Muore giovane chi è caro agli dèi. Camille Muffat, nuotatrice, campionessa olimpionica; Florence Arthaud, leggenda della vela; Alexis Vastine, pugile, vicecampione europeo categoria welter: tutti francesi, tutti partecipanti a un reality show, sono morti prima del tempo, tragicamente, nello scontro fra due elicotteri, sopra i cieli dell’Argentina. Gli dèi che li hanno chiamati a sé non sono dèi antichi, ma modernissimi. Sono le divinità che presiedono allo spettacolo, sono i numi tutelari del format che ha cambiato il palinsesto delle televisioni negli ultimi anni, il reality. Proprio come gli dèi antichi, però, chiedono anch’essi crudeli sacrifici in loro nome.
I tre atleti francesi sono morti in realtà per una terribile fatalità, come si dice con parole forse rivelatrici. Si pensa infatti che l’incidente, la cui dinamica non è stata ancora chiarita, sia stato frutto del caso, oppure di qualche errore umano, eppure si chiama in causa il fato. Cioè il destino, cioè la necessità.
Non era ovviamente necessario che i tre atleti fossero su quel velivolo, e che perissero nell’incidente molte vite: non faceva parte di alcun copione, non rientrava nei contratti sottoscritti al momento della partecipazione, non era richiesto dallo show business. Ma se uno vuole provare a descrivere come funziona il nostro mondo, e quali storie acquistano in esso un valore quasi esemplare, allora ha nel mortale epilogo dell’avventura argentina dei tre campioni francesi di che scrivere, di che raccontare, di che ricordare. Ha la nuova forma della memorabilità, che è anzitutto lo spettacolo televisivo ad assicurare a chi, baciato non dalla fortuna ma dalla telecamera, entra a farne parte. Non si spiega altrimenti perché tre personaggi dello sport, che avevano già guadagnato prestigiosissime ribalte nazionali e internazionali, ed avevano già raggiunto livelli di assoluta eccellenza nelle rispettive discipline, abbiano accettato di partecipare ad un reality: non cioè ad una sfida vera, come quelle provate sul ring, in vasca o nel vasto mare aperto, sfide in cui il loro fisico fosse sottoposto a nuove prove, impegnato a stabilire nuovi record o a conseguire nuove, epiche imprese, ma ad uno show, in cui vi è tanta realtà quanta può ricrearne un’accorta regia televisiva e una buona squadra di autori.
Sul senso della loro vita sportiva ha finito così con l’imprimersi il sigillo tragico e sfavillante di una morte spettacolare. Non una morte in diretta, a beneficio del pubblico, ma una morta ammansita comunque dalle leggi della produzione televisiva, per il tramite delle sue esigenze logistiche: l’organizzazione, gli spostamenti, la location. È nel centro di questa scena allestita per il reality che è piombata improvvisa la morte, la morte vera.
Nel celebrato saggio sulla società dello spettacolo, apparso la prima volta ormai quasi cinquant’anni fa (e infinite volte da allora citato) Guy Debord parla dei «détournements», cioè dei capovolgimenti e dei rovesciamenti che costituiscono la norma invertita del nostro mondo, per cui le immagini finiscono col diventare più vere del vero, più reali del reale, più attuali di ogni attualità. Le immagini spettacolari che riempiono le nostre vite costituiscono cioè il modo e il luogo in cui si nasconde la realtà, i rapporti reali di forze (che per Debord erano rapporti di classe); ma il nascondimento non riuscirebbe se quelle immagini non fossero, nella loro falsità, vere, cioè efficaci, effettive, fornitrici di esperienza e di senso. Quel che per Debord riguarda anzitutto la sfera materiale della produzione – i beni, le merci – non ha però mai smesso di allargarsi fino a comprendere e a riprodurre sul piano spettacolare i momenti fondamentali dell’esistenza: la nascita, il cibo, il sesso, la morte. Tutto viene risucchiato dalla stessa logica.
Nel suo saggio, Debord notava anche un’altra cosa, che la nuova religione dello spettacolo, a differenza dell’antica religione, si fonda non sul divieto ma sul permesso: promette ciò che ognuno può fare. Da questo punto di vista, il reality mostra davvero l’essenza di questo nuovo culto, offrendo allo sguardo della telecamera una vita ordinaria, oppure una vita eccezionale, come quella di un campione, abbassata però nella stessa situazione in cui è trascinata anche una vita ordinaria. Fa della celebrità una vita qualunque, e di una vita qualunque una celebrità, in entrambi i casi imponendo la propria verità rovesciata, il senso la durata e la significazione di uno spettacolo.
Finché non sopraggiunge la morte, la morte vera, e non si rimane dinanzi alla domanda se non vi sia infine qualcosa il cui significato ultimo né gli uomini, né gli dei, né gli eroi di una volta né i personaggi di oggi possono davvero riuscire a rovesciare.
(Il Mattino, 11 marzo 2015)