Archivi del giorno: marzo 21, 2015

«Dalle periferie al centro, la sfida della fratellanza nel nome della solidarietà»

20150321_090457Qualche giorno fa, Papa Francesco ha spiegato che «la realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Oggi il Pontefice è a Napoli, e comincia la sua visita dalla periferia della città, dalle vele di Scampia. Dopo la visita al santuario di Pompei, è lì infatti che Jorge Mario Bergoglio incontrerà per la prima volta i napoletani. Aldo Masullo riflette con un tratto di partecipazione, che si vena qua e là di amarezza, sulla giornata napoletana del Papa «venuto dalla fine del mondo». «In termini liturgici, si direbbe una via Crucis: Papa Francesco ha scelto di visitare i punti di maggior dolore e maggiore sofferenza della città: i poveri, i detenuti, gli ammalati. Scampia è un esempio». E non perde l’occasione di raccontare la storia del quartiere, le speranze deluse, le contraddizioni irrisolte, le «forze negative» che presto hanno prevalso. Masullo sottolinea più volte, nel corso della conversazione, il valore altissimo delle parole di Papa Francesco: la ricchezza spirituale, il tratto pastorale, la sensibilità sociale. In effetti, nel corso del XX secolo, il pensiero cristiano si è profondamente rinnovato, e accanto ad una teologia della Parola di Dio, che ha cercato di affermarne anzitutto la trascendenza e la specificità rispetto ai contesti storico-mondani ai quali è di volta in volta appartenuta, si è fatta presente una diversa preoccupazione: per la rilevanza, più che per l’identità della parola rivelata. Papa Bergoglio sembra esprimere, provo a dire, anzitutto questa preoccupazione, questo «movimento» teologico: un farsi più solidale con la storia degli uomini.

«Non c’è dubbio, lo si vede appunto dai luoghi che ha scelto di visitare, e dal significato delle sue scelte». Dopo Scampia, Francesco raggiungerà il carcere di Poggioreale: «la visita alle carceri, l’incontro con i detenuti, un altro luogo della sofferenza umana. Lo sono le carceri in generale, lo sono le carceri napoletane in particolare: anguste, vecchie, sovraffollate, un’altra stazione della via Crucis».

Il momento successivo, particolarmente atteso, sarà la visita al Duomo, dove pregherà sul sangue di San Gennaro. «Qui – continua il filosofo napoletano – il senso devozionale della pietà religiosa spicca con particolare forza, direi quasi con violenza: la violenza della passione religiosa. Il popolo napoletano si attende quel miracolo che io, per la verità, preferirei rinunciasse ad attendersi. Attendere il miracolo è in certo modo appannare la libertà della fede, è far dipendere il rapporto con Dio da un suo visibile beneficio. Il nucleo forte della religiosità cristiana non sta nel miracolo, ma nel dialogo, nella grazia dell’apertura all’altro. La visita a San Gennario è peraltro anche il riconoscimento di ciò che la Chiesa partenopea fa per mantenere vivo il contatto con la genuina religiosità popolare».

C’è tanto «popolo», mi viene voglia di dire, nel percorso che Bergoglio ha voluto tracciare in città. C’è un bisogno di comunità che il Papa non perde occasione di suscitare, di avvertire e fare avvertire, come se per lui, per un cristiano, non vi fosse mai vera e piena identità senza una reale appartenenza a un popolo. Che è ovviamente il popolo di Dio, la Chiesa in cammino. Ma sta il fatto che la Chiesa cattolica, e in particolare questo Papa, forse anche grazie alle sue origini latino-americane, dispone nel suo lessico di termini, risonanze, accenti che nell’esangue vocabolario politico europeo, o almeno nelle zone sempre più ristrette presidiate dalle sue classi dirigenti, si ascoltano poco: sono quasi sterilizzati, privi di pathos, vuoti di senso.

Tocco così un tema che a Masullo è molto caro: «È un mio vecchio pensiero – dice –. Io l’ho detto spesso a proposito dei napoletani: c’è in loro uno spirito di solidarietà più umano che civile. Il che è congeniale al sentimento di Bergoglio. Nel suo messaggio io colgo la sollecitazione a guardare al di sotto delle apparenti relazioni sociali istituzionalizzate, per far venire alla luce la radice stessa della vita sociale, cioè il solidale fervore della comunità, il coinvolgimento appassionato di ognuno alla vita del gruppo. Il richiamo del Papa ammonisce una società troppo formalisticamente civile, che perde troppo spesso il senso del rapporto con il contenuto di speranze e di dolori della vita personale».

«Io ho spesso insistito sulla necessità di passare dallo spontaneo senso di umanità all’ordine delle regole civili – continua –. Questo Papa, invece, con la sua straordinaria sensibilità, coglie il punto dolente della presente crisi di civiltà. Egli denuncia una cultura sociale inaridita nei suoi formalismi giuridici e alienata nei suoi meccanismi economici, e la sollecita a ritrovare quell’universale senso di umanità senza di cui tutte le strutture civili, anche le più raffinate, perdono significato».

Tutto il pensiero del Novecento è peraltro attraversato da questa dicotomia, variamente declinata: la civilizzazione non sempre ha arricchito, anzi ha spesso depauperato la radice umana della vita comunitaria. Per Masullo, «siamo tutti molto cittadini, e magari dovremmo esserlo ancora di più, ma siamo ben poco fratelli. Di fronte a questa mancanza, Bergoglio rivendica il senso forte della comune umanità, fondamento necessario di ogni vivente istituzione sociale».

Forse sta qui anche il messaggio del prossimo anno giubilare, annunciato a sorpresa da Papa Francesco pochi giorni fa. Un messaggio di apertura: di porte, di città, di mondi. Un cristianesimo autenticamente mondiale. Masullo ci riflette su: «è come se il Papa ammonisse il mondo perché si guardi dai pericoli che vengono non tanto dall’esterno quanto dall’interno, da noi stessi. È come se il Papa dicesse: avete a tal punto inaridito la vostra vita, da non avere più risorse di carattere spirituale. Ognuno di voi è vuoto e solo».

Tutto ciò chiama in causa il rapporto della Chiesa con la modernità. È abbastanza chiaro, da certe prese di posizione di Bergoglio in questi due primi anni di pontificato, che egli intenda spostare il confronto: invece di stare sulla difensiva sul terreno dei diritti, passare al contrattacco sul terreno dei bisogni. Questo non credo comporti veri e propri mutamenti di dottrina, ma mutamenti di interessi sì. «In effetti – conviene Masullo – Bergoglio pensa più all’uomo che al cittadino. I diritti che vede come eminenti non sono i diritti del cittadino ma i diritti naturali dell’uomo. In ciò suggerirsce un altro movimento, rispetto alla prevalente direzione del moderno».

La linea cade, chiamo Masullo per un’ultima riflessione. Gli chiedo di riprendere l’itinerario di Bergoglio, l’ultima tappa, la grande folla dei giovani, sul Lungomare della città: «la Chiesa dolorante si trasforma in Chiesa progettante. Parlare ai giovani significa proiettare in avanti tutte le energie e i desideri e le volontà di riscatto proprie dei giovani, che nell’altissima figura di Francesco trovano speranza, ma anche parole che impegnano ad agire». A sera, però, l’elicottero del Pontefice si alzerà nuovamente in volo: che città lascerà? Quanto resterà, della sua visita?

«Avremo un doppio, discordante effetto. I ceti popolari si sentiranno confortati e incoraggiati a un nuovo fervore di vita operosa. La borghesia medio-alta, dietro l’ossequio formale, manterrà fermo il suo abituale scetticismo. Tacitamente lascerà cadere ciò che avrà udito. Vorrei sbagliarmi, ma purtroppo è il giudizio che non mi sento di modificare sulle capacità di governo morale e civile di questa classe dirigente. Essa cambierà ben poco». È un verdetto un po’ amaro, posso solo augurarmi con lui, in conclusione, che non sia un verdetto definitivo.

(Il Mattino, 21 marzo 2015)

L’università e la bilancia del salumiere

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Mi dia un etto di prosciutto: il salumiere taglia il prosciutto, pesa, incarta e stabilisce il prezzo. In maniera, come si dice, oggettiva. Ora, non sareste turbati se il salumiere rinunciasse a bilancia e registratore di cassa e il prosciutto ve lo servisse a spanne? La valutazione della performance del salumiere è misurabile, e voi ne siete sollevati. Non solo voi: anche il datore di lavoro, che può sapere quanto prosciutto il suo commesso ha tagliato, pesato, infine venduto tutto il giorno.

Perché allora le cose non dovrebbero andare così anche all’università? Perché i docenti, le lezioni, i prodotti della ricerca non dovrebbero essere rette dal concetto che, collocato al centro dei sistemi di valutazione,  ne governa da qualche anno i destini, quello di «performance misurabile»? Solo perché il sapere non è come il prosciutto (non è una merce)? Sia pure. Ma piuttosto che rinunciare all’oggettività della misurazione, che protegge da salumieri infedeli, non bisognerà semplicemente affinare i criteri? Luca Illetterati, presidente della società italiana di filosofia teoretica, ha provato a seminare qualche dubbio, a gettare un sasso in mezzo a un mare di conformismo, con una pubblica lettera che ha accompagnato le sue dimissioni dal nucleo di valutazione dell’Ateneo di Padova, dove insegna. La sua è un’Impresa eroica: tutto infatti congiura contro di lui. In primo luogo, è un docente universitario. In secondo luogo, insegna filosofia: sta, evidentemente, difendendo se stesso (e siccome sono le medesime condizioni in cui si trova chi scrive, questo articolo deve riuscire due volte sospetto).

Quali ragioni, tuttavia, ha addotto? La prima. Puntare sull’efficacia e l’efficienza della ricerca ammazza l’università come «luogo di produzione critica del sapere». In effetti, se a ogni passo ci si imbatte in una critica, non si va da nessuna parte. Meglio, dunque, sbarazzarsene. E se all’università si chiede solo ed esclusivamente di formare «risorse umane» adeguate alle richieste del mercato (delle imprese, delle professioni), lo spazio per le ubbie degli spiriti liberi si riduce parecchio. A chi o a cosa, d’altra parte, potrebbero servire le fisime dei filosofi, e non solo le loro? Questo però è il punto: se non si vede a cosa serva una tale riserva di sapere critico, vuol dire che, sotto l’apparente neutralità dei modelli di valutazione – oggettivi, misurabili, verificabili –, si è in realtà già introdotta un’altra idea del sapere. Nulla di male: non è la prima rivoluzione dei sistemi culturali che si sia prodotta nel nostro paese – e, enfatizzando un po’, nell’Occidente tutto –, non sarà neppure l’ultima. Ma dove è stata presa questa decisione tra un modello, un’idea del sapere, e un altro? E soprattutto: sulla base di quali valutazioni, e quanto misurabili? Non lo si sa. Si sa soltanto che si sta procedendo su questa strada: si dispone di sistemi di valutazione per la ricerca del singolo docente o della struttura dipartimentale secondo criteri e standard assunti come «oggettivi», ma non si sa nulla sul tipo di umanità, di società e di sapere che si produrrà in fondo a questa strada. E d’altra parte: a quale sapere toccherebbe di di fare una simile valutazione? Neppure questo si sa (brutto affare, scomodo paradosso).

Seconda ragione. Tutto viene valutato da organismi appositi. Benissimo. E gli organismi di governo di un Ateneo? Quali spazi rimangono loro? Nessuno. Sarà sempre più comodo mettere avanti una procedura piuttosto che arrischiare un giudizio. Quello che Illetterati vede profilarsi è «il dominio delle procedure sulle considerazioni, dei meccanismi sulla possibilità di una ponderazione in grado di tener conto delle variabili umane: degli indicatori sulle persone e sulle cose». Qui torna in gioco il prosciutto. Perché il dominio della bilancia sul salumiere non ci dispiace affatto, ma forse un po’ dovrebbe dispiacerci quando si tratta di trasmissione del sapere, di istruzione, formazione e ricerca. Ma non è solo questo: è anche l’idea che il «fattore umano» sia solo un elemento di disturbo nella valutazione, un fattore che va il più possibile limitato, contenuto, ridotto, annullato. Ed invece: alzi la mano chi, nei casi importanti della sua vita, vuole essere giudicato «in ultima istanza» da una macchina, invece che da un uomo. Da una macchina, invece che da un medico, o da un giudice, o da un maestro. In ogni caso, anche questa idea – i filosofi lo sanno – modifica la natura stessa del sapere: non si limita a misurarlo. Come la si può, allora, assumere senza considerarne l’impatto?

E qui cade una terza e ultima ragione. Non si tratta di rifiutare acriticamente ogni strumento di valutazione, ma di guardarne per davvero gli effetti. Cosa infatti sta succedendo nella vita degli Atenei? Che il giovane ricercatore studia con un occhio, anzi due, non alla cosa stessa che studia, ma ai parametri a cui sarà sottoposto il suo lavoro di ricerca. Che lo stesso farà il docente, promuovendo o bocciando, e il dipartimento, allocando di qua o di là le risorse a disposizione. Anzi: allocando docenti in funzione delle risorse raccolte. Illetterati fa l’esempio dei corsi in lingua inglese, ormai offerti a prescindere (direbbe Totò): «è davvero la risposta a un bisogno dello studente e del docente la creazione di questi corsi? Sono state davvero discusse le implicazioni didattiche e formative connesse a questo?». Domande retoriche: la risposta è no, ad entrambe. Dove però sarebbe il luogo della discussione che Illetterati auspica, a questo riguardo? Nell’università no di certo, perché mettersi a discutere di queste cose rischia di attirarsi un brutto voto. Ecco dunque la stortura che si tratta di correggere, e però anche il timore che stia morendo perfino la sensibilità per avvertirla: «non può essere la valutazione a dire come ci dobbiamo comportare». Già: non può essere eppure è, e quel che ne viene è «una modificazione strepitosa e fondamentale dell’ethos stesso della ricerca». Illetterati butta lì, quasi in conclusione del suo polemico ma garbato intervento, queste parole. E davvero: c’è qualcuno che saprà ancora dire cosa mai sia questo «ethos», l’abito stesso della ricerca, un’idea dell’uomo e del suo «logos», quando la valutazione avrà definitivamente trionfato sopra ogni cosa, e tutto sarà fatto come standard comanda? Peirce, il grande filosofo americano, sosteneva che è impossibile essere completamente logici, «salvo che su una base etica». Che cosa faccia oggi di base al sapere e al logos, è un problema che forse non il nucleo di valutazione d’Ateneo, ma qualcuno dovrà pur porsi.

(Il Mattino, 20 marzo 2015)