Alla scadenza del mandato, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia non si ricandiderà; il sindaco di Napoli invece sì. Pisapia spiega che non rinuncia per stanchezza; figuriamoci De Magistris: non è stanco nemmeno lui, perché allora dovrebbe mollare? Pisapia fa dipendere la sua decisione da quanto ha detto fin dalla campagna elettorale di quattro anni fa, che cioè avrebbe guidato la città, se eletto, per un solo mandato. De Magistris ha tutta l’aria di dire che di mandati ne farebbe anche tre, quattro, se solo la legge lo consentisse. Fin qui, però, sembra che si tratti solo di percorsi biografici che si allontanano l’uno dall’altro: il voto amministrativo del 2011 li aveva avvicinati, il voto del 2016 li separerà. In realtà, c’è qualcosa di più, e cioè il consumarsi di un’esperienza politica, secondo linee e traiettorie diverse. Pisapia e De Magistris sono infatti arrivati alla guida delle loro città mentre la vicenda politica nazionale si avvicinava al suo punto più basso, almeno dal punto di vista della credibilità degli attori politici locali e nazionali. A Roma, il centrodestra si avvitava intorno al destino personale del Cavaliere, che nell’autunno del 2011 si sarebbe dimesso da primo Ministro, aprendo una crisi da cui il centrodestra non è ancora venuto fuori, mentre il partito democratico, pur agevolato dalle convulsioni della maggioranza, stava sotto la sferza della prima campagna renziana sulla rottamazione, i cui esiti la vittoria di Bersani alle primarie del 2012 avrebbe solo rinviato. Un’ansia di cambiamento che a livello locale era indubbiamente amplificata da disavventure ed errori. A Napoli pesò l’incredibile vicissitudine delle primarie cittadine, prima tenute poi annullate per brogli; a Milano pesarono invece le indagini giudiziarie a carico di Filippo Penati, esponente di punta del Pd lombardo e braccio destro di Bersani. Come spesso accade nel nostro paese, queste vicende hanno inciso sul corso degli eventi indipendentemente dall’accertamento di precise responsabilità. Di fatto, però, sia a Milano che a Napoli il bailamme mediatico-giudiziario, in una condizione di estrema debolezza dei partiti, ha favorito le figure di outsider, il cui primo merito era la loro collocazione esterna alle macchine politiche tradizionali. La stessa cosa accadeva peraltro anche a Cagliari, dove vinceva la proposta anti-establishment di Massimo Zedda, giovanissimo esponente di SEL. Nell’estate del 2011, grazie al vento delle primarie e alla crisi dei partiti, tre importanti capoluoghi venivano dunque investiti da una proposta di cambiamento molto forte.
Fra un anno, i cittadini daranno la loro valutazione su queste esperienze. Ma il gesto di Pisapia sembra in fondo anticipare non già il giudizio sull’impegno amministrativo sostenuto, quanto quello politico. Sul piano politico, la breccia aperta quattro anni fa si sta chiudendo. Il partito democratico si presenta oggi con Renzi al comando. Ha dunque tutt’altra fisionomia, e anche se a sinistra non mancano delusi e scontenti, e non è affatto escluso che questa delusione coaguli in una nuova formazione, ad essa mancherà il più forte propellente che aveva sospinto i sindaci del 2011, cioè il vento del rinnovamento.
Questo esito prende però un significato diverso a Milano e a Napoli. Perché a Milano, così come a Cagliari, la vittoria del candidato di sinistra radicale – ma, sia detto en passant, si fa qualche fatica a usare lo stesso aggettivo per Pisapia come per De Magistris, per la vena progressista di Pisapia come per quella populista di De Magistris, per la cultura politico-giuridica dell’avvocato Pisapia come per quella del magistrato De Magistris – avveniva, quella vittoria, a spese del Pd ma non contro il Pd, che infatti si ritrovava in giunta con il nuovo sindaco. A Napoli no. A Napoli, il Pd era stato spazzato via dalla vittoria arancione. E così, mentre Pisapia può provare a dire che il suo mandato andava interpretato come un tentativo di ricostruzione di una classe dirigente locale, che quindi prosegue anche oltre la sua personale esperienza alla guida della città, De Magistris non può (né vuole) dire nulla del genere. Ha iniziato «scassando», e termina ora con gli stessi accenti, esasperati se mai a causa della condanna in primo grado che lo costringe ad accentuare ancora di più, in quest’ultimo scorcio di sindacatura, la vocazione anti-sistema e «contro tutti».
In questa linea, è però confortato dallo stesso Pd campano, che questa volta ha superato senza strascichi polemici la prova delle primarie, ma non si può dire che si sia dato con De Luca il profilo di una moderata forza riformista. Se mai si dirà il contrario, che questa volta sarà il Pd, con De Luca, che proverà a «scassare».
(Il Mattino, 24 marzo 2015)