dall’altro lato, «il pluralismo non sembra così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima vista». La questione che il futuro Papa Francesco affrontava in un saggio denso e illuminante, apparso in lingua originale nel 1984 e ora riproposto nell’ultimo fascicolo della rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», è la questione della forma cristiana dell’unità: come conciliare la verità, che è una, con le prospettive teologiche, che sono molte? Sulla scorta delle riflessioni di von Balthasar e di Karl Lehmann, le due proposizioni di Bergoglio tracciano il perimetro: l’unità non può andare a scapito delle differenze; le differenze non possono trincerarsi nella propria unilateralità, rinunciando a cercare un terreno comune. Il primo errore conduce a forme di becero conformismo e di chiuso autoritarismo; ma anche il secondo errore conduce a forme di chiusura, di «monismo gnostico», di reciproca incomunicabilità e, infine, estraneità.

Il secondo errore ci riguarda più da vicino. Perché le società contemporanee non hanno dietro di sé un’unità di confessione da preservare dagli eccessi del pluralismo teologico, come la Chiesa cattolica. Ma il problema dell’unità ce l’hanno lo stesso. In verità, l’Occidente ha dinanzi questo problema da quando Platone scrisse il «Parmenide», duemilacinquecento anni or sono: come l’uno? Come i molti? Può stare l’uno senza i molti? Possono stare i molti senza l’uno? La «sinfonia» di cui parla la teologia di von Balthasar, che Bergoglio provava nel suo testo a riformulare, non è infatti molto distante dalla «koinonìa», dalla comunione, di cui parla Platone: tenere insieme i molti, senza soffocarli in un unità immobile, presupposta; dare spazio ai molti, senza distruggere l’unità, ma anzi facendola vivere nel dialogo tra le parti. Si può fare? Sul piano teologico, riesce a farlo lo Spirito, figura della relazione tra le persone; sul piano filosofico, per secoli ha provato a farlo il «logos», la logica speculativa. Ma se il secolo scorso è stato ricchissimo di riflessioni teologiche intorno alla maniera di pensare il rapporto fra l’uno e i molti, Dio e l’uomo, verità e libertà, in una straordinaria esplosione di nuove prospettive di ricerca (sia in ambito protestante che cattolico), in filosofia, la faccenda si è fatta maledettamente più difficile: non a caso, il ‘900 può essere detto il secolo più antiplatonico dell’intera storia della filosofia.

Sul piano politico, invece? Non siamo forse alle prese con il medesimo problema, posti innanzi ad esso con drammatica urgenza dagli imponenti fenomeni migratori, dall’esplodere dei fondamentalismi islamici, dalle incerte linee geopolitiche lungo le quali il mondo riesce sempre meno a ritrovare un ordine?

Quando John Rawls scrive «Una teoria della giustizia», il più influente libro di teoria politica della seconda metà del dopoguerra, non considera ancora un problema la pluralità di visioni del mondo che si confronto nell’arena liberal-democratica, e non ha quindi ancora motivo di domandarsi se la tela della democrazia, se i suoi principi e le sue regole riescano a contenere spinte sempre più impetuose e marcate, o non piuttosto si strappino e cedano nel confronto e nello scontro fra gruppi umani e sociali profondamente distanti gli uni dagli altri. Oggi la domanda è ineludibile: se si vanno attenuando, almeno nella loro espressione politica, le differenze di classe, riemergono differenze anche radicali su altri terreni: valoriali, culturali, religiosi, che mettono a dura prova la pacifica convivenza e il pacifico godimento di diritti e libertà.

Come vanno trattate allora queste differenze? È accettabile che si chiudano in sé, senza contaminarsi, misurarsi con l’altro, integrarsi? No, non è accettabile. Il rischio infatti è la chiusura ideologica, la pretesa a una verità esclusiva, fondata sulla negazione dell’altro. Ma funziona, al contrario, la loro riduzione più o meno forzosa a un’unica misura standard, decisa a priori, sempre uguale, a prescindere da storie, tradizioni, identità? Nemmeno. Non può funzionare nemmeno così.

Nel saggio, Bergoglio, sulle orme di von Balthasar, accenna a due criteri per far vivere l’unità senza schiacciare le differenze, e le differenze senza chiusure idiosincratiche. L’uno è il criterio della prossimità (il farsi prossimo all’altro), l’altro il criterio della massimalità (il considerare la verità più grande di noi). Ma entrambi i criteri funzionano solo se la verità rimane a distanze sufficiente da ogni cattura umana, troppo umana, e in fin dei conti ideologica, l’ideologia essendo la pretesa di avere la verità nella propria esclusiva disponibilità.

Ora, c’è una traduzione «politica» per questo concetto? C’è un pluralismo autentico, non debole e rinunciatario, ma forte e abbastanza «sinfonico» da non lasciare le differenze andar per conto loro? Forse sì. Forse lo si può fondare sull’idea che ciascuno di noi ha un punto di indisponibilità rispettando il quale soltanto si può accedere a un dialogo autentico. E però anche viceversa: supponendo cioè che quel punto non è già dato, riottoso e tetragono, prima del dialogo con l’altro, ma scovato proprio in esso e grazie ad esso. Se così fosse, il pluralismo delle democrazie contemporanee non sarebbe una rinuncia all’unità, ma anzi il modo più autentico per rinnovare la sua ricerca.

(Il Mattino, 20 febbraio 2015)

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