L’ordinanza del gip che ha portato in carcere, fra gli altri, Ercole Incalza e Stefano Perotti – l’uno storico dirigente ai Lavori Pubblici, l’altro imprenditore – riguarda anche il ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi. Lo riguarda, in particolare, per via dell’incarico di lavoro che Perotti ha assegnato al figlio del ministro, e del Rolex d’oro regalatogli dallo stesso Perotti in occasione della laurea. Gli episodi non hanno, allo stato, alcuna rilevanza penale. Alcuna. Né, d’altra parte, Maurizio Lupi, o il figlio Luca, hanno ricevuto avvisi di garanzia. Ciò non toglie che il quadro complessivo che l’inchiesta sulle Grandi Opere disegna, nonché i fatti emersi entro «un articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori», pongono problemi di opportunità politica e richiedono sia al ministro che al governo nel suo insieme una riflessione attenta. In questa storia, non vi possono essere ombre.
Ma qualche riflessione spetta anche all’opinione pubblica. Si fa presto, infatti, a dire che non c’è nulla su cui riflettere, che i fatti parlano chiaro, che siamo alle solite, che l’Italia è un paese marcio fin nelle fondamenta e che la corruzione dilaga. Si fa presto, cioè, ad assecondare, anzi: a tambureggiare sull’onda di questo comune sentire. A trasformare una fase preliminare, che più preliminare non si può, in un giudizio definitivo. A riscrivere ancora una volta pagine e pagine di giornali con materiale ricavato da intercettazioni, diffuse a prescindere dalla loro rilevanza processuale. A ridurre al silenzio qualunque preoccupazione garantista, che in queste ore passa semplicemente per esercizio di ipocrisia, quando non per larvata connivenza. E invece bisogna avere anche in questa circostanza (tanto più in questa circostanza) la pazienza e l’ostinazione di ribadire che non c’è nulla di più liberale in un paese della divisione dei poteri, e che neanche il «quadro corruttivo» più preoccupante può spingere ad accantonarlo con indebite invasioni di campo, oppure con più o meno involontarie tracimazioni di indagini sui giornali.
Nel caso di Ettore Incalza, tuttavia, non si può fare come se non si sapesse ciò che si sa. O che già si sapeva. Vi sono state, infatti, prima delle decisioni della magistratura, prese di posizioni politiche e articoli di giornale. Domande, a cui sono state date risposte rivelatesi insufficienti. Ora, nulla autorizza a trasformare la decisa difesa di Incalza da parte del ministro Lupi, condotta nei mesi passati, in una chiamata in correità, come in particolare i grillini non esitano a fare: con totale indifferenza verso il quadro probatorio finora delineato dall’inchiesta e certezza tanto assoluta quanto pregiudiziale che ogni accusa è vera e fondata per il solo fatto che viene sollevata. Certo, però, nell’enorme circo mediatico-giudiziario in cui Lupi è ora trascinato, le parole spese a suo tempo da Lupi per confermare la bontà della scelta di continuare ad avvalersi di Ettore Incalza anche dopo il suo collocamento a riposo (e nonostante il coinvolgimento in indagini), pesano come macigni. Ma bisogna capire bene dove cade questo peso. Non si tratta infatti di un peso che gravi sul profilo processuale della vicenda, o che configuri allo stato responsabilità di qualche tipo per il ministro delle Infrastrutture. Si tratta invece di un peso che, evidentemente, l’Italia intera non riesce a smaltire e rimuovere: quello rappresentato dalla vischiosità dei rapporti fra decisore politico e alta burocrazia ministeriale. Non c’è neppure bisogno di supporre chissà quali trame di corruttela profonda e radicata per spiegare la permanenza negli incarichi, l’inamovibilità di certe figure, il grado di autonomia che acquistano e il potere che di fatto esercitano. A titolo di conseguenza, è ben possibile, e l’inchiesta di Firenze proverà a dimostrare che corruzione e reati contro la pubblica amministrazione allignano in questo sistema: ma il problema, prima ancora che dalle conseguenze, è rappresentato dal sistema. Cioè dalla formazione del tutto insoddisfacente per quantità e qualità di manager pubblici in grado di svolgere con la stessa professionalità e competenza, gli incarichi che un uomo come Incalza teneva nel suo pugno. Quando Lupi ne difende il profilo professionale, dice parole vere, non solo o non affatto opportunistiche. Ma la verità di queste parole, prima ancora di andare a difesa delle sue scelte, va a denuncia di tutte le insufficienze in cui l’Italia si dibatte da anni: una politica debole, sempre meno guarnita delle competenze e sempre più pronta ad accontentarsi di mettere i puntini sopra le decisioni prese altrove, spesso in maniera opaca, asfittica, e alla fine, purtroppo, anche torbida. C’è davvero materia per riflettere: lo farà il ministro Lupi, dobbiamo farlo anche noi.
(Il Mattino, 18 marzo 2015)