Con l’assoluzione in Cassazione, cala il sipario sulla vicenda Ruby, sulle «cene eleganti» o sul «bunga bunga»: come volete chiamarle. Comunque infatti si vogliano chiamare gli intrattenimenti serali dell’allora Presidente del Consiglio, una cosa la sentenza di ieri ha messo definitivamente in chiaro: trattasi di vicende private, che attengono alla morale privata. Non riguardano neppure il codice penale, evidentemente: cadono infatti sia l’accusa di concussione, sia quella di prostituzione minorile. Ma questo è solo (si fa per dire) l’esito processuale, favorevole al Cavaliere. Il risultato più complessivo è che si può provare a tracciare nuovamente una linea di demarcazione tra le scelte private di vita e i comportamenti pubblici di un leader politico.
Ovviamente, le cose non sono mai semplici. Vi sono anzi ragioni per dubitare che quella linea sia tracciabile con nettezza. Viviamo in tempi di sempre più estesa pubblicizzazione della sfera privata dell’esistenza: un pomeriggio davanti alla tv lo dimostra «ad abundantiam». La stessa costruzione della leadership politica non prescinde affatto dall’utilizzo, per esempio a fini comunicativi e di immagine, di aspetti della vita privata. Nel caso di Berlusconi, poi, quest’utilizzo è stato sempre massiccio: che si trattasse del Milan o delle canzoni di Apicella, di residenze in Sardegna o di starlette televisive, di passione per il giardinaggio o di interventi tricologici, non c’è quasi nulla delle giornate di Berlusconi che non abbia meritato attenzione e considerazione da parte dell’opinione pubblica.
Ma, pur essendo questa la condizione ed il contesto, pur ricordando tutti, che so, i sigari di Clinton o le cameriere di Strauss Kahn e gli esiti diversi di vicende diverse, in cui però sempre succede che storie di sesso si mescolano all’esercizio, all’uso e all’abuso del potere, pur non volendo né dire in forma assolutoria né negare in forma ipocrita che così va il mondo, sta il fatto che le società liberal-democratiche tendono a considerare sempre lecito che per un individuo, per qualunque individuo, l’ultima risposta alla domanda su cosa combini di sera o di notte, con la moglie o con l’amante, nudo o travestito, possa essere: sono affaracci miei. Gli «affari miei», insomma, devono poter esistere. La possibilità che non siano interamente assorbiti dagli affari pubblici pure. Il filosofo Jean Jacques Rousseau se ne rammaricava, e con lui se ne rammaricava pure Marx: avrebbero voluto che le due figure, quella del borghese e quella del cittadino, non si separassero mai, e invece è andata diversamente: si sono separate. Il fatto che non tutto fili sempre liscio, che un ambito prema sull’altro ora più ora meno, e che le due sfere non si vedano riconosciute in ogni epoca la stessa ampiezza e lo stesso raggio d’azione, tutto ciò non tocca il principio della distinzione, se e finché il quadro giuridico e ordinamentale liberale tiene. Sarà una finzione, ma è una finzione necessaria. E per quanto Silvio Berlusconi abbia raccontato lui stesso tutto o quasi del papà e della mamma, e per quanto abbia giurato sulla testa dei figli o litigato con la moglie a mezzo stampa, per quanto infine abbia sempre voluto circondarsi di belle donne mai risparmiandosi complimenti e apprezzamenti un po’ oltre il bon ton, pure lui deve poter dire: sono (erano) affari miei. E deve poter opporre questa parola a un giornalista invadente così come a un magistrato inquirente.
Saggezza della lingua italiana (come anche di altre lingue, in verità)! L’italiano dispone infatti di due registri di parole. Può dire infatti morale e può dire etica. In linea di principio i due termini sono sinonimi. Di origine latina l’uno, greco l’altro. Ma siccome sono due, i filosofi si sono industriati nel dare ad essi significati distinti. E così vi è la possibilità di intendere per l’appunto con «morale» tutto ciò che riguarda la condotta individuale e privata, e per «etica» quanto invece concerne la sfera pubblica. Due famiglie di parole, due dimensioni della vita e della politica da tenere distinte. L’indistinzione non genera solo confusione, ma illibertà. E in un’aula di tribunale ancora di più.
Ora, sarà ufficio degli storici dire quanto la vicenda abbia pesato sulla fortuna o sfortuna politica del Cavaliere, sulla caduta del governo, sulle difficoltà internazionali dell’Italia, sullo spread. (O anche, in altro modo, sulle tirature dei giornali, va da sé). I biografi diranno pure che qualcuno dell’entourage che consigli a Berlusconi di non lasciarsi troppo andare ci vuole: ci voleva allora e magari ci vuole ancora adesso. Ma intanto diamo a Cesare quel che è di Cesare, e per una volta almeno pazienza se Cesare ha trascurato la moglie: sono, evidentemente, affari suoi.
Il Mattino, 12 marzo 2015