Archivi del mese: marzo 2015

Nulla di penale, perciò la politica sbattuta in piazza

shit-hitting-the-fanLa politica, diceva il socialista Rino Formica, è «sangue e merda»: non poteva sapere che delle sue disincantate parole si sarebbe fatto interprete il responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo CPL Concordia Francesco Simone, come ora risulta dalle intercettazioni che accompagnano gli arresti scattati ieri, su disposizione del gip Amelia Primavera. In carcere sono finiti infatti il sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, e altre nove persone, per l’opera di metanizzazione realizzata nell’isola dalla cooperativa Concordia, ma sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali c’è finita la merda, cioè la politica. Cioè D’Alema: Simone e la sua cooperativa non avevano infatti solo rapporti corruttivi con Ferrandino, secondo l’accusa, ma anche, più in generale, rapporti opachi col mondo della politica. In base al criterio: politici che «mettono le mani nella merda», politici che le mani non ce le mettono.

C’è voluta, naturalmente, un’inchiesta, ma ci sono volute, soprattutto e ancora una volta, le intercettazioni allegate all’inchiesta. E la determinazione del gip, va da sé, a dare loro grande evidenza: non per precisare il reato, ma per illuminarne, come si dice, il contesto. Il che significa: non per circoscrivere, come sarebbe doveroso, ma per allargare lo sguardo, fin dove secondo il magistrato conviene guardare. Non importa quanto lontano si giunga dai fatti contestati, mentre importa, evidentemente, quanto vicino si giunga alla politica. A quale scopo, infatti, sono state rese pubbliche le intercettazioni? Allo scopo – scrive il giudice – non di riferire fatti e circostanze, ma di «comprendere fino in fondo e delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla CPL Concordia». In questo «sistema», compare, spunta, emerge il nome da prima pagina, quello di Massimo D’Alema, la cui ombra viene evocata del tutto a prescindere dalla rilevanza penale delle conversazioni intercettate, e naturalmente senza che neppure sia indagato lui o la Fondazione Italianieuropei da lui presieduta. Non c’entra Ischia, non c’entra il metano, non c’entrano i reati: c’entra la merda.

Non si tratta infatti di un coinvolgimento di alcun tipo nei fatti finora emersi. A prendere rilievo agli occhi del gip Primavera è «l’approccio» di uno degli arrestati, quel Francesco Simone a cui si deve l’aurea distinzione fra politici con le mani nella merda, e politici senza schizzi di merda sui polsini delle camicie. Secondo Simone, tra i primi dunque rientrerebbe D’Alema, a cui perciò venivano fatti regali: acquisto di vini, acquisto di libri; secondo il giudice, poi, che di Simone allega le intercettazioni, esse sono «di estremo rilievo» – anche se, pensa un po’, non di rilievo penale si tratta – perché la distinzione «dice tutto a proposito del modus operandi della CPL e dei suoi uomini». Non, beninteso, del modo di operare di D’Alema: ma intanto il gioco è fatto e la merda è finita nel ventilatore.

Il giudice finge cioè di non sapere o di non essere interessata a un punto (questo sì: di estremo rilievo) che è invece decisivo richiamare: ciò a proposito di cui sarebbe utile che gli atti dicessero tutto sono i fatti, gli addebiti, le circostanze, gli elementi di prova raccolti, non certo il «modus operandi» di Tizio o Caio, o che razza di persone spregevoli risultino essere Tizio o Caio, magari agli occhi di Sempronio. Spostare così inopinatamente l’attenzione dal reato al reo è dire addio a un principio fondamentale di una civiltà giuridica liberale, è avvicinarsi a quei tempi bui in cui era la personalità dell’accusato a attirare l’azione punitiva, non gli atti commessi. Peggio ancora quando quella personalità la si vuole colpire obliquamente, grazie alle parole di un altro. Francamente, ci auguriamo tanto che quei tempi non tornino, neanche se a volerlo fosse un’opinione pubblica che sembra non desiderare altro se non di vedere qualche politico di spicco additato al pubblico ludibrio.

Ma il vento continua a soffiare forte in tutt’altra direzione. Si discute in Parlamento di una legge per limitare le intercettazioni? Subito il presidente dell’Anm Sabelli lancia l’allarme: attenzione a non «allargare a dismisura il perimetro della non pubblicabilità degli atti», come se non ci fosse oggi abbastanza pubblicità, o come se i magistrati non pensassero bene di allargarlo ogni volta in senso contrario, nell’interpretazione più estensiva possibile del «contesto» che serve a lumeggiare l’inchiesta. Ma intanto quelle parole servono a tracciare un discrimine morale: fra quelli che vogliono nascondere la merda (i politici) e quelli che invece vogliono portarla alla scoperto (i magistrati).

Che poi Formica intendesse tutt’altro da ciò che comunemente si intende, che con la merda intendesse la capacità della politica di misurarsi col mondo com’è, con le bassezze degli uomini, per tirarne fuori un mondo migliore e non certo per rimanerci invischiati dentro, chi volete che oggi provi a dirlo? E chi mai potrà dirlo, finché i magistrati si interesseranno molto meno degli elementi di prova, essendo i reati difficili da provare e i processi difficili da condurre a termine, e molto di più del «sistema», del «modus operandi», dell’«approccio», e di pronunciare un unico inappellabile giudizio morale, che la politica è una merda?

(Il Mattino, 31 marzo 2015)

Il nuovo volto dei kamikaze senza scopo

Germanwings A320 crashes over French AlpsVi è una sproporzione talmente grande, e una distanza talmente enorme, tra il disastro dell’aereo schiantatosi tra le montagne, le centoquarantanove vittime del suicidio di Andreas Lubitz, il co-pilota dell’Airbus tedesco, e i recessi insondabili del suo animo, da rendere difficile condurre un qualunque tentativo sensato di spiegazione dell’accaduto. Era depresso, non era depresso. Era una persona normale, non era una persona normale. Aveva problemi, angosce. Non aveva problemi né angosce. Non se ne viene a capo. Una vita normale, una famiglia normale. E la passione per il volo, la bravura di pilota; forse, al più, un carattere difficile: non era, dopo tutto, un’esistenza ordinaria? Ma cosa vi è di più lontano dall’ordinario della decisione lucida, irremovibile, assoluta, tenuta ferma per lunghissimi minuti, di schiantarsi follemente al suolo? L’aereo si abbassava, il profilo della montagna si avvicinava, il comandante bussava in cabina chiedendo vanamente di rientrare, provava a forzare la porta blindata, mentre Andreas guidava freddamente l’aereo e i suoi passeggeri verso una morte insensata, respirando calmo, regolare, cosciente fino all’ultimo, come gli apparecchi di bordo dimostrano? Nessuna precipitazione, nessuna agitazione, niente grida o proclami, nessun cedimento: il co-pilota dell’Airbus 320 della Germanwings Andreas Lubitz, di anni ventotto, ha deciso di morire e dare la morte così, sotto il cielo delle Alpi francesi, in un giorno di marzo qualunque.

La sproporzione rimane. Perché allora domandarci ancora cosa è potuto accadere nella testa di Lubitz, perché non cercare fuori della sua testa? Sia chiaro: non si tratta di spiegare l’accaduto, ma di comprendere piuttosto cosa l’accaduto dispiega dinanzi ai nostri occhi. Quello che vediamo dice infatti pochissimo della psicologia del pilota tedesco, pochissimo del suo destino individuale e, purtroppo, anche di quello delle inutili vittime della strage da lui compiuta. Ma quello che vediamo è, per l’appunto una strage, la morte di centinaia di persone per mano di un solo uomo. E questo qualcosa, forse, significa. Finora, infatti, atti del genere sono sempre stati classificati come atti terroristici: che si trattasse dell’attacco alle Torri Gemelle, o della forsennata sparatoria di Utoya, in Norvegia, ci si trovava però dinanzi ad attentati in cui uomini innocenti venivano uccisi per seminare il terrore e insieme per lanciare un messaggio politico: una sfida all’America e all’Occidente, nel caso della Twin Towers, una sfida all’Europa infiacchita dal progressismo e  dall’immigrazione nel caso di Anders Breivik, ad Utoya.

Questo messaggio manca del tutto, nel caso dell’Airbus. E in questo senso, ma in questo senso soltanto, non si tratta di terrorismo. Ma qualcosa di terroristico nell’accaduto si mostra ugualmente, e ci tocca. E non perché d’ora innanzi avremo paura di salire su un aereo, o chiederemo di conoscere le cartelle cliniche dei piloti, oppure pretenderemo che mai qualcuno resti da solo nella cabina di pilotaggio. Ma perché è la radice stessa del terrore che viene allo scoperto.

Questa radice sta nell’esercizio assoluto della potenza. Potente è chi (o ciò che) può qualcosa. Ma se la potenza è posta al servizio di uno scopo, tale potenza è appunto limitata alla realizzazione di quello scopo. Cosa accade se però lo scopo cade, viene meno? Che la potenza è posta come assoluta. Che il suo orizzonte consiste esclusivamente nel rendere tutto, ogni e qualunque cosa, possibile. Per il filosofo Emanuele Severino, questa è precisamente la condizione della Tecnica contemporanea. Tecnica non dice qui una particolare serie di azioni o di mezzi, ma il nome della nostra epoca, quando più nessuno scopo è tenuto in vista, al di fuori dell’illimitato accrescimento della potenza medesima. Ora, qual è lo scopo del suicidio di Andreas Lubitz? Nessuno. Non ci sono messaggi da trasmettere al mondo. Ciò che si vede, quasi si esibisce nel suo gesto folle è una potenza assoluta, l’illimitato disporre della vita umana per nessun altro scopo che non sia l’esercizio stesso di questo disporre, assolutamente e senza altri fini. La forma suprema del terrorismo, cioè l’estrazione dell’umanità dell’uomo da qualunque cornice di senso o scopo.

Conta poco, allora, il fatto che Lubitz fosse depresso, angosciato, folle o solamente triste. Che ci fosse o meno premeditazione, e che questa premeditazione fosse nell’animo di Andreas Lubitz dal primo alzarsi in volo o solo nel momento in cui si è chiuso nella cabina di comando. Conta poco: è materia (poca, e assai oscura) per psicologi. Ma conta di più la condizione storica e ontologica – così dicono i filosofi – che il gesto rivela. Il terrore del nulla come destino della nostra epoca, l’illimitata possibilità di gettare tutto ciò che è nel nulla, per nessun’altra ragione che non sia la sua annullabilità: ciò che Emanuele Severino chiama la follia estrema dell’Occidente.

Ho sempre pensato, in verità, che Severino avesse torto, e che altro è il senso di ciò che è. Ma in mezzo alle impassibili montagne francesi, nel verde bruciato dei boschi, in un giorno qualunque di marzo, dinanzi al volto affranto di Angela Merkel o a quello scuro di Hollande, tra lo sgomento dei soccorritori, in mezzo alla carcassa dell’aereo e tra brandelli di vite spezzate senza motivo alcuno, non sono riuscito a non pensarvi. E a non temere per ciò che siamo, per ciò che possiamo essere, noi altri uomini, proprio perché lo possiamo: signori assoluti della vita e della morte.

(Il Mattino, 27 marzo 2015)

Le due parabole arancioni di Pisapia e De Magistris

de magistris pisapiaAlla scadenza del mandato, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia non si ricandiderà; il sindaco di Napoli invece sì. Pisapia spiega che non rinuncia per stanchezza; figuriamoci De Magistris: non è stanco nemmeno lui, perché allora dovrebbe mollare? Pisapia fa dipendere la sua decisione da quanto ha detto fin dalla campagna elettorale di quattro anni fa, che cioè avrebbe guidato la città, se eletto, per un solo mandato. De Magistris ha tutta l’aria di dire che di mandati ne farebbe anche tre, quattro, se solo la legge lo consentisse. Fin qui, però, sembra che si tratti solo di percorsi biografici che si allontanano l’uno dall’altro: il voto amministrativo del 2011 li aveva avvicinati, il voto del 2016 li separerà. In realtà, c’è qualcosa di più, e cioè il consumarsi di un’esperienza politica, secondo linee e traiettorie diverse. Pisapia e De Magistris sono infatti arrivati alla guida delle loro città mentre la vicenda politica nazionale si avvicinava al suo punto più basso, almeno dal punto di vista della credibilità degli attori politici locali e nazionali. A Roma, il centrodestra si avvitava intorno al destino personale del Cavaliere, che nell’autunno del 2011 si sarebbe dimesso da primo Ministro, aprendo una crisi da cui il centrodestra non è ancora venuto fuori, mentre il partito democratico, pur agevolato dalle convulsioni della maggioranza, stava sotto la sferza della prima campagna renziana sulla rottamazione, i cui esiti la vittoria di Bersani alle primarie del 2012 avrebbe solo rinviato. Un’ansia di cambiamento che a livello locale era indubbiamente amplificata da disavventure ed errori. A Napoli pesò l’incredibile vicissitudine  delle primarie cittadine, prima tenute poi annullate per brogli; a Milano pesarono invece le indagini giudiziarie a carico di Filippo Penati, esponente di punta del Pd lombardo e braccio destro di Bersani. Come spesso accade nel nostro paese, queste vicende hanno inciso sul corso degli eventi indipendentemente dall’accertamento di precise responsabilità. Di fatto, però, sia a Milano che a Napoli il bailamme mediatico-giudiziario, in una condizione di estrema debolezza dei partiti, ha favorito le figure di outsider, il cui primo merito era la loro collocazione esterna alle macchine politiche tradizionali. La stessa cosa accadeva peraltro anche a Cagliari, dove vinceva la proposta anti-establishment di Massimo Zedda, giovanissimo esponente di SEL. Nell’estate del 2011, grazie al vento delle primarie e alla crisi dei partiti, tre importanti capoluoghi venivano dunque investiti da una proposta di cambiamento molto forte.

Fra un anno, i cittadini daranno la loro valutazione su queste esperienze. Ma il gesto di Pisapia sembra in fondo anticipare non già il giudizio sull’impegno amministrativo sostenuto, quanto quello politico. Sul piano politico, la breccia aperta quattro anni fa si sta chiudendo. Il partito democratico si presenta oggi con Renzi al comando. Ha dunque tutt’altra fisionomia, e anche se a sinistra non mancano delusi e scontenti, e non è affatto escluso che questa delusione coaguli in una nuova formazione, ad essa mancherà il più forte propellente che aveva sospinto i sindaci del 2011, cioè il vento del rinnovamento.

Questo esito prende però un significato diverso a Milano e a Napoli. Perché a Milano, così come a Cagliari, la vittoria del candidato di sinistra radicale – ma, sia detto en passant, si fa qualche fatica a usare lo stesso aggettivo per Pisapia come per De Magistris, per la vena progressista di Pisapia come per quella populista di De Magistris, per la cultura politico-giuridica dell’avvocato Pisapia come per quella del magistrato De Magistris – avveniva, quella vittoria, a spese del Pd ma non contro il Pd, che infatti si ritrovava in giunta con il nuovo sindaco. A Napoli no. A Napoli, il Pd era stato spazzato via dalla vittoria arancione. E così, mentre Pisapia può provare a dire che il suo mandato andava interpretato come un tentativo di ricostruzione di una classe dirigente locale, che quindi prosegue anche oltre la sua personale esperienza alla guida della città, De Magistris non può (né vuole) dire nulla del genere. Ha iniziato «scassando», e termina ora con gli stessi accenti, esasperati se mai a causa della condanna in primo grado che lo costringe ad accentuare ancora di più, in quest’ultimo scorcio di sindacatura, la vocazione anti-sistema e «contro tutti».

In questa linea, è però confortato dallo stesso Pd campano, che questa volta ha superato senza strascichi polemici la prova delle primarie, ma non si può dire che si sia dato con De Luca il profilo di una moderata forza riformista. Se mai si dirà il contrario, che questa volta sarà il Pd, con De Luca, che proverà a «scassare».

(Il Mattino, 24 marzo 2015)

Ma il nazionalismo non va in archivio

LJjtQqTVDalle elezioni francesi di ieri nei dipartimenti (paragonabili alle nostre province) viene un risultato chiaro: vince la destra repubblicana di Nicolas Sarkozy, l’ex Presidente della Repubblica. In coalizione con i centristi dell’UDI, l’Ump dovrebbe arrivare, stando agli exit poll, ben sopra il 30%. Il Front National di Marine Le Pen, invece, non sfonda. Dovrebbe infatti confermare le percentuali delle elezioni europee dello scorso maggio, che furono giustamente salutate come un incredibile exploit, ma questa volta l’obiettivo era divenire anche sul terreno amministrativo il primo partito di Francia, e questo obiettivo è stato mancato. Il premier socialista Manuel Valls ha così potuto salutare con soddisfazione lo scampato pericolo. Magra consolazione, visto il calo di consensi del suo partito, che rischia comunque di finire dietro al Front National, confermandosi così malinconicamente il terzo partito di Francia. Anche se insomma Valls non dovrà lasciare l’Hôtel de Matignon, resta il fatto che la Francia si è spostata robustamente a destra.

Il voto era comunque atteso per un insieme di motivi. In primo luogo, si votava per la prima volta in tutti i cantoni di Francia, dopo una profonda riorganizzazione territoriale che ne aveva dimezzato il numero, e dopo l’introduzione di un inedito voto di coppia, ad un uomo e ad una donna insieme. In secondo luogo, era da valutare la percentuale dei votanti, per capire se il trend astensionista si sarebbe confermato nelle urne. Non è andata così: c’è stata anzi un’inversione di tendenza, complici anche gli eventi drammatici degli scorsi mesi, con la strage di Charlie Hebdo. In terzo luogo, c’era attesa per i cambiamenti nella geografia locale del potere, ed è probabile, visti i risultati, che questo cambiamento ci sarà. Il sistema elettorale francese prevede un secondo turno di ballottaggio, ma fin d’ora si può ritenere che queste elezioni dipartimentali consegnano la maggioranza dei cantoni al centrodestra.

C’è poi l’ultimo e più importante motivo, il significato politico generale dovuto anzitutto al fatto che la consultazione coinvolgeva tutto l’elettorato francese. Temendo una nuova débacle, i socialisti hanno puntato su una drammatizzazione del voto, contro la probabile avanzata lepenista e i pericoli portati ai fondamenti della Francia repubblicana. Di fatto, questo ragionamento ha probabilmente sostenuto la partecipazione al voto, ma ha favorito soprattutto Nicolas Sarkozy. Il quale è riuscito a presentare un centrodestra dal profilo compatto, e soprattutto ha potuto mettere un freno alla porosità fra elettorato della destra tradizionale e elettorato frontista.

Nei primi commenti ad urne appena aperte, Sarkozy, forte del voto che consegna alla sua formazione il posto di primo partito di Francia, ha interpretato l’esito elettorale come espressione della «profonda aspirazione dei francesi a un cambiamento chiaro», ma, foss’anche così, è difficile escludere dalla richiesta di cambiamento quel quarto circa dell’elettorato che dà i suoi suffragi a Marine Le Pen. È indubbio peraltro che le cancellerie europee guardavano anzitutto al risultato del Front National, e che in base ad esso sono pronti a misurare non già l’ansia di cambiamento, ma il grado di stabilità o instabilità del quadro politico francese. Marine Le Pen chiede del resto i voti in base allo slogan: «Ni droite, ni gauche, Français!», col quale non si propone solo di liberare la destra nazionalista francese di vecchie scorie, ma anche di imporre una diversa dialettica al voto, lungo lo spartiacque fra nazione e nemici della nazione (che si tratti degli stranieri o di Bruxelles); Sarkozy ha provato invece, riuscendovi, a ripristinare l’asse destra/sinistra per delegittimare il voto frontista, proprio come, dal canto loro, i socialisti francesi hanno rispolverato il vecchio armamentario antifascista, con lo stesso obiettivo di tenere la Le Pen ai margini del circuito politico-istituzionale.

Si deve allora pensare, vista la vittoria del «vecchio» Sarkozy, che sia già in corso una sorta di riflusso, dopo la travolgente avanzata lepenista dello scorso anno? Difficile sostenerlo, dato il terreno comunque guadagnato dalla Le Pen, che porta l’estrema destra francese dove non era mai giunta, nel disegno amministrativo della Francia. Avere un certo numero Presidenti di dipartimento del Front National sarebbe comunque un risultato storico. Né si può dire che la Francia, e l’Europa intera, abbiano già superato le difficoltà in cui si dibattono, fra incerte prospettive economiche, scarsa legittimazione delle élite, affanni europei, minacce alla sicurezza, ondate migratorie. Sono ancora là tutte le ragioni che possono motivare il voto frontista. Certo, l’alternativa moderata di Sarkozy si è rafforzata, complice anche l’argomento usato abilmente (e forte, in Francia, soprattutto sul piano locale) che un voto alla Le Pen al primo turno è un voto ai socialisti al secondo turno. Ma c’è ancora, a fianco di ceti urbani popolari delusi dai socialisti e radicalizzatisi, una classe media impoverita e arrabbiata disponibile a lasciarsi sedurre dalla Le Pen. Il voto probabilmente rimanda questa partita decisiva, ma non la chiude affatto, né in Francia né altrove in Europa.

(Il Mattino, 23 marzo 2015)

«Dalle periferie al centro, la sfida della fratellanza nel nome della solidarietà»

20150321_090457Qualche giorno fa, Papa Francesco ha spiegato che «la realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Oggi il Pontefice è a Napoli, e comincia la sua visita dalla periferia della città, dalle vele di Scampia. Dopo la visita al santuario di Pompei, è lì infatti che Jorge Mario Bergoglio incontrerà per la prima volta i napoletani. Aldo Masullo riflette con un tratto di partecipazione, che si vena qua e là di amarezza, sulla giornata napoletana del Papa «venuto dalla fine del mondo». «In termini liturgici, si direbbe una via Crucis: Papa Francesco ha scelto di visitare i punti di maggior dolore e maggiore sofferenza della città: i poveri, i detenuti, gli ammalati. Scampia è un esempio». E non perde l’occasione di raccontare la storia del quartiere, le speranze deluse, le contraddizioni irrisolte, le «forze negative» che presto hanno prevalso. Masullo sottolinea più volte, nel corso della conversazione, il valore altissimo delle parole di Papa Francesco: la ricchezza spirituale, il tratto pastorale, la sensibilità sociale. In effetti, nel corso del XX secolo, il pensiero cristiano si è profondamente rinnovato, e accanto ad una teologia della Parola di Dio, che ha cercato di affermarne anzitutto la trascendenza e la specificità rispetto ai contesti storico-mondani ai quali è di volta in volta appartenuta, si è fatta presente una diversa preoccupazione: per la rilevanza, più che per l’identità della parola rivelata. Papa Bergoglio sembra esprimere, provo a dire, anzitutto questa preoccupazione, questo «movimento» teologico: un farsi più solidale con la storia degli uomini.

«Non c’è dubbio, lo si vede appunto dai luoghi che ha scelto di visitare, e dal significato delle sue scelte». Dopo Scampia, Francesco raggiungerà il carcere di Poggioreale: «la visita alle carceri, l’incontro con i detenuti, un altro luogo della sofferenza umana. Lo sono le carceri in generale, lo sono le carceri napoletane in particolare: anguste, vecchie, sovraffollate, un’altra stazione della via Crucis».

Il momento successivo, particolarmente atteso, sarà la visita al Duomo, dove pregherà sul sangue di San Gennaro. «Qui – continua il filosofo napoletano – il senso devozionale della pietà religiosa spicca con particolare forza, direi quasi con violenza: la violenza della passione religiosa. Il popolo napoletano si attende quel miracolo che io, per la verità, preferirei rinunciasse ad attendersi. Attendere il miracolo è in certo modo appannare la libertà della fede, è far dipendere il rapporto con Dio da un suo visibile beneficio. Il nucleo forte della religiosità cristiana non sta nel miracolo, ma nel dialogo, nella grazia dell’apertura all’altro. La visita a San Gennario è peraltro anche il riconoscimento di ciò che la Chiesa partenopea fa per mantenere vivo il contatto con la genuina religiosità popolare».

C’è tanto «popolo», mi viene voglia di dire, nel percorso che Bergoglio ha voluto tracciare in città. C’è un bisogno di comunità che il Papa non perde occasione di suscitare, di avvertire e fare avvertire, come se per lui, per un cristiano, non vi fosse mai vera e piena identità senza una reale appartenenza a un popolo. Che è ovviamente il popolo di Dio, la Chiesa in cammino. Ma sta il fatto che la Chiesa cattolica, e in particolare questo Papa, forse anche grazie alle sue origini latino-americane, dispone nel suo lessico di termini, risonanze, accenti che nell’esangue vocabolario politico europeo, o almeno nelle zone sempre più ristrette presidiate dalle sue classi dirigenti, si ascoltano poco: sono quasi sterilizzati, privi di pathos, vuoti di senso.

Tocco così un tema che a Masullo è molto caro: «È un mio vecchio pensiero – dice –. Io l’ho detto spesso a proposito dei napoletani: c’è in loro uno spirito di solidarietà più umano che civile. Il che è congeniale al sentimento di Bergoglio. Nel suo messaggio io colgo la sollecitazione a guardare al di sotto delle apparenti relazioni sociali istituzionalizzate, per far venire alla luce la radice stessa della vita sociale, cioè il solidale fervore della comunità, il coinvolgimento appassionato di ognuno alla vita del gruppo. Il richiamo del Papa ammonisce una società troppo formalisticamente civile, che perde troppo spesso il senso del rapporto con il contenuto di speranze e di dolori della vita personale».

«Io ho spesso insistito sulla necessità di passare dallo spontaneo senso di umanità all’ordine delle regole civili – continua –. Questo Papa, invece, con la sua straordinaria sensibilità, coglie il punto dolente della presente crisi di civiltà. Egli denuncia una cultura sociale inaridita nei suoi formalismi giuridici e alienata nei suoi meccanismi economici, e la sollecita a ritrovare quell’universale senso di umanità senza di cui tutte le strutture civili, anche le più raffinate, perdono significato».

Tutto il pensiero del Novecento è peraltro attraversato da questa dicotomia, variamente declinata: la civilizzazione non sempre ha arricchito, anzi ha spesso depauperato la radice umana della vita comunitaria. Per Masullo, «siamo tutti molto cittadini, e magari dovremmo esserlo ancora di più, ma siamo ben poco fratelli. Di fronte a questa mancanza, Bergoglio rivendica il senso forte della comune umanità, fondamento necessario di ogni vivente istituzione sociale».

Forse sta qui anche il messaggio del prossimo anno giubilare, annunciato a sorpresa da Papa Francesco pochi giorni fa. Un messaggio di apertura: di porte, di città, di mondi. Un cristianesimo autenticamente mondiale. Masullo ci riflette su: «è come se il Papa ammonisse il mondo perché si guardi dai pericoli che vengono non tanto dall’esterno quanto dall’interno, da noi stessi. È come se il Papa dicesse: avete a tal punto inaridito la vostra vita, da non avere più risorse di carattere spirituale. Ognuno di voi è vuoto e solo».

Tutto ciò chiama in causa il rapporto della Chiesa con la modernità. È abbastanza chiaro, da certe prese di posizione di Bergoglio in questi due primi anni di pontificato, che egli intenda spostare il confronto: invece di stare sulla difensiva sul terreno dei diritti, passare al contrattacco sul terreno dei bisogni. Questo non credo comporti veri e propri mutamenti di dottrina, ma mutamenti di interessi sì. «In effetti – conviene Masullo – Bergoglio pensa più all’uomo che al cittadino. I diritti che vede come eminenti non sono i diritti del cittadino ma i diritti naturali dell’uomo. In ciò suggerirsce un altro movimento, rispetto alla prevalente direzione del moderno».

La linea cade, chiamo Masullo per un’ultima riflessione. Gli chiedo di riprendere l’itinerario di Bergoglio, l’ultima tappa, la grande folla dei giovani, sul Lungomare della città: «la Chiesa dolorante si trasforma in Chiesa progettante. Parlare ai giovani significa proiettare in avanti tutte le energie e i desideri e le volontà di riscatto proprie dei giovani, che nell’altissima figura di Francesco trovano speranza, ma anche parole che impegnano ad agire». A sera, però, l’elicottero del Pontefice si alzerà nuovamente in volo: che città lascerà? Quanto resterà, della sua visita?

«Avremo un doppio, discordante effetto. I ceti popolari si sentiranno confortati e incoraggiati a un nuovo fervore di vita operosa. La borghesia medio-alta, dietro l’ossequio formale, manterrà fermo il suo abituale scetticismo. Tacitamente lascerà cadere ciò che avrà udito. Vorrei sbagliarmi, ma purtroppo è il giudizio che non mi sento di modificare sulle capacità di governo morale e civile di questa classe dirigente. Essa cambierà ben poco». È un verdetto un po’ amaro, posso solo augurarmi con lui, in conclusione, che non sia un verdetto definitivo.

(Il Mattino, 21 marzo 2015)

L’università e la bilancia del salumiere

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Mi dia un etto di prosciutto: il salumiere taglia il prosciutto, pesa, incarta e stabilisce il prezzo. In maniera, come si dice, oggettiva. Ora, non sareste turbati se il salumiere rinunciasse a bilancia e registratore di cassa e il prosciutto ve lo servisse a spanne? La valutazione della performance del salumiere è misurabile, e voi ne siete sollevati. Non solo voi: anche il datore di lavoro, che può sapere quanto prosciutto il suo commesso ha tagliato, pesato, infine venduto tutto il giorno.

Perché allora le cose non dovrebbero andare così anche all’università? Perché i docenti, le lezioni, i prodotti della ricerca non dovrebbero essere rette dal concetto che, collocato al centro dei sistemi di valutazione,  ne governa da qualche anno i destini, quello di «performance misurabile»? Solo perché il sapere non è come il prosciutto (non è una merce)? Sia pure. Ma piuttosto che rinunciare all’oggettività della misurazione, che protegge da salumieri infedeli, non bisognerà semplicemente affinare i criteri? Luca Illetterati, presidente della società italiana di filosofia teoretica, ha provato a seminare qualche dubbio, a gettare un sasso in mezzo a un mare di conformismo, con una pubblica lettera che ha accompagnato le sue dimissioni dal nucleo di valutazione dell’Ateneo di Padova, dove insegna. La sua è un’Impresa eroica: tutto infatti congiura contro di lui. In primo luogo, è un docente universitario. In secondo luogo, insegna filosofia: sta, evidentemente, difendendo se stesso (e siccome sono le medesime condizioni in cui si trova chi scrive, questo articolo deve riuscire due volte sospetto).

Quali ragioni, tuttavia, ha addotto? La prima. Puntare sull’efficacia e l’efficienza della ricerca ammazza l’università come «luogo di produzione critica del sapere». In effetti, se a ogni passo ci si imbatte in una critica, non si va da nessuna parte. Meglio, dunque, sbarazzarsene. E se all’università si chiede solo ed esclusivamente di formare «risorse umane» adeguate alle richieste del mercato (delle imprese, delle professioni), lo spazio per le ubbie degli spiriti liberi si riduce parecchio. A chi o a cosa, d’altra parte, potrebbero servire le fisime dei filosofi, e non solo le loro? Questo però è il punto: se non si vede a cosa serva una tale riserva di sapere critico, vuol dire che, sotto l’apparente neutralità dei modelli di valutazione – oggettivi, misurabili, verificabili –, si è in realtà già introdotta un’altra idea del sapere. Nulla di male: non è la prima rivoluzione dei sistemi culturali che si sia prodotta nel nostro paese – e, enfatizzando un po’, nell’Occidente tutto –, non sarà neppure l’ultima. Ma dove è stata presa questa decisione tra un modello, un’idea del sapere, e un altro? E soprattutto: sulla base di quali valutazioni, e quanto misurabili? Non lo si sa. Si sa soltanto che si sta procedendo su questa strada: si dispone di sistemi di valutazione per la ricerca del singolo docente o della struttura dipartimentale secondo criteri e standard assunti come «oggettivi», ma non si sa nulla sul tipo di umanità, di società e di sapere che si produrrà in fondo a questa strada. E d’altra parte: a quale sapere toccherebbe di di fare una simile valutazione? Neppure questo si sa (brutto affare, scomodo paradosso).

Seconda ragione. Tutto viene valutato da organismi appositi. Benissimo. E gli organismi di governo di un Ateneo? Quali spazi rimangono loro? Nessuno. Sarà sempre più comodo mettere avanti una procedura piuttosto che arrischiare un giudizio. Quello che Illetterati vede profilarsi è «il dominio delle procedure sulle considerazioni, dei meccanismi sulla possibilità di una ponderazione in grado di tener conto delle variabili umane: degli indicatori sulle persone e sulle cose». Qui torna in gioco il prosciutto. Perché il dominio della bilancia sul salumiere non ci dispiace affatto, ma forse un po’ dovrebbe dispiacerci quando si tratta di trasmissione del sapere, di istruzione, formazione e ricerca. Ma non è solo questo: è anche l’idea che il «fattore umano» sia solo un elemento di disturbo nella valutazione, un fattore che va il più possibile limitato, contenuto, ridotto, annullato. Ed invece: alzi la mano chi, nei casi importanti della sua vita, vuole essere giudicato «in ultima istanza» da una macchina, invece che da un uomo. Da una macchina, invece che da un medico, o da un giudice, o da un maestro. In ogni caso, anche questa idea – i filosofi lo sanno – modifica la natura stessa del sapere: non si limita a misurarlo. Come la si può, allora, assumere senza considerarne l’impatto?

E qui cade una terza e ultima ragione. Non si tratta di rifiutare acriticamente ogni strumento di valutazione, ma di guardarne per davvero gli effetti. Cosa infatti sta succedendo nella vita degli Atenei? Che il giovane ricercatore studia con un occhio, anzi due, non alla cosa stessa che studia, ma ai parametri a cui sarà sottoposto il suo lavoro di ricerca. Che lo stesso farà il docente, promuovendo o bocciando, e il dipartimento, allocando di qua o di là le risorse a disposizione. Anzi: allocando docenti in funzione delle risorse raccolte. Illetterati fa l’esempio dei corsi in lingua inglese, ormai offerti a prescindere (direbbe Totò): «è davvero la risposta a un bisogno dello studente e del docente la creazione di questi corsi? Sono state davvero discusse le implicazioni didattiche e formative connesse a questo?». Domande retoriche: la risposta è no, ad entrambe. Dove però sarebbe il luogo della discussione che Illetterati auspica, a questo riguardo? Nell’università no di certo, perché mettersi a discutere di queste cose rischia di attirarsi un brutto voto. Ecco dunque la stortura che si tratta di correggere, e però anche il timore che stia morendo perfino la sensibilità per avvertirla: «non può essere la valutazione a dire come ci dobbiamo comportare». Già: non può essere eppure è, e quel che ne viene è «una modificazione strepitosa e fondamentale dell’ethos stesso della ricerca». Illetterati butta lì, quasi in conclusione del suo polemico ma garbato intervento, queste parole. E davvero: c’è qualcuno che saprà ancora dire cosa mai sia questo «ethos», l’abito stesso della ricerca, un’idea dell’uomo e del suo «logos», quando la valutazione avrà definitivamente trionfato sopra ogni cosa, e tutto sarà fatto come standard comanda? Peirce, il grande filosofo americano, sosteneva che è impossibile essere completamente logici, «salvo che su una base etica». Che cosa faccia oggi di base al sapere e al logos, è un problema che forse non il nucleo di valutazione d’Ateneo, ma qualcuno dovrà pur porsi.

(Il Mattino, 20 marzo 2015)

Né condanne preventive né ombre

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L’ordinanza del gip che ha portato in carcere, fra gli altri, Ercole Incalza e Stefano Perotti – l’uno storico dirigente ai Lavori Pubblici, l’altro imprenditore – riguarda anche il ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi. Lo riguarda, in particolare, per via dell’incarico di lavoro che Perotti ha assegnato al figlio del ministro, e del Rolex d’oro regalatogli dallo stesso Perotti in occasione della laurea. Gli episodi non hanno, allo stato, alcuna rilevanza penale. Alcuna. Né, d’altra parte, Maurizio Lupi, o il figlio Luca, hanno ricevuto avvisi di garanzia. Ciò non toglie che il quadro complessivo che l’inchiesta sulle Grandi Opere disegna, nonché i fatti emersi entro «un articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori», pongono problemi di opportunità politica e richiedono sia al ministro che al governo nel suo insieme una riflessione attenta. In questa storia, non vi possono essere ombre.

Ma qualche riflessione spetta anche all’opinione pubblica. Si fa presto, infatti, a dire che non c’è nulla su cui riflettere, che i fatti parlano chiaro, che siamo alle solite, che l’Italia è un paese marcio fin nelle fondamenta e che la corruzione dilaga. Si fa presto, cioè, ad assecondare, anzi: a tambureggiare sull’onda di questo comune sentire. A trasformare una fase preliminare, che più preliminare non si può, in un giudizio definitivo. A riscrivere ancora una volta pagine e pagine di giornali con materiale ricavato da intercettazioni, diffuse a prescindere dalla loro rilevanza processuale. A ridurre al silenzio qualunque preoccupazione garantista, che in queste ore passa semplicemente per esercizio di ipocrisia, quando non per larvata connivenza. E invece bisogna avere anche in questa circostanza (tanto più in questa circostanza) la pazienza e l’ostinazione di ribadire che non c’è nulla di più liberale in un paese della divisione dei poteri, e che neanche il «quadro corruttivo» più preoccupante può spingere ad accantonarlo con indebite invasioni di campo, oppure con più o meno involontarie tracimazioni di indagini sui giornali.

Nel caso di Ettore Incalza, tuttavia, non si può fare come se non si sapesse ciò che si sa. O che già si sapeva. Vi sono state, infatti, prima delle decisioni della magistratura, prese di posizioni politiche e articoli di giornale. Domande, a cui sono state date risposte rivelatesi insufficienti. Ora, nulla autorizza a trasformare la decisa difesa di Incalza da parte del ministro Lupi, condotta nei mesi passati, in una chiamata in correità, come in particolare i grillini non esitano a fare: con totale indifferenza verso il quadro probatorio finora delineato dall’inchiesta e certezza tanto assoluta quanto pregiudiziale che ogni accusa è vera e fondata per il solo fatto che viene sollevata. Certo, però, nell’enorme circo mediatico-giudiziario in cui Lupi è ora trascinato, le parole spese a suo tempo da Lupi per confermare la bontà della scelta di continuare ad avvalersi di Ettore Incalza anche dopo il suo collocamento a riposo (e nonostante il coinvolgimento in indagini), pesano come macigni. Ma bisogna capire bene dove cade questo peso. Non si tratta infatti di un peso che gravi sul profilo processuale della vicenda, o che configuri allo stato responsabilità di qualche tipo per il ministro delle Infrastrutture. Si tratta invece di un peso che, evidentemente, l’Italia intera non riesce a smaltire e rimuovere: quello rappresentato dalla vischiosità dei rapporti fra decisore politico e alta burocrazia ministeriale. Non c’è neppure bisogno di supporre chissà quali trame di corruttela profonda e radicata per spiegare la permanenza negli incarichi, l’inamovibilità di certe figure, il grado di autonomia che acquistano e il potere che di fatto esercitano. A titolo di conseguenza, è ben possibile, e l’inchiesta di Firenze proverà a dimostrare che corruzione e reati contro la pubblica amministrazione allignano in questo sistema: ma il problema, prima ancora che dalle conseguenze, è rappresentato dal sistema. Cioè dalla formazione del tutto insoddisfacente per quantità e qualità di manager pubblici in grado di svolgere con la stessa professionalità e competenza, gli incarichi che un uomo come Incalza teneva nel suo pugno. Quando Lupi ne difende il profilo professionale, dice parole vere, non solo o non affatto opportunistiche. Ma la verità di queste parole, prima ancora di andare a difesa delle sue scelte, va a denuncia di tutte le insufficienze in cui l’Italia si dibatte da anni: una politica debole, sempre meno guarnita delle competenze e sempre più pronta ad accontentarsi di mettere i puntini sopra le decisioni prese altrove, spesso in maniera opaca, asfittica, e alla fine, purtroppo, anche torbida. C’è davvero materia per riflettere: lo farà il ministro Lupi, dobbiamo farlo anche noi.

(Il Mattino, 18 marzo 2015)

La scelta del sindaco che divide la sinistra

votoAll’indomani delle primarie, il Pd ha in Campania un candidato Presidente, Vincenzo De Luca, ma non ha, stando almeno alle intenzioni espresse, un bel po’ dei voti raccolti alle europee un anno fa. È una situazione in cui il Pd non si era ancora trovato: accusare un calo consistente di consensi, e avere nel suo candidato Presidente non più un punto di forza, ma un punto interrogativo. Naturalmente, il sondaggio che al Pd deve procurare qualche supplemento di riflessione fotografa una situazione ancora in movimento. E in tempi di alta volatilità del voto, nessun numero può ritenersi acquisito. La fotografia, per giunta, è scattata ad una considerevole distanza dal traguardo, fissato a fine maggio, e non può quindi includere alcuni elementi della sfida elettorale ancora in corso di definizione. Resta però il fatto che il Pd si trova per la prima volta a dover recuperare il terreno perduto – cosa, da Renzi in poi, mai capitata – e che il Sindaco di Salerno non riesce a trasferire la sua popolarità in percentuali più lusinghiere di quelle della coalizione che lo sostiene. Nel 2010, quando De Luca perse, ottenne comunque un risultato personale di tutto rispetto, finendo quasi cinque punti sopra la sua coalizione. Stavolta quell’effetto-leader non è visibile: coalizione e candidato presidente sono quasi appaiati.

È un problema che De Luca per primo sa di dover affrontare. Chi infatti conosce la storia dell’istituto che il partito democratico ha introdotto in Italia, mutuandolo dall’esperienza americana, sa che la prima e principale conseguenza delle competizioni primarie consiste nello spostamento del peso politico dal partito al candidato: si indebolisce il primo, si rafforza il secondo. Conta dunque, per il Pd, la capacità di ricostruire attorno al vincitore del primo marzo unità di intenti e di liste, dopo le inevitabili divisioni della campagna elettorale (e l’appello al non voto di Saviano, e i polemici addii di alcuni parlamentari, e i tentativi disordinati di evitare la competizione), ma conta anche di più la fisionomia del candidato prescelto. Il quale non ha un problema soltanto: ne ha due. Il primo problema è rappresentato, come tutti sanno, dalla condanna in primo grado che, per effetto della Severino, gli impedirà, salvo ricorsi o sospensive o pronunce di incostituzionalità, di andare ad occupare il posto di Presidente di Regione, in caso di vittoria. De Luca, ovviamente, non lascia trapelare la minima esitazione: se ha corso le primarie, è per correre anche dopo, contro Caldoro, e quindi ripete come un mantra che lui non ha alcun problema con la legge, e che il Tar metterà le cose a posto un minuto dopo il voto. Ma rimane il fatto che una porzione almeno dell’elettorato di centrosinistra (fuori dalla cinta muraria salernitana) continua a nutrire forti perplessità: vuoi per il complesso profilo giuridico della vicenda, vuoi per un atteggiamento legalitario, e cioè per l’indisponibilità a «fregarsene della legge», come dice De Luca, sbagliata o no che la legge sia. La domanda sull’opportunità della candidatura di De Luca spacca infatti l’elettorato di centrosinistra in due metà quasi eguali.

C’è poi il secondo problema, che non è ancora esploso ma che comunque rischia di creare a De Luca qualche inciampo, se non troverà la soluzione. Lui infatti tira dritto: ma il Pd? Anzi, più precisamente: Matteo Renzi? Renzi darà una mano? Metterà le cose per il giusto verso anche qui? Perché non sarebbe per De Luca auspicabile portare da solo tutto il peso della campagna elettorale, che andrà anzi crescendo col passare dei giorni, e difficilmente si schioderà dal problema rappresentato dalla Severino. Cosa farà allora Renzi? Potrà accontentarsi di girare alla larga da Napoli? Al voto di maggio mancano circa ottanta giorni: Renzi pensa di fare il giro d’Italia in ottanta giorni senza passare per la Campania? Si possono prendere alcune contromisure: il voto regionale è un voto amministrativo, più che politico, quindi – si può dire – Renzi non c’entra; De Luca, poi, mostra una capacità di attrazione su pezzi dell’elettorato moderato che può compensare quello che forse, per via della condanna, non riuscirà a raccogliere alla sinistra del Pd. Ma la latitanza di Renzi dalla sfida nella più importante regione meridionale difficilmente passerebbe inosservata. Una simile condotta imbarazzata non priverebbe solo De Luca della popolarità del leader nazionale, ma rischierebbe di rafforzare, invece di dissipare, i dubbi dell’elettorato sulla sua candidatura.

Proprio quello che De Luca, forse, non si può permettere. A due mesi dal voto, e soprattutto tre punti percentuali dietro Caldoro.

(Il Mattino, 14 marzo 2015)

Morale e diritto il divorzio necessario

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Con l’assoluzione in Cassazione, cala il sipario sulla vicenda Ruby, sulle «cene eleganti» o sul «bunga bunga»: come volete chiamarle. Comunque infatti si vogliano chiamare gli intrattenimenti serali dell’allora Presidente del Consiglio, una cosa la sentenza di ieri ha messo definitivamente in chiaro: trattasi di vicende private, che attengono alla morale privata. Non riguardano neppure il codice penale, evidentemente: cadono infatti sia l’accusa di concussione, sia quella di prostituzione minorile. Ma questo è solo (si fa per dire) l’esito processuale, favorevole al Cavaliere. Il risultato più complessivo è che si può provare a tracciare nuovamente una linea di demarcazione tra le scelte private di vita e i comportamenti pubblici di un leader politico.

Ovviamente, le cose non sono mai semplici. Vi sono anzi ragioni per dubitare che quella linea sia tracciabile con nettezza. Viviamo in tempi di sempre più estesa pubblicizzazione della sfera privata dell’esistenza: un pomeriggio davanti alla tv lo dimostra «ad abundantiam». La stessa costruzione della leadership politica non prescinde affatto dall’utilizzo, per esempio a fini comunicativi e di immagine, di aspetti della vita privata. Nel caso di Berlusconi, poi, quest’utilizzo è stato sempre massiccio: che si trattasse del Milan o delle canzoni di Apicella, di residenze in Sardegna o di starlette televisive, di passione per il giardinaggio o di interventi tricologici, non c’è quasi nulla delle giornate di Berlusconi che non abbia meritato attenzione e considerazione da parte dell’opinione pubblica.

Ma, pur essendo questa la condizione ed il contesto, pur ricordando tutti, che so, i sigari di Clinton o le cameriere di Strauss Kahn e gli esiti diversi di vicende diverse, in cui però sempre succede che storie di sesso si mescolano all’esercizio, all’uso e all’abuso del potere, pur non volendo né dire in forma assolutoria né negare in forma ipocrita che così va il mondo, sta il fatto che le società liberal-democratiche tendono a considerare sempre lecito che per un individuo, per qualunque individuo, l’ultima risposta alla domanda su cosa combini di sera o di notte, con la moglie o con l’amante, nudo o travestito, possa essere: sono affaracci miei. Gli «affari miei», insomma, devono poter esistere. La possibilità che non siano interamente assorbiti dagli affari pubblici pure. Il filosofo Jean Jacques Rousseau se ne rammaricava, e con lui se ne rammaricava pure Marx: avrebbero voluto che le due figure, quella del borghese e quella del cittadino, non si separassero mai, e invece è andata diversamente: si sono separate. Il fatto che non tutto fili sempre liscio, che un ambito prema sull’altro ora più ora meno, e che le due sfere non si vedano riconosciute in ogni epoca la stessa ampiezza e lo stesso raggio d’azione, tutto ciò non tocca il principio della distinzione, se e finché il quadro giuridico e ordinamentale liberale tiene. Sarà una finzione, ma è una finzione necessaria. E per quanto Silvio Berlusconi abbia raccontato lui stesso tutto o quasi del papà e della mamma, e per quanto abbia giurato sulla testa dei figli o litigato con la moglie a mezzo stampa, per quanto infine abbia sempre voluto circondarsi di belle donne mai risparmiandosi complimenti e apprezzamenti un po’ oltre il bon ton, pure lui deve poter dire: sono (erano) affari miei. E deve poter opporre questa parola a un giornalista invadente così come a un magistrato inquirente.

Saggezza della lingua italiana (come anche di altre lingue, in verità)! L’italiano dispone infatti di due registri di parole. Può dire infatti morale e può dire etica. In linea di principio i due termini sono sinonimi. Di origine latina l’uno, greco l’altro. Ma siccome sono due, i filosofi si sono industriati nel dare ad essi significati distinti. E così vi è la possibilità di intendere per l’appunto con «morale» tutto ciò che riguarda la condotta individuale e privata, e per «etica» quanto invece concerne la sfera pubblica. Due famiglie di parole, due dimensioni della vita e della politica da tenere distinte. L’indistinzione non genera solo confusione, ma illibertà. E in un’aula di tribunale ancora di più.

Ora, sarà ufficio degli storici dire quanto la vicenda abbia pesato sulla fortuna o sfortuna politica del Cavaliere, sulla caduta del governo, sulle difficoltà internazionali dell’Italia, sullo spread. (O anche, in altro modo, sulle tirature dei giornali, va da sé). I biografi diranno pure che qualcuno dell’entourage che consigli a Berlusconi di non lasciarsi troppo andare ci vuole: ci voleva allora e magari ci vuole ancora adesso. Ma intanto diamo a Cesare quel che è di Cesare, e per una volta almeno pazienza se Cesare ha trascurato la moglie: sono, evidentemente, affari suoi.

Il Mattino, 12 marzo 2015

 

La vera morte dei campioni da reality

SCONTRO TRA ELICOTTERI, STRAGE AL REALITY FRANCESE

Muore giovane chi è caro agli dèi. Camille Muffat, nuotatrice, campionessa olimpionica; Florence Arthaud, leggenda della vela; Alexis Vastine, pugile, vicecampione europeo categoria welter: tutti francesi, tutti partecipanti a un reality show, sono morti prima del tempo, tragicamente, nello scontro fra due elicotteri, sopra i cieli dell’Argentina. Gli dèi che li hanno chiamati a sé non sono dèi antichi, ma modernissimi. Sono le divinità che presiedono allo spettacolo, sono i numi tutelari del format che ha cambiato il palinsesto delle televisioni negli ultimi anni, il reality. Proprio come gli dèi antichi, però, chiedono anch’essi crudeli sacrifici in loro nome.

I tre atleti francesi sono morti in realtà per una terribile fatalità, come si dice con parole forse rivelatrici. Si pensa infatti che l’incidente, la cui dinamica non è stata ancora chiarita, sia stato frutto del caso, oppure di qualche errore umano, eppure si chiama in causa il fato. Cioè il destino, cioè la necessità.

Non era ovviamente necessario che i tre atleti fossero su quel velivolo, e che perissero nell’incidente molte vite: non faceva parte di alcun copione, non rientrava nei contratti sottoscritti al momento della partecipazione, non era richiesto dallo show business. Ma se uno vuole provare a descrivere come funziona il nostro mondo, e quali storie acquistano in esso un valore quasi esemplare, allora ha nel mortale epilogo dell’avventura argentina dei tre campioni francesi di che scrivere, di che raccontare, di che ricordare. Ha la nuova forma della memorabilità, che è anzitutto lo spettacolo televisivo ad assicurare a chi, baciato non dalla fortuna ma dalla telecamera, entra a farne parte. Non si spiega altrimenti perché tre personaggi dello sport, che avevano già guadagnato prestigiosissime ribalte nazionali e internazionali, ed avevano già raggiunto livelli di assoluta eccellenza nelle rispettive discipline, abbiano accettato di partecipare ad un reality: non cioè ad una sfida vera, come quelle provate sul ring, in vasca o nel vasto mare aperto, sfide in cui il loro fisico fosse sottoposto a nuove prove, impegnato a stabilire nuovi record o a conseguire nuove, epiche imprese, ma ad uno show, in cui vi è tanta realtà quanta può ricrearne un’accorta regia televisiva e una buona squadra di autori.

Sul senso della loro vita sportiva ha finito così con l’imprimersi il sigillo tragico e sfavillante di una morte spettacolare. Non una morte in diretta, a beneficio del pubblico, ma una morta ammansita comunque dalle leggi della produzione televisiva, per il tramite delle sue esigenze logistiche: l’organizzazione, gli spostamenti, la location. È nel centro di questa scena allestita per il reality che è piombata improvvisa la morte, la morte vera.

Nel celebrato saggio sulla società dello spettacolo, apparso la prima volta ormai quasi cinquant’anni fa (e infinite volte da allora citato) Guy Debord parla dei «détournements», cioè dei capovolgimenti e dei rovesciamenti che costituiscono la norma invertita del nostro mondo, per cui le immagini finiscono col diventare più vere del vero, più reali del reale, più attuali di ogni attualità. Le immagini spettacolari che riempiono le nostre vite costituiscono cioè il modo e il luogo in cui si nasconde la realtà, i rapporti reali di forze (che per Debord erano rapporti di classe); ma il nascondimento non riuscirebbe se quelle immagini non fossero, nella loro falsità, vere, cioè efficaci, effettive, fornitrici di esperienza e di senso. Quel che per Debord riguarda anzitutto la sfera materiale della produzione – i beni, le merci – non ha però mai smesso di allargarsi fino a comprendere e a riprodurre sul piano spettacolare i momenti fondamentali dell’esistenza: la nascita, il cibo, il sesso, la morte. Tutto viene risucchiato dalla stessa logica.

Nel suo saggio, Debord notava anche un’altra cosa, che la nuova religione dello spettacolo, a differenza dell’antica religione, si fonda non sul divieto ma sul permesso: promette ciò che ognuno può fare. Da questo punto di vista, il reality mostra davvero l’essenza di questo nuovo culto, offrendo allo sguardo della telecamera una vita ordinaria, oppure una vita eccezionale, come quella di un campione, abbassata però nella stessa situazione in cui è trascinata anche una vita ordinaria. Fa della celebrità una vita qualunque, e di una vita qualunque una celebrità, in entrambi i casi imponendo la propria verità rovesciata, il senso la durata e la significazione di uno spettacolo.

Finché non sopraggiunge la morte, la morte vera, e non si rimane dinanzi alla domanda se non vi sia infine qualcosa il cui significato ultimo né gli uomini, né gli dei, né gli eroi di una volta né i personaggi di oggi possono davvero riuscire a rovesciare.

(Il Mattino, 11 marzo 2015)

La giusta misura delle parole

6155491802_99fd05d9ec_zLa nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici, attesa da molti anni e finalmente approvata dal Parlamento, ha ispirato alcune delle parole che il presidente della Repubblica ha rivolto ai magistrati in tirocinio, ricevuti ieri al Quirinale alla presenza del ministro della giustizia Orlando, che quella riforma ha fortemente voluto. Parole pacate e piene di misura, prive di toni polemici, estranee ad allarmi e preoccupazioni ingiustificate, che pure si sono ascoltate da parte della magistratura organizzata ma che il Capo dello Stato non ha ritenuto evidentemente di accogliere. Ai magistrati è affidato un compito difficile, ha detto infatti Mattarella: si tratta di assicurare «l’osservanza della legalità democratica», ma anche «il rispetto dei diritti e delle libertà individuali». Di questo rispetto fa parte la possibilità, per il cittadino che avesse patito un danno ingiusto, di rivolgersi allo Stato per essere risarcito. La nuova legge prevede infatti che sia lo Stato a rivalersi sul magistrato: non include dunque la possibilità di un’azione diretta, ma amplia indubbiamente le possibilità di ricorso da parte dei cittadini, ed elimina il filtro preliminare di ammissibilità che, di fatto, vanificava gran parte delle azioni risarcitorie. Mattarella ha parlato perciò di una disciplina fattasi «più stringente», perché comprende anche, tra i motivi rilevanti ai fini della responsabilità civile dei magistrati, la colpa grave in caso di violazione manifesta della legge o di travisamento del fatto e delle prove.

C’è il rischio che i magistrati si sentano intimiditi e che rinuncino a fare giustizia per non esporsi a misure ritorsive? C’è da temere, insomma, per la serenità del loro lavoro? Forse tanto quanto vi è da temere per la tranquillità di un medico tutte le volte che entra in una sala operatoria, essendo anch’egli sempre esposto (anzi: ancor più direttamente esposto) ad azioni legali da parte del paziente stesso o dei suoi familiari. Per l’uno e per l’altro valgono infatti le doti richiamate ieri dal Presidente: «professionalità, dedizione, credibilità, autorevolezza, senso di responsabilità». In possesso di queste doti, non c’è magistrato (come non c’è medico) che devierà dal proprio dovere e dalle proprie convinzioni – «sempre aperte al dubbio», ha sottolineato Mattarella – per non cacciarsi nei guai, o per tema di rivalsa, o per paura di contenziosi o per qualunque altra ragione. D’altra parte, come non rilevare che la riforma affida ad altri magistrati il vaglio dell’azione eventualmente intentata per malagiustizia? Come non pensare, allora, e come può l’Anm non pensare che la responsabilità civile dei magistrati è in buone mani, perché, dopo tutto, sono pure quelle mani di magistrati? Anche l’autonomia e l’indipendenza sono così «pienamente» tutelate, come ha ribadito ieri il Capo dello Stato, richiamandosi ai valori costituzionali.

Ma Mattarella ha poi aggiunto anche un’altra considerazione, preziosa e abbastanza inconsueta, di cui non sempre si sono scorte tracce nei comportamenti e nei giudizi resi nella discussione sulla riforma della responsabilità civile. Il potere di cui dispone un magistrato è un potere «penetrante». Penetrante significa, traduciamo così, che una vita intera può essere rovinata da una disavventura processuale. Non è allora indispensabile connettere una responsabilità concreta ed effettiva all’esercizio di questo potere? Ad un tale potere, ha continuato perciò il presidente della Repubblica, deve «sapersi accompagnare, a bilanciamento, l’umiltà, vale a dire la costante attenzione alle conseguenze del proprio agire professionale». La nuova disciplina prova a introdurre non l’umiltà, che è una dote morale, ma almeno un minimo di bilanciamento: non si può dire infatti che la precedente legge Vassalli lo prevedesse, a giudicare dal limitatissimo numero di casi in cui un risarcimento è stato effettivamente comminato.

Tutto questo non basta ancora a giudicare gli effetti della nuova normativa: ma quelli non possono evidentemente essere giudicati prima che essa entri in vigore. Mattarella ha perciò citato con approvazione la precisazione del ministro della Giustizia nell’aula del Parlamento: «andranno attentamente valutati gli effetti concreti dell’applicazione della nuova legge». Questa valutazione è indispensabile, data la delicatezza delle funzioni affidate alla magistratura. Ma è in generale un principio che appartiene alla scienza e alla tecnica della legislazione, tanto più importante quanto più rilevante è la materia da valutare. Un principio, affidandosi al quale si priva la riforma di quegli elementi ideologici che in maniera del tutto impropria gli sono stati attribuiti nel fuoco delle polemiche che ne hanno proceduto l’approvazione, quasi che si trattasse di impartire una lezione ai magistrati o di dare un segnale politico. L’unico segnale che si tratta di dare è verso i cittadini, nella difesa delle loro libertà e dei loro diritti, contro ogni genere di abuso. E non c’è stata parola, usata ieri dal Presidente Mattarella, che non servisse a questo scopo. Con pacatezza, certo, ma anche con la giusta fermezza.

(Il Mattino, 10 marzo 2015)

Grillo, la svolta verso i delusi della sinistra

due pennuti

L’elezione del Presidente della Repubblica ha avuto, tra gli altri effetti, quello di spingere le forze politiche italiane a riposizionarsi. Rispetto all’ultima stagione più o meno emergenziale di Napolitano – il governo Monti, il governo Letta, i primi mesi di Renzi – la nuova fase è segnata da una maggiore stabilità. Le scadenze politiche e istituzionali più impegnative sono infatti alle spalle: manca, è vero, l’appuntamento con il voto delle regioni, ma da quel voto (di prevalente marca amministrativa) è difficile attendersi novità dirompenti, comunque vadano le cose nelle due regioni più in bilico, la Campania e il Veneto. Superata la prova del Colle, Matteo Renzi promette dunque di durare. Sembra averne non solo l’intenzione, ma anche l’interesse.

Di rimbalzo, all’opposizione tocca organizzarsi, di qui in avanti, per i tempi lunghi della legislatura. Ieri Beppe Grillo ha preso atto che nel Parlamento, che voleva aprire come una scatoletta di tonno, deve rimanerci dentro a lungo. Nel frattempo, a destra, a far la voce grossa in piazza è sceso anche Salvini. Con la crisi economica e le difficoltà con l’Unione europea di paesi come l’Italia, i temi federalisti e secessionisti della Lega rischiavano di apparire infatti incomprensibili. Salvini ha spostato di conseguenza il focus della polemica politica. Essendosi chiamata fuori per tempo da responsabilità di governo, ha deciso di mettersi su un altro cammino: raccogliere intorno a sé tutti i malcontenti, le frustrazioni e i risentimenti comportati dai vincoli europei, dalle politiche di bilancio, dalle riforme strutturali, dalla moneta unica, e dare ad essi una forte impronta populista e nazionalista, contando anche sul fatto che nel frattempo si è resa sempre meno percepibile la proposta politica di Forza Italia. Berlusconi non sa ancora dove andare: se sulla sponda moderata, insieme con Alfano e il popolarismo europeo, oppure su quella radicale che Salvini oggi capeggia con disinvoltura. Le contraddizioni che il Cavaliere del buon tempo andato poteva bellamente ignorare – saldando tutto insieme nei contenitori volta a volta inventati allo scopo (il Polo del Buongoverno, la Casa delle libertà, il Popolo della Libertà) – ora che è debole e periclitante gli sottraggono spazio politico. I due o tre ingredienti di cui era fatto il centrodestra italiano stanno ormai in pezzi separati: il moderatismo con Alfano, il populismo con Salvini, il liberismo con quel che resta di Forza Italia. E quello che sotto la felpa gonfia di più il petto, Salvini, tende a oscurare gli altri due.

E tende a oscurare pure Grillo, la cui vena polemica, anti-casta, anti-ladri, anti-politica, anti-Bruxelles, anti-immigrati, rischia di non avere uno sbocco proprio, ben distinto e riconoscibile. Il numero di vaffa che Matteo Salvini è pronto a dire, infatti, supera ormai quello di cui dispone il primo inventore del Vaffa Day.

Così Grillo ha cominciato a cercare uno spazio politico più definito alla sinistra del governo, provando a egemonizzare quel che rimane fuori o è marginalizzato dalla narrazione renziana: Sel, la minoranza Pd, la sinistra radicale. Al Corriere della Sera ha affidato la sua proposta. Due punti, considerati strategici: il referendum sull’euro e il reddito di cittadinanza. Il primo punto accomuna le forze populiste e sovraniste in giro per il continente; il secondo qualifica a sinistra l’opposizione a Cinque Stelle. Grillo chiama in realtà reddito di cittadinanza una cosa che somiglia piuttosto a un reddito minimo garantito (limitato nel tempo e subordinato alla disponibilità ad inserirsi nel tessuto lavorativo), ma l’intenzione è chiara: fare a sinistra quel che con gli esodati e la critica alla riforma Fornero fa a destra Salvini. Sul piano parlamentare, Grillo cerca poi di ampliare le crepe nel Pd. Dialogare sulla riforma della Rai serve a quello.

Ma la novità non è nei contenuti, bensì nella musica che con quei contenuti Grillo prova a suonare. L’indignazione morale contro sprechi e corruzione, privilegi e abusi, rimane il basso continuo, ma si aggiunge un’altra nota. Il Movimento Cinque Stelle sta dalla parte dei poveri, non solo degli onesti. La povertà, dice Grillo al Corriere, è una malattia e non una colpa. La preoccupazione sociale, così, si sposta: ai piccoli proprietari, piccoli imprenditori, piccoli artigiani, si aggiunge un più generico sfondo di emarginazione, disoccupazione ed esclusione sociale. E Grillo prova così a giocare da sinistra la carta populista della contrapposizione all’Europa dei banchieri, ma anche ai grandi interessi industriali e al jobs act, scommettendo sul fatto che lungo questa strada troverà qualche alleato in più, e che intanto le riforme di Renzi produrranno più scontenti che contenti.

Il populismo, peraltro, non è detto che sia una cattiva parola: lo diventa, però, se il riformismo al governo dà buoni frutti. E questa è, in effetti, la sfida: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 5 marzo 2015)

 

Un voto contro i censori

imagesVincenzo De Luca può festeggiare: le primarie alle quali secondo gli organismi dirigenti del Pd non era opportuno che partecipasse sono state vinte dal sindaco di Salerno. Nonostante la condanna e nonostante il partito. A conti fatti, i due «nonostante» si sono volti in altrettanti punti a favore di De Luca, non contro. Per il Pd c’è di che riflettere. E forse anche per il Paese intero, se l’argomento usato da De Luca in campagna elettorale è riuscito convincente: quella condanna, ha detto, è una medaglia sul petto. Agli occhi dell’elettorato, conta evidentemente più la prova amministrativa di un abuso d’ufficio.

E ha vinto, De Luca, nonostante pure Saviano fosse intervenuto il giorno prima del voto per rovinare la festa: a lui, a Cozzolino e a tutti gli elettori delle primarie di centrosinistra. Nel giorno tradizionalmente riservato al silenzio e alla riflessione pre-elettorale, Saviano ha detto che in Campania non bisognava andare a votare. Ora, Roberto Saviano sa che con le sue parole, con i suoi appelli, si fanno i titoli di apertura dei giornali. Non c’è testata online che non le abbia riportate e rilanciate. Il più clamoroso inquinamento del processo democratico, a questo giro, è stato dunque il suo. Ci si può girare attorno quanto si vuole – i brogli dell’altra volta, il voto di scambio, il cosentinismo, l’impresentabilità di un condannato – ma Roberto Saviano, con tono sofferto, con aria grave, con parole pensose, ha detto a sei milioni di campani che la democrazia, gli dispiace, ma non fa per loro. Di più: ha provato a mettere al di sopra del voto, che siamo abituati a considerare l’istanza più alta e inviolabile, un’altra istanza, assolutamente monocratica: la sua. E con indiscussa autorità morale (indiscussa perché a discuterla si passa automaticamente per farabutti) ha giudicato – prima ancora che le primarie si svolgessero, che si costituissero i seggi, che si aprissero le urne, che si spogliassero le schede – che il voto di ieri non è un voto democratico, non può essere un voto regolare, non può passare per un voto sincero. È una «scorciatoia». Ha detto proprio così: il voto è una scorciatoia. Chi ha votato ha dunque legittimato un sistema che il più onesto scrittore vivente ritiene evidentemente marcio, indecente e irriformabile. Poiché la sua opinione sui dirigenti di partito che hanno affidato a questa sistema la scelta del candidato governatore non può essere molto diversa, e poiché non è diversa neppure l’opinione che Saviano ha del centrodestra, l’unica maniera di fare le cose pulite sarebbe stata quella di far scegliere direttamente a lui – a lui Roberto Saviano – il governatore della regione. Nessuno avrebbe avuto dubbi: avremmo avuto finalmente a Palazzo Santa Lucia un irreprensibile cavaliere della morale, senza macchia e senza paura, ma avremmo avuto anche la sospensione della democrazia per tutto il tempo che Saviano medesimo avesse ritenuto necessario.

Invece si è votato, con un’affluenza non eccezionale, ma buona: intorno ai centocinquantamila votanti. E il voto – assicurato, non dimentichiamolo, su base volontaria da centinaia e centinaia di militanti – è filato via liscio. È il primo, importante risultato, il primo motivo di soddisfazione per il centrosinistra dopo mille tribolazioni, mille tentennamenti, rinvii e ritardi. Da questo momento, il centrosinistra è pronto ad affrontare la partita con Caldoro e il centrodestra, avendo sanzionato col suffragio popolare la scelta dello sfidante. Non è poco, e non era scontato. Come sempre accade dopo un voto sofferto, il primo problema della coalizione è trovare l’unità intorno al nome del vincitore, ma questa volta è possibile che sarà meno difficile di altre volte, visto che le principali tensioni, interne ed esterne al Pd, si sono scaricate già durante i mesi e le settimane dell’imbarazzata campagna elettorale. Se c’è ancora imbarazzo (visto che, allo stato, la legge Severino non consente a De Luca di entrare in carica, qualora vincesse le elezioni regionali) è bene che il Pd pensi subito, in un modo o nell’altro, a superarlo: il vincitore di ieri, in ogni caso, non ne nutre neanche un po’.

Quanto all’opinione pubblica – che, non dimentichiamo neanche questo, conta meno, non più del voto –, essa si è mostrata sin qui parecchio prevenuta. Sicuramente per il timore di brogli, ma non solo. L’altro giudizio, o pregiudizio, che ha pesato sulla competizione ha riguardato lo spartiacque vecchio/nuovo con il quale si è abituati a valutare forse con troppa sufficienza le proposte politiche in campo. Il fatto è che De Luca (come del resto Cozzolino), con trent’anni di vita politica alle spalle, tutto può rappresentare meno che il nuovo. Di qui un eccesso di sfiducia che, a conti fatti, ha sembrato riguardare più un sottile strato di cosiddetti «opinion leader» che la maggior parte degli elettori di centrosinistra. Ai quali non è affatto parso inutile scegliere fra l’esperienza amministrativa del sindaco di Salerno De Luca, e l’esperienza di governo di Andrea Cozzolino, prima assessore con Bassolino poi europarlamentare. E hanno scelto senza incertezze De Luca: per la sua storia di sindaco, ma più ancora per il piglio con cui interpreta il ruolo, per il carattere pronunciato di una leadership che non sembra ancora destinata a tramontare. Nonostante l’età, la condanna, la decadenza, l’avversione di Roma e pure, da ultimo, quella di Roberto Saviano. Ma siamo realisti: c’è qualcuno, nel centrosinistra campano, che poteva offrire di più in termini di personalità e di consenso? Che poi questo risultato basti a vincere anche la sfida di maggio, questo ovviamente è ancora da dimostrare, ma il primo passo per la sua personale rivincita contro Caldoro De Luca lo ha già compiuto.

(Il Mattino, 2 marzo 2015)

Un brutto film. Speriamo nei titoli di coda

via col vento

Non è il momento di fare previsioni sulle primarie: sarà il risultato a decidere chi ha vinto e chi ha perso, e non il confronto con le precedenti aspettative dell’uno, dell’altro o dell’opinione pubblica. Tolto il socialista Di Lello, che mantiene alla sfida il carattere di un confronto all’interno della coalizione di centrosinistra e non del solo Pd, sia il sindaco Vincenzo De Luca che l’europarlamentare Andrea Cozzolino puntano infatti alla vittoria. Così la sera di domenica, al di là di dichiarazioni di rito, di parole di circostanza, di ringraziamenti agli elettori, di risultati comunque «straordinari» (si dice sempre così), uno avrà vinto e l’altro, inevitabilmente, avrà perso. In attesa di sapere chi, riavvolgiamo il film, e diamo un ultimo sguardo ai principali fotogrammi che il partito democratico, sotto una confusa regia, ha mandato in onda fin qui.

Primo fotogramma: titoli di testa. Il Pd sbanca alle elezioni europee. Nella circoscrizione meridionale, Pina Picierno supera quota duecentomila preferenze. In Campania va oltre le centomila preferenze. Il rinnovamento, la nuova classe dirigente meridionale sembra aver trovato finalmente un punto di partenza. Di Pina Picierno candidata alla guida della Campania si comincia infatti a parlare subito. Ma altrettanto rapidamente si smetterà. Nonostante i voti consegnatigli a maggio, non c’è praticamente nessuno che la consideri forte abbastanza. O adatta per il ruolo. E così, prima ancora che il film abbia inizio, il Pd perde il candidato giovane-donna-renziano su cui sembrava voler puntare.

Secondo fotogramma: lo start. Il Pd campano dà avvio alla corsa. Quando lo fa, non c’è nessuno, ma proprio nessuno che pensi che si possa procedere in altra maniera. Le primarie sono il «mito fondativo» del Pd, e ogni novità, ogni nuova leadership – da Veltroni a Renzi, passando per lo stesso Bersani – si è forgiata così. D’altra parte, le strutture di partito regionale non offrivano (e non offrono ancora) sufficiente forza di legittimazione. Bisogna dunque rivolgersi agli elettori: le primarie s’hanno da fare. E devono essere aperte, per cercare nel rapporto con la società, non tra i signori delle tessere, il battesimo della rinascita. Questa, almeno, è la sceneggiatura. Ma gli attori reali interpreteranno un altro film.

Terza inquadratura: la Fonderia. La ricordate? Un pezzo del Pd campano tiene a Napoli una simil-Leopolda, un incontro giovane-dinamico-aperto-mediatico per buttarsi alle spalle il passato e intercettare l’onda lunga del renzismo. Succede però che a strappare la scena e a rubare applausi siano non i giovani, non i brillanti organizzatori della kermesse, Nicodemo o la Picierno, ma De Luca da una parte e Bassolino dall’altra, leader con circa trenta (diconsi trenta) anni di esercizio di leadership per ciascuno. Insomma: il nuovo rischia subito di finire soffocato in culla. Naturalmente la partita non è già chiusa, ma per la verità non sembra neppure incominciare. Perché dalla Fonderia non viene fuori un candidato uno, che sia buono per le primarie, e in lizza scendono invece Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino. Raccolgono le firme e si presentano. Tutte le altre tribù del Pd, nel frattempo, storcono il naso e affilano i coltelli.

Terzo fotogramma: la lettera. La lettera la scrive Marco Di Lello, per chiedere al Pd, un minuto prima del via, primarie di coalizione. Forse la lettera ha un mandante romano, forse no: in ogni caso è il primo di quattro rinvii, e da quel momento in poi la storia delle primarie si allunga, si complica, si inceppa, si aggroviglia. Non è certo l’allargamento alle altre forze di coalizione il problema, ma la ricerca di una candidatura alternativa. Una candidatura, stavolta, non per le primarie, ma per non fare le primarie. La candidatura agognata viene proclamata retoricamente come «unitaria», senza forse avvedersi che in questo modo ci si candida a fare il rovescio di quello che si era cercato di fare con la Fonderia (il nuovo, la rottura, la discontinuità). E naturalmente la ricerca si fa subito lunga, faticosa, complessa. Viene condotta fra Napoli e Roma, in un gioco di sponda fra segreteria regionale e segreteria nazionale che funziona molto poco. Napoli spera che sia Roma a togliere le castagne dal fuoco, Roma spera che sia Napoli.

Una castagna però prende a scottare più di tutte: Vincenzo De Luca (quarto fotogramma: la condanna). Perché De Luca si becca, tra un rinvio delle primarie e l’altro, una condanna in primo grado che per effetto della legge Severino è una tagliola micidiale. Sarà pure candidabile ed eleggibile, se dovesse vincere, ma decadrà un minuto dopo l’elezione. Quale partito, pensi pure tutto il bene possibile di De Luca e tutto il male possibile della legge Severino, si può permettere di infilarsi in un casino simile? (E quale Regione, soprattutto?). Ma lo statuto del Pd – che di norme cervellotiche ne contiene più d’una, ivi compresa quella che fa ballare tutti, cioè la possibilità di indire-e-poi-annullare le primarie, con il consenso di due terzi della Direzione – lo statuto non dice nulla al proposito, e De Luca va avanti. Imperterrito. Secondo lo schema che gli è più familiare: da una parte il «circo equestre» del partito, dall’altra Lui (e la maiuscola la merita sia per la piccolezza altrui, che per altro).

Quinto fotogramma: «vai mo’». Nel frattempo, vanificato ogni altro tentativo, Gennaro Migliore, entrato di corsa nel Pd e già star della Fonderia, ha rotto gli indugi. Si è candidato a reti unificate, con un’intervista a tutti i giornali, dando o volendo dare l’impressione che, finalmente, lo sforzo unitario responsabile fino ad allora solo di ritardi, rinvii e polemiche, ha trovato compimento. Lui ci crede: ha il sospirato avallo di Roma, anche se Renzi preferisce non esporsi. In realtà, si vede subito che il nome non è unitario abbastanza da convincere gli altri candidati a farsi da parte. Più che l’unità, attorno a Migliore c’è il traccheggiamento. Né a lui riesce di spostare i due terzi della direzione regionale, per annullare la competizione. Così la confusione aumenta: Migliore decide di proseguire, convinto di portarsi dietro il partito, ma dietro, davanti o di lato, il partito non c’è. Tutto il film girato fin qui lo dimostra: il partito non c’è, anche se ci sono le correnti, cioè i pezzi che lo compongono e che più volentieri lo scompongono, secondo dinamiche personali e clientelari che di vincoli di partito ne conoscono ormai ben pochi. Migliore scende dunque in campo, mentre prosegue come prima, più di prima, la caccia al nome unitario.

Sesto fotogramma (con flashback): il sogno proibito. Cioè Raffaele Cantone. Quasi una trama parallela. Perché il Presidente dell’anticorruzione, da poco insediatosi, non ci ha mai pensato, anche se in molti hanno pensato a lui: all’inizio di questa vicenda, tra un rinvio e l’altro, nelle ultime giornate: Ottenendo però sempre lo stesso risultato, un diniego. E in questo modo dimostrando che la costruzione di una classe dirigente non è ancora cominciata, se si va in cerca di supplenze, per quanto autorevoli. Alla stessa logica rispondeva il nome del ministro Orlando, o da ultimo quello di Nicolais. Al posto del lavoro dal basso, e di lunga lena, il jolly calato dall’alto, e fuori tempo massimo. Non poteva funzionare, e non ha funzionato.

Settimo e ultimo fotogramma: il gatto e la volpe. Cioè Paolucci e Vaccaro, i due esponenti del Pd che non si sono rassegnati alla sfida fra De Luca e Cozzolino e in questi giorni hanno rumorosamente sbattuto la porta, per i brogli e gli inquinamenti che a loro dire rischiano di alterare la competizione. Della loro società ci si può fidare, per dirla con la canzone di Bennato? Molto poco. In realtà, sono semplicemente rimasti tagliati fuori dagli accordi stretti nelle ultime ore dai candidati, dopo il ritiro di Migliore. Perché il Pd continua per lo più a funzionare così: attraverso accordi più o meno leonini e patti più o meno capestro. D’altronde queste primarie, così poco combattute in termini di programma e di idee, non hanno certo favorito fin qui l’auspicato ampliamento della platea elettorale. Se la narrazione delle primarie deve appassionare la società civile, bisogna che ci pensi qualcun altro a stendere lo script.

Sui titoli di coda forse ce ne si sta rendendo conto, e si comincia a pensare che sarebbe stato meglio girare un altro film. Ma tutto ora dipende dai dati della partecipazione e dal regolare andamento del voto. Se il Pd supera questa prova, pur avendo voluto in ogni modo evitarla, forse stavolta un punto di partenza ce l’ha davvero.

(Il mattino, 1 marzo 2015 – in versione integrale)