Archivi del mese: aprile 2015

La vergogna dell’aula vuota

download«La Liberazione è una festa di libertà e di speranza che ricorda quel che abbiamo conquistato grazie al sacrificio di tanti e che abbiamo il diritto e dovere di conservare e preservare»: vi sembrano parole retoriche? Non lo sono: sono parole vere. Però retoriche rischiano di diventarle, e non perché le consideri tali il Capo dello Stato, che le ha pronunciate ieri, in occasione dei settant’anni della Liberazione, ma perché non c’è verità, storica e politica, che non abbiamo bisogno di essere inverata, per essere autentica. Anche questo ha detto ieri il Presidente Mattarella, e anche questo è vero. Ma mentre il Presidente della Repubblica usava queste parole in occasione della premiazione degli studenti vincitore del concorso scolastico sulla Resistenza, nell’aula di Montecitorio il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni raccontava il sacrificio di un italiano, di un italiano di oggi, che abbiamo uguale diritto e uguale dovere di conservare e preservare: quello di Giovanni Lo Porto, ucciso a gennaio nel corso di un’operazione antiterrorismo dell’intelligence statunitense. Lo Porto «era un volontario generoso ed esperto» ha detto ieri Gentiloni, e ripetiamolo: non solo generoso, non solo altruista, ma anche esperto, accorto, preparato, impegnato per la Welthungerhilfe, una delle agenzie tedesche più importanti nell’ambito della cooperazione internazionale.

Di quest’uomo, di questo siciliano, di questo italiano vero di cui il nostro Paese deve andar fiero, si parlava ieri nell’emiciclo della Camera dei Deputati. Ma l’aula era praticamente deserta, e non perché i deputati fossero tutti accorsi al Quirinale ad ascoltare Mattarella, ma perché il ministro riferiva, ahimè, di venerdì. Ora, non vogliamo cascare da un luogo comune all’altro: come infatti può succedere che le commemorazioni pubbliche cadano nella vuota retorica celebrativa, così può accadere che si attinga senza troppo pensarci al luogo comune del politico che non lavora e si gira i pollici. Non è così, o perlomeno non è questo il punto. E in verità è probabile, se non addirittura certo, che non uno solo dei deputati che mancavano ai lavori d’aula fosse a passeggio per le vie di Roma, oppure in villeggiatura. Ma rimane il fatto che ieri bisognava sentire lo stesso dovere incancellabile che si sente il 25 aprile, nel ricordare i caduti per la liberazione del nostro Paese.

Se una verità ha bisogno di essere inverata per essere autentica, per non rimanere cioè una parola puramente decorativa, ornamentale, di circostanza, per non essere anzi falsificata dal corso stesso degli eventi, che mentre ne affida stancamente la memoria ai discorsi ufficiali ne disperde in realtà il significato, allora oggi la festa della Liberazione è un po’ meno festa, ed è un po’ meno vera. Perché poteva essere inverata da tutti i membri del Parlamento e non lo è stata. C’era il nome di un italiano di 39 anni che aveva portato il suo aiuto in Birmania, Croazia, Haiti, prima di arrivare al confine con l’Afghanistan, sempre con lo stesso spirito, la stessa abnegazione; c’erano le scuse del nostro più grande alleato, gli USA, e del suo Presidente, Obama; c’erano le condoglianze più sentite del nostro governo, ma non c’era che una manciata di deputati.

Solo questi pochi deputati potranno in futuro annotare un pensiero piccolo e luminoso come quello che Pietro Chiodi, filosofo, partigiano, affidò al suo diario nel ’43, per poi scegliere di unirsi alla Resistenza: «È la prima volta – scrisse – che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me», Il 25 aprile è il giorno in cui la patria è affidata in parte anche a noi, che ne ricordiamo la Liberazione. Ma ieri era affidata anche ai nostri rappresentanti, soprattutto ai nostri rappresentanti, che dovevano ricordare e onorare un uomo migliore di loro e di tutti noi, caduto in un teatro di guerra dalla parte giusta, per una causa giusta. «Posso assicurare – ha però concluso con voce trattenuta il Ministro Gentiloni – che l’Italia onorerà la memoria di Giovanni Lo Porto». L’Italia certamente lo farà, ma altrettanto certamente, dobbiamo con amarezza dire che ieri il Parlamento non l’ha fatto.

(Il Mattino, 25 aprile 2015)

De Luca e la condanna senza danno

ux5yhnfqzp4bo4jczaq3nfr320140201213437Proviamo a spiegarla bene, per come l’abbiamo capita. Perché le motivazioni della sentenza che ha condannato Vincenzo De Luca in primo grado – centoquaranta pagine, in cui è ricostruito interamente il procedimento che ha portato alla condanna – meritano di essere conosciute.  Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria, comunque vadano a finire le elezioni. De Luca, infatti, è candidato, e per effetto della condanna, qualora fosse eletto, incorrerà nei rigori della Severino. Se poi questi saranno sospesi da un eventuale ricorso non sappiamo, ma intanto la condanna c’è, ed è utile che l’opinione pubblica provi a capire perché.

Tutto comincia l’11 gennaio 2008. A Taiwan, il Kuomintang vince le elezioni con il 72% dei consensi: ma questa è un’altra storia. In Italia, il Presidente del Consiglio dei Ministri, Romano Prodi, nomina Gianni De Gennaro commissario per l’emergenza rifiuti in Campania. Le strade ne sono piene, la salute dei cittadini è a rischio, le tensioni sociali sono forti, bisogna fare presto. Tempo cinque giorni e il ministro della giustizia Clemente Mastella si dimette: ma pure questa è un’altra storia (che anticipa la fine del governo Prodi e della legislatura). Proprio quel giorno, però, da Roma arriva una nuova ordinanza: l’allora sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, riceve l’incarico, «a titolo gratuito», di commissario «per la localizzazione, progettazione e realizzazione dell’impianto di termodistruzione» in provincia di Salerno. L’ordinanza fa riferimento anche al ciclo integrato dei rifiuti e alla raccolta differenziata, ma il nodo è il termovalorizzatore, perché nessuno lo vuole sotto casa, nessuno ne vuole respirare i fumi, nessuno si fida di nessuno.

De Luca però non perde tempo. I primi provvedimenti sono del 25 gennaio 2008, ma le due ordinanze-chiave, quelle che attireranno l’attenzione della magistratura, sono la numera 3 del 14 febbraio e la numero 4 del 18 febbraio. Passano cioè solo quattro giorni fra l’una e l’altra, e per l’accusa tutto cambia. Con la prima ordinanza, infatti, il commissario De Luca nomina il Responsabile Unico del Procedimento (RUP) per la realizzazione dell’impianto di termodistruzione (il termovalorizzatore), insieme a una schiera di tecnici comunali incaricati di supportarlo. Con la seconda affianca al RUP una Project Manager, nella persona del dott. Alberto Di Lorenzo.

Chi è Alberto Di Lorenzo? È un dipendente comunale, in servizio da quasi trent’anni. È entrato in comune come geometra, poi ha vinto un concorso interno ed è passato nelle file dei dirigenti. Un bel po’ di anni dopo è tornato sui libri e si è preso una laurea triennale, nel 2006, per essere quindi messo a capo dello Staff del Sindaco. Gli manca la laurea magistrale: la prenderà un mese dopo la nomina a Project Manager, nel marzo del 2008. Ma, laurea o non laurea, è evidente che è un uomo di stretta fiducia di De Luca. Quando il magistrato chiede all’ingegner Criscuolo, in un primo momento indicato come coordinatore del gruppo, da dove spuntasse la nomina di De Lorenzo, riceve la risposta più sensata: c’era l’esigenza del sindaco di «avere una persona a disposizione che ad ogni momento lui poteva raggiungere per incidere sulla cosa». La cosa, infatti, è grossa: non solo per l’entità dell’investimento, ma anche per la partita politica in corso. Sarà infatti la crisi dei rifiuti a segnare il declino di Antonio Bassolino; né sarà un caso se Silvio Berlusconi, tornato al governo e venuto a Napoli, si armerà di una scopa blu per fare lo spazzino, e dare per finita l’emergenza.

La cosa, dunque, è grossa, ed è così grossa che alla fine il termovalorizzatore non si farà, il che dà il sapore della beffa a tutta la faccenda. La procedura verrà infatti interrotta e i poteri passeranno alla Provincia di Salerno. Ma, intanto, quelli del gruppo di lavoro che hanno fatto? E il Project Manager cosa ha combinato? A leggere gli atti, nessuno se ne è stato con le mani in mano: studio di fattibilità, redazione del progetto preliminare, problema degli espropri e mediazione degli interessi coinvolti, prospetto di indizione della gara. Per queste attività sono state ovviamente liquidate delle somme: ai membri del gruppo sono stati riconosciuti 9500 euro, ad Alberto Di Lorenzo 20.000 euro (netto in busta paga: euro 8098,56). Più che agli altri membri del gruppo, in effetti, per via della qualifica di Project Manager.

E siamo al punto. Da dove spunta fuori una simile qualifica? Il codice degli appalti non prevede la figura, e la contestazione del pubblico ministero è tutta qui: non c’era già il RUP, il responsabile unico del procedimento? Che bisogno c’era di mettergli a fianco quest’altra figura? Nell’interrogatorio reso il 17 marzo 2014 (lo stesso giorno in cui la Crimea ha dichiarato l’indipendenza dall’Ucraina: un’altra storia ancora), Di Lorenzo spiega che il suo compito non consisteva nello svolgere compiti «in più» rispetto a quelli del RUP, ma casomai di supportarlo. Non lo può dire nei termini in cui qui riassumiamo la cosa, ma si trattava grosso modo di «risolvere problemi», come mister Wolf in Pulp Fiction. Conoscenza della macchina amministrativa, forte rapporto fiduciario con il Sindaco, esperienza e dimestichezza di lunga data: Di Lorenzo non doveva certo disegnare il termovalorizzatore, ma venire a capo delle grane che si frapponevano alla realizzazione dell’impianto: gli espropri, la Soprintendenza, molte telefonate. A lui, peraltro, viene affidata la missione un po’ grottesca che il Sindaco De Luca, col pallino dei grandi nomi, gli affida: convincere l’archi-star Frank Gehry a mettere la firma sotto al progetto. Senza timore di commettere un delitto. Adolf Loos, il grande architetto modernista, diceva infatti che l’ornamento è delitto, e Di Lorenzo vola da Gehry con l’intenzione di commetterlo, rendendo il termovalorizzatore «più gradevole dal punto di vista estetico». Ma Gehry costa troppo, ci vuole tempo, e il delitto architettonico non viene consumato.

Insomma, questo è tutto. Da una parte c’è un codice che non prevede la figura del Project Manager; dall’altra c’è un commissario che lo nomina, per tenere sotto stretto controllo la realizzazione dell’impianto e dare al suo uomo di fiducia «rilevanza esterna», cioè capacità di mediazione verso terzi; da una parte c’è il manager in questione che descrive la propria attività come un sopporto o una «coadiuzione» a quella del RUP, dall’altra c’è un’ordinanza che non dettaglia in concreto codesti compiti di supporto, e anzi è così generica che pare assegnargli piena autonomia; da un lato la legge dice che il responsabile sia unico, e che stia in cima a tutti gli altri; dall’altro sembra che fossero invece uno più uno, e cioè due. La contestazione non è meramente linguistica, come De Luca non si stanca di ripetere, perché è anzi il giudice a notare che, sul piano linguistico, questo benedetto Project Manager altri non è che il Responsabile Unico del Procedimento, solo detto in inglese e con riferimento alla normativa di diritto privato. La contestazione riguarda il fatto che, in questo modo, di responsabili unici ce n’erano in realtà due. Ma quanto ai soldi, al lavoro svolto, alla sostanza del procedimento, escluso il peculato (per il quale inizialmente si procedeva), io la capisco così: c’era un sindaco che, in condizioni di emergenza, doveva procedere e ha proceduto. Forse la deroga di cui disponeva in quanto commissario non bastava, e forse non bastavano le motivazioni: quest’ultima è senz’altro la tesi dell’accusa, accolta dal Tribunale. In primo grado. Ma certo il denaro pubblico non è stato buttato al vento, le attività svolte dal gruppo di lavoro e dal project manager sono state corposamente documentate, e danni ingiusti non sono stati arrecati a nessuno. Non è un paradosso, perché i paradossi non portano a condanne, ma l’abuso d’ufficio per il quale De Luca è stato condannato rimane piuttosto impalpabile, almeno negli effetti: perché i soldi impegnati quelli erano e quelli sono rimasti (salvo una diversa ripartizione interna al gruppo), i compiti assegnati quelli erano e quelli sono stati svolti, e quanto a danni eventuali non c’è nessuno, né privato né pubblico, che possa dire di averne ricevuti dalla condotta amministrativa del commissario. Ora, le leggi vanno assolutamente rispettate, ma un pizzico di ragionevolezza nel valutare le conseguenze politiche di tutto questo, forse, non guasta.

(Il Mattino, 23 aprile 2015)

L’incapacità di dialogare, un fantasma che ritorna

renzi fantasmaC’era da aspettarselo: con l’avvicinarsi dell’ora x – l’ora in cui il Parlamento sarà chiamato a votare la nuova legge elettorale – le tensioni crescono, lo scontro si inasprisce, le accuse si fanno più dure. E i comportamenti anche: Renzi sostituisce in commissione i membri della minoranza interna indisponibili a votare l’«Italicum» così com’è, e le altre opposizioni (Sel, la Lega, Forza Italia) lasciano i lavori. Per dirla con Renato Brunetta: che Renzi se la voti da solo, la legge. Che Forza Italia questa legge l’abbia già votata al Senato non deve significare molto, evidentemente, di fronte al dato politico che si vuole evidenziare, che cioè la riforma elettorale rischia di andare in porto con i voti del solo Pd (e non di tutto il Pd), più l’esiguo complemento del Nuovo Centrodestra, e forse di (quel che resta di) Scelta Civica. E basta. È un fatto di indubbio rilievo politico, anche se tra la rilevanza politica della discontinuità che un simile passo  comporta, e l’allarme democratico che viene lanciato ad ogni ora del giorno e della notte dalle minoranze soccombenti ce ne corre.

Per cercare di dare una valutazione più distaccata del passaggio in corso è forse utile ricordare allora un paio di cose. La prima è una lezione che viene dalla storia della democrazia moderna: in genere, le riforme elettorali si accompagnano a mutamenti profondi di fase politica. È stato così sin dall’epoca della legge sui «borghi putridi» – Inghilterra, anno del Signore 1832 –, una riforma che ridisegnò le circoscrizioni elettorali modificando non solo i rapporti di forza tra città e campagna ma la natura stessa dei partiti inglesi, rivoluzionando l’offerta politica dell’epoca; ed è stato così anche in Italia, con il referendum sulla preferenza unica dei primi anni Novanta, per venire a tempi un po’ più vicini ai nostri: una Repubblica si suole dire che con quel voto è finita, e un’altra è nata. Non fa dunque meraviglia che anche l’approvazione dell’Italicum sia accompagnata da un’aspra lotta politica: è il segno che si fa sul serio, che cioè la legge cambierà effettivamente un po’ di cose. Non però nel senso che trasformerà la democrazia italiana in un’autocrazia, come sembra che taluni temano, ma più semplicemente nel senso che confermerà la direzione maggioritaria impressa negli ultimi anni al sistema politico italiano, legandola non più alle coalizioni ma ai partiti (cui spetta il premio, senza peraltro che nell’eventuale turno di ballottaggio siano consentiti apparentamenti). Quelli, nel Pd, che sono preoccupati degli squilibri della legge non dovrebbero mai dimenticare quanto sia stato squilibrato il Porcellum, e quale distanza abbia messo tra i voti raccolti e i seggi ottenuti: basta guardare cosa ne è nella Camera dei Deputati del venticinque per cento raccolto dal Pd due anni fa (e del ventinove circa della coalizione «Italia Bene Comune» dal Pd guidata, di cui peraltro quasi nessun cittadino normale conserva memoria).

La seconda lezione da ricordare è quella che l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inflisse ai partiti politici tutti, al momento della sua rielezione, nel tentativo di rimettere in moto un sistema parecchio inceppato: imperdonabile – disse – la mancata riforma della legge elettorale. Sembrano passati un paio di secoli, eppure parliamo non del  1832 ma del 2013, della «non vittoria» di Pierluigi Bersani e dello stallo nell’elezione del nuovo Presidente. In quel contesto, sotto la pressione delle circostanze, pareva del tutto necessario ascoltare i moniti di Napolitano e concordare una strategia di riforme che modificasse l’assetto istituzionale ed elettorale del Paese. Nel giro di un paio d’anni è evaporata del tutto quella vasta convergenza di consensi, ma è difficile ritenere che si sia persa semplicemente in ragione di un progetto di legge fatto male, visto che Forza Italia l’ha di fatto già sottoscritto al Senato, mentre la minoranza del Pd ha ottenuto diversi significativi cambiamenti (per esempio in tema di soglie di sbarramento, o sullo stesso premio alla lista e non alla coalizione, o sul mix fra nomina dei capilista e preferenze).

In realtà, la vera ragione è stata l’emergenza , sulla scena politica, di una forza che prima non c’era e adesso c’è, ed è il Pd di Renzi. È di fronte a questa forza, alla sproporzione fra questa forza e le mille debolezze altrui, che è venuta meno ogni «intesa cordiale». Non è un caso che l’unico che si permette di non lanciare preoccupati allarmi democratici è Salvini, il quale è arrivato a dire che della legge elettorale «non gliene fotte niente», per la buona ragione che ha (o pensa di avere) ben altre atout da giocare, a differenza degli altri attori in campo. Purtroppo però, mentre esce dalla scena quello spirito bipartisan che per un momento era sembrato aleggiare, ricompare lo spettro più persistente della contesa politica italiana: il fantasma del reciproco disconoscimento, e cioè l’indisponibilità a riconoscere le ragioni altrui, senza cercare di gettare discredito sull’avversario, considerato ora un dittatorello, ora un usurpatore ora invece un antidemocratico avventuriero. Ecco: per quante riforme si possano fare o anche solo proporre, e quale che sia il loro significato di merito, sembra proprio che da questo male la politica italiana non riuscirà ancora a guarire, nemmeno questa volta.

(Il Mattino, 22 aprile 2015)

Che tempo che fa? Lo stesso

Schermata-2015-04-19-alle-21.33.56-620x381Fossero stati napoletani non ci sarebbe stata notizia: i napoletani non hanno forse distrutto mille e mille volte la fontana di piazza Navona? Se quindi l’avessero fatto per l’ennesima volta, in occasione della partita Roma-Feyenoord, nessuno si sarebbe preso la briga di commentare. Non certamente Luciana Littizzetto, la quale invece si è sentita in dovere di sottolineare il pungente paradosso, il flagrante ossimoro, l’innegabile contraddizione. Il mondo alla rovescia! I «civilissimi olandesi» che danneggiano la barcaccia di Piazza Navona, «mica i napoletani»! Eh già, perché la Littizzetto ha detto proprio così: «mica i napoletani», come se davvero i napoletani passassero i loro weekend calcistici a Roma, a mettere a ferro e fuoco la città. O come se si dovessero prendere a unità di misura dell’inciviltà e del teppismo da stadio. E, si badi, non è una barzelletta – nello stile: un tedesco un francese e un napoletano – ma è la conduttrice, attrice, scrittrice, nonché umorista Luciana Littizzetto dalla trasmissione col più alto tono intellettuale della Rai, «Che tempo che fa» di Fabio Fazio.

La trasmissione va in onda da una decina d’anni, ed è comprensibile che subentri quindi una certa stanchezza. A qualcuno, in effetti, dieci anni possono sembrare troppi: dieci anni di seguito in tv, nella stessa trasmissione, è roba di cui non hanno goduto né Walter Chiari né Raimondo Vianello, non Renzo Arbore e non Corrado Mantoni, per citare qualcuno che pure ha fatto la storia della televisione italiana. Ma in una bella intervista di qualche tempo fa Fabio Fazio spiegò che in realtà il suo modello televisivo era quel David Letterman che col suo show negli Stati Uniti di anni ne ha trascorsi trenta e più, e dunque perché non provarci anche in Italia? Questa cosa di Letterman Fazio l’ha spiegata così: da lui vanno a parlare tutti, persino Obama, e Obama va lì non per commentare i fatti del giorno o per vedersi aggredire dalle domande di un cronista d’assalto, ma per «parlare e basta». Letterman è capace di tenersi Obama in studio a parlare cinque minuti dello shampoo per i capelli e di nient’altro: un «lusso clamoroso», mentre da noi passerebbe subito per reticenza e complicità coi potenti. E così Fazio risponde alle critiche di chi trova troppo sussiegoso il suo modo di fare tv, troppo da salotto fra amici, troppo liscio e levigato, sempre intelligente il giusto, ironico il giusto, indignato il giusto. Gli piace la televisione bene educata, gli piace mettere a suo agio l’interlocutore, gli piace ammiccare, far cenni d’intesa, e, quando ci vuole, mostrare una punta di compunzione. I latini dicevano: castigat ridendo mores. Ma a lui di infliggere castighi non va, e anche il ridere è forse di troppo. Meglio, piuttosto, piccoli sorrisetti e simpatiche ramanzine.

Poi però si fa una certa, come dicono i romani, e arriva la Littizzetto. Tutto il gioco sottile di sfumature, tutta la levità e il «lusso» à la Letterman devono allora cedere il passo alla libertà assoluta di sghignazzare del comico. E con chi se la prende, allora, l’acuta satira della Littizzetto? Con i napoletani, con chi sennò? Anche il salotto più elegante, dove si pratica la più civile arte della conversazione, cede così allo stereotipo, al pregiudizio, al razzismo strisciante di chi un napoletano di Napoli forse nemmeno se lo vorrebbe vedere seduto accanto. Uno che fosse abbastanza verace, abbastanza franco, abbastanza impaziente da non sopportare le finte schermaglie in punta di fioretto di Fabio Fazio. A volte qualcuno del genere passa di lì – come per esempio Sabrina Ferilli, qualche settimana fa – qualcuno che invece di sorridere sbuffa, e invece di stare al gioco mostra vistosi segni di insofferenza, ma è solo una puntata andata storta: poi tutto torna nelle regole. La televisione, del resto, rumina ogni cosa. Lo stesso presumiamo che accadrà con l’infelice battuta della Littizzetto. Ci tornerà su: Fazio sfumerà, smusserà, vezzeggerà, e rimetterà ordine sulla sua scrivania. Magari si potrà osservare che ci sono tanti napoletani che non sembrano di Napoli, e che una volta se ne è addirittura incontrato uno, dal vivo. Magari qualcuno confesserà di essere stato perfino in vacanza a Napoli, e di avere, cose da pazzi, uno zio materno originario dell’hinterland.

Ma questo è tutto: a mettere a soqquadro un po’ di cose, a gettare via qualche maschera di conformismo (non solo politico, ma anche giornalistico, musicale, editoriale), a far vedere davvero il mondo alla rovescia non aspettatevi mai che sia Fabio Fazio. Un bel quadro, un bel libro, un bel film: e che siano quelli da classifica, s’intende. Ma che un tempo la bellezza fosse solo l’inizio del tremendo, beh: sussurratelo piano a Fazio, potrebbe rimanerci troppo male.

(Il Mattino, 21 aprile 2015)


Scuse

Caro Direttore,

nell’articolo di ieri, in cui stigmatizzavo l’infelice battuta uscita a «Che tempo che fa» dalla bocca di Luciana Littizzetto, la quale in trasmissione si stupiva che a devastar monumenti in giro per Roma fossero stati «civilissimi olandesi, mica i napoletani», ho collocato per un lapsus la celebre fontana, fatta oggetto dell’aggressione teppista e violenta dei tifosi del Feyenoord, nella piazza sbagliata: non cioè a piazza di Spagna, dove si trovava fino a poco tempo fa indisturbata, ma a piazza Navona, dove io mi sono preso il disturbo di sistemarla. Chiedo scusa per la svista. Spero solo che, essendo napoletano (o quasi) questo renda comunque meno probabile che io devasti la fontana in futuro, dal momento che si può dimostrare come io non sappia nemmeno dove essa si trovi. In ogni caso sono pure filosofo (o quasi): luogo comune per luogo comune, si sa almeno quanto i filosofi siano irrimediabilmente sbadati e distratti. E, per una volta, caro Direttore, le chiedo di usare un inveterato preconcetto a fin di bene, e di scusarmi.

Perché il filosofo guida senza patente

patente

Tra tutte le discussioni sollevate dalla pubblicazione postuma dei Quaderni neri di Heidegger – con le sue espressioni smaccatamente antisemite – ve n’è una particolarmente cretina (per quanto istruttiva), che forse non meriterebbe di essere ripresa se non la si trovasse esposta sui principali quotidiani nazionali da professori autorevolissimi a cui non fanno difetto titoli e meriti accademici. Si tratta della questione seguente: fu Heidegger un grande pensatore, o addirittura il più grande del ventesimo secolo? Le questioni serie circa il nesso fra l’antisemitismo e la filosofia di Heidegger sono una cosa, la domanda circa la grandezza di Heidegger tutta un’altra. E non perché si voglia difendere a tutti i costi un pensatore che non inorridì dinanzi allo sterminio degli ebrei, che non ha detto una parola di condanna né prima né durante né dopo la guerra e ha anzi trovato parole che sollevavano il nazismo dalle sue responsabilità politiche e morali, ma perché muove dall’assunto che «un livido antisemita» non possa essere un «grande pensatore». Così infatti esordisce sul Corriere della sera l’emerito professor Richard Wolin, emerito e indignato, per il quale lo status di filosofo (e di grande filosofo) non è evidentemente compatibile con il pregiudizio antisemita. Così che se trovassimo tracce di antisemitismo – poniamo – in Hegel, Nietzsche o Frege, ci troveremmo nell’imbarazzo di  dover derubricare anche  costoro a pensatori mediocri, con buona pace delle nostre biblioteche (e grande soddisfazione del professor Wolin, immagino). Che se poi la nostra coscienza morale inorridisse altrettanto per lo schiavismo degli antichi, non si potrebbe proprio tenere nel pantheon della filosofia neppure Platone o Aristotele.

Ma, si dirà, i poveri Platone ed Aristotele, vissuti tanto tempo fa, proprio non potevano sapere quel che solo il progresso morale ha rivelato a noialtri, buoni democratici e liberali del ventunesimo secolo: che gli uomini sono tutti uguali e la schiavitù immorale. Giusto. D’accordo. Assolviamo almeno loro. Ma come la mettiamo con il pregiudizio contro le donne, che arriva praticamente fino ai giorni nostri? Togliamo il titolo di grande pensatore a tutti coloro che non hanno riconosciuto piena parità tra i sessi, pazienza se si tratta di quasi tutti? La storia della filosofia di Richard Wolin rischierebbe di ridursi a poverissima cosa, e soprattutto non sarebbe più una storia, ma solo una insipida cronaca di quello che passano gli ultimi anni della riflessione contemporanea, naturalmente dopo aver superato l’esame di morale del professor Wolin.

Ma è pronta l’obiezione: è immorale anche solo il paragone fra l’antisemitismo di Heidegger e qualunque altro deficit morale nel pensiero di qualunque altro pensatore del passato o del presente. Nulla è più orribile del nazismo, e mettere a confronto la condiscendenza di Heidegger verso nazismo e antisemitismo con generici pregiudizi maschilisti, o razzisti, o magari eurocentrici, è profondamente sbagliato. Ora, può darsi sia così, e che sia giusto togliere ai filosofi il titolo di «grandi» – e naturalmente anche ai giuristi tipo Schmitt e agli scrittori tipo Céline – per non urtare il senso di Richard Wolin per la grandezza. Dopodiché però sia consentito di chiedere: come uno che scrive queste cose immagina che si entri in filosofia? Previo rilascio di patentino morale? Pensa forse che si può essere filosofi, e grandi filosofi, solo avendo preliminarmente accettato, firmato e sottoscritto uno standard condiviso di valori morali universali? Che il consenso intorno a determinati valori non si discute né si problematizza punto? Che la filosofia comincia solo dopo aver considerato acquisite per sempre talune indiscutibili verità sull’uomo l’universo e tutto quanto? Che si può filosofare solo dopo che si sia rassicurati sulle buone intenzioni dell’esercizio di pensiero? Non è così, purtroppo (o per fortuna). Ed è da un pezzo che in filosofia vero bello e buono non si tengono quietamente l’uno a braccetto dell’altro, anche se siamo tutti contenti della «struttura di difesa dei diritti umani» sviluppatasi dopo i genocidi del ventesimo secolo. (O almeno: io per parte mia lo sono, ma non sono un pensatore né piccolo né grande in virtù di questa bella contentezza). La libertas philosophandi è più ampia di quanto Richard Wolin e altri evidentemente ritengono che sia, pur ergendosi a difensori di quella libertà che filosofi «unfrei» come Heidegger disprezzano.

A un parto sono nati, in filosofia, il filosofo e il sofista: e non solo la distinzione fra l’uno e l’altro non è mai fatta né è possibile farla una volta per tutte, ma sicuramente non è grande filosofo chi ritiene che sia già stata fatta, o peggio ancora che l’abbia fatta Richard Wolin per tutti noi. La filosofia ha pensato cose orribili. Heidegger ha pensato cose orribili: in quei pensieri bisogna entrare, e discuterli come pensieri, non come deprecabili errori morali commessi da un pover’uomo che non merita per questo di insegnarci Aristotele e Kant. In fondo vi sono più cose, in filosofia, di quante il criterio della morale condivisa (o della coscienza morale adamantina) ne ammetta. Ma in filosofia non si chiede il permesso di pensare a nessuno, nemmeno a Richard Wolin.

Il Mattino, 19 aprile 2015

Il PD e i furbi sul carro del vincitore

ImmagineCome i partiti erano una volta, e come sono adesso. Come i partiti sono al centro, e come sono in periferia. Come si profila il renzismo sul piano nazionale, e quale fisionomia prende nei territori: tutti questi diversi aspetti sono nella breve riflessione che Antonio Bassolino ha affidato ieri a Facebook. Ma l’ultimo è quello che sembra preoccuparlo di più, al punto da scrivere: «più che la debole e divisa minoranza interna, spesso è il renzismo territoriale il principale avversario di Renzi e del suo sforzo di cambiare il paese».

Già: ma cos’è il «renzismo territoriale»? A giudicare dalle ultime vicende che riempiono le cronache dei giornali, e che giustificano la preoccupazione di Bassolino per lo scadimento morale e intellettuale della lotta politica (nel Pd, ma invero anche fuori dal Pd), si chiama renzismo, ma – da queste parti almeno –  si potrebbe chiamare anche, più tradizionalmente, salto sul carro del vincitore. A volte salto mortale, più spesso salto doppio o triplo, ma sempre quello è. Il vincitore, in questa fase, è Renzi: è lui che tiene il pallino, che fa il gioco e decide. Chi dunque cerca un posto al sole, chi aspira a una candidatura, che tiene a una collocazione nel governo e nel sottogoverno locale, non si limita a fare altro che darsi una buona verniciatura di renzismo, e confidare che nessuno provi a scrostarla per vedere cosa c’è sotto. Più è sottile lo strato di vernice applicata, più sarà facile passare un’altra mano, se il vento dovesse cambiare. Come si spiega altrimenti che vi siano renziani della prima ora e renziani dell’ultima, convintamente renziani  e diversamente renziani, renziani a tempo pieno e renziani giusto il tempo delle elezioni? Tutti renziani, finché dura. A voler esser pessimisti, va così dai tempi del barone Don Fabrizio Corbera di Salina: del Gattopardo, insomma. Può cambiare tutto nel mondo: le camicie diventare rosse, i sabaudi prendere il posto dei borboni, un re fuggire e un altro arrivare ma, lontano da Roma, o lontano da Renzi, trovi sempre chi è svelto abbastanza da cambiare soltanto la foto da incorniciare alla parete, e per tutto il resto comportarsi uguale.

In un tempo in cui i partiti hanno perduto una propria fisionomia, e rinunciato a svolgere una funzione civile, direi quasi pedagogica, capita ed è purtroppo normale che in prossimità del voto un nugolo di aspiranti candidati, amministratori, consiglieri uscenti, sindaci pronti al grande balzo, e altra ancor più varia umanità sgomiti per avere il posto in lista, indipendentemente da contenuti programmatici, orizzonti ideologici, e perfino, a volte, simbolo e identità della lista, civica o no che sia: purché si trovi sistemazione.

La storia dei sindaci che fanno i furbetti, per non dimettersi dalla carica, rientra in questo quadro, E non è solo figlia di un eccesso di scaltrezza: è il segno che nessuno di questi primi cittadini ha più voglia di primeggiare davvero, cioè di assegnare un valore esemplare al proprio comportamento politico: a meno che non vogliano suggerire ai loro concittadini di provarsi a fare pure loro i furbi, cercando di aggirare ordinanze e regolamenti comunali.

Ma che c’entra Matteo Renzi in tutto questo? Non molto ma un po’ sì, volente o nolente, e non solo per il richiamo di Bassolino alle doverose assunzioni di responsabilità da parte di tutti (e da parte di tutti significa invero dall’ultimo militante, al segretario di circolo al segretario di federazione su su fino al segretario nazionale del partito), ma perché un simile esito non è obbligato. E però c’è il rischio che di fronte a forme di malcostume così generalizzate ci si ritragga dai propositi di rinnovamento, e ci si adegui a quello che il Paese offre, almeno in periferia. L’atteggiamento perfettamente simmetrico al gattopardismo imperante consiste infatti nell’affidarsi alle camarille volta a volte vincenti a livello locale, senza provare a modificare equilibri e rapporti di forze, e accontentandosi dell’ossequio formale alle retoriche nazionali.

Ma una simile misura di realismo, che in generale nuoce a qualsiasi programma di riforme, si rileva particolarmente deleterio nel Mezzogiorno, che ha un serissimo problema di classe dirigente. C’è qui un rischio supplementare: che prevalga cioè la convinzione che non porti voti, o non ne procuri di nuovi, impegnarsi nella costruzione di una nuova politica (e una nuova classe politica) per il Mezzogiorno. La convinzione, in altre parole, che il Sud sia venuto a noia, all’opinione pubblica o alla sua fetta più influente sul piano nazionale, così che valga la pena solo prendersi tutto quel che può dare, lasciandolo dove lo si è trovato: cioè in ritardo rispetto al resto del Paese. Se così fosse, un’occasione storica andrebbe purtroppo persa, e il barone di Salina finirebbe con l’avere un’altra volta ragione.

(Il Mattino, 18 aprile 2014)

Blitz alla Diaz, il poliziotto senza freni

Acquisizione a schermo intero 15042015 125938.bmp«Mille e mille volte». Non una, non due o cento, ma mille. Fabio Tortosa rientrerebbe mille e mille volte nella caserma Diaz. E per farci cosa? Se ci fu tortura, per torturare? Se i manifestanti furono massacrati di botte, per picchiare e massacrare ancora? Il poliziotto che su Facebook ha rivendicato con orgoglio di essere stato quella notte alla Diaz, durante il G8 di Genova, insieme ad altri ottanta agenti, si è poi trincerato dietro la verità processuale, come se nel frattempo non fosse intervenuta la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. O piuttosto: proprio perché è intervenuta. Il post su Facebook di Fabio Tortosa è precisamente un commento a quella sentenza, e vuol dire: qualunque cosa dica la legge, qualunque cosa dicano i tribunali, qualunque cosa i «perbenisti» pensino, io so, io c’ero, io ho fatto quel che ho fatto e benché non possa dirlo forte, senza incorrere in conseguenze di legge, voglio che sappiate che lo rifarei mille volte: con la stessa brutalità, che era quel che ci voleva per quelle «merde» che avevamo portato quella notte alla Diaz.

In realtà, il «perbenismo» che Tortosa tanto disprezza è soltanto l’atteggiamento di un normale cittadino che non chiede una gestione dell’ordine pubblico sul modello della Diaz o di Bolzaneto. Che non consente a nessuno, nemmeno a un pubblico ufficiale, l’arbitrio, la violenza, la tortura. Che non ammette che nessuno sia trattato come una «merda», qualunque cosa si pensi di lui. E che, infine, non accetta per nessun motivo che tutta la distanza che la legge mette tra due persone che si fronteggiano si riduca, si consumi e si azzeri fino a lasciare l’uno alla completa mercé dell’altro: segregato, spogliato, offeso e violentato.

Bene hanno fatto Renzi ed Alfano a intervenire subito, pubblicamente, e a condannare con forza le parole di Tortosa, ma intanto: cosa sta accadendo? È come se un sordo ribollire nelle viscere della società, un malessere di fondo che per lo più rimane inavvertito, ogni tanto trovasse uno sfogo immediato, una sorta di subitaneo «passaggio all’atto», attratto irresistibilmente dalla possibilità di avere una immediata risonanza universale: grazie, anzitutto, ai social network. È come se fossimo sempre più spinti a pensare (o piuttosto a sentire) così: voglio proprio dire questa cosa, e posso dirla al mondo intero, e nulla si frappone fra me e lo spazio «mondiale» della rete; dunque, la dico senz’altro. Subito. Ora. A volte ciò accade anche con una sorprendente noncuranza delle conseguenze, perché certo Tortosa non se la passerà bene per via di quel post vergognoso. Ma la vergogna, in rete, è scomparsa. Né è questione di rivendicare coerenza o coraggio: nessuno infatti chiamerebbe coraggio uno sfogo, sbagliato o giusto che sia. Stavolta è sbagliato, orribilmente sbagliato, ma resta il fatto che non abbiamo ancora preso le misure, individualmente e collettivamente, con questo aspetto inedito della «disintermediazione» tecnologica, per cui i primi ad essere «disintermediati», cioè in fondo completamente disinibiti, siamo noi stessi. I freni inibitori saltano:  non hanno funzionato alla Diaz; non hanno funzionato nemmeno stavolta, su Facebook. È come se in rete tutti ci fossimo messi a parlare ad alta voce anche dei nostri fatti più intimi e privati, delle nostre pulsioni e dei nostri fantasmi, e ad urlare quasi senza accorgercene, incuranti di effetti e circostanze. Ed è proprio questo continuo, enorme frastuono, questa universale propensione alla dichiarazione pubblica che rende sempre più difficile contenersi e limitarsi: il poliziotto a fare il poliziotto, il magistrato a fare il magistrato, il professionista a fare il professionista. Perché ogni volta questo significherebbe fare il proprio lavoro trovando in esso e solo in esso, o nella trama ordinaria dei rapporti personali, familiari, amicali o professionali, il proprio giusto riconoscimento (e, anche, la propria misura).

Questo riconoscimento, evidentemente, non basta più: sembra anzi che sia immiserito, ridotto di formato, tolto o calpestato dai «like» che si raccolgono sui social network a centinaia, a migliaia, a milioni. Straordinario strumento di condivisione, non c’è dubbio. Ma, purtroppo, a volte anche di divisione.

(Il Mattino, 15 aprile 2015)

Il bollino etico non risolve la crisi dei partiti

Acquisizione a schermo intero 15042015 120407.bmpE così Renzi deve occuparsi anche della grana delle candidature locali. Renzi e i vertici nazionali del partito, visto che sul piano locale non si trova, come si dice, la quadra. Il proverbio latino – aliquando dormitat Homerus: a volte anche Omero si appisola – giustifica il sonnellino una volta, forse due. Ma poi Omero si deve svegliare e affrontare la situazione dentro il partito democratico per quello che è: un casino.

Un casino non tanto perché i casi siano numerosi o clamorosi: magari anche per quello. Magari anche perché in Campania a Pomigliano si è sommata Giugliano, e a Giugliano si è sommata Ercolano; e, in Sicilia, a Enna si è sommata Agrigento, e in tutti questi casi viene messa pesantemente in discussione ora la presentabilità del candidato, ora la correttezza delle procedure di selezione (le primarie), ora entrambe le cose. Ma più ancora che la somma dei casi sta la grande incertezza che regna ovunque, un senso di precarietà delle scelte e di aleatorietà delle decisioni che non trova spiegazione solo nelle vicende locali ma getta radice in una condizione di profonda fragilità dei partiti politici.

Ora Matteo Renzi pare intenzionato a prendere di petto quelle situazioni che, più di altre, appaiono controverse. Ma come, e cosa, farà? Le situazioni controverse, obiettivamente, vi sono. Vi sono a tal punto che a lungo lo è stata anche quella più rilevante politicamente: quella che in Campania concerne il candidato governatore, Vincenzo De Luca. E anche nella sua vicenda la cosa che sorprende di più non è tanto la decisione finale, di prescindere dalla condanna in primo grado e dall’impatto della legge Severino, quanto la lunga impasse che è durata fino a ieri l’altro, fino a quando il fedelissimo Luca Lotti non è venuto a mettere fine a voci ed illazioni, dubbi e mal di pancia, confermando che il candidato del Pd è proprio lui, il sindaco di Salerno. Ma ci sono voluti quattro rinvii delle primarie, e più di un mese dalla proclamazione del risultato: politicamente parlando, un tempo lunghissimo.

Perché allora le candidature locali appaiono così esposte a contestazioni e ricorsi, insubordinazioni e rifiuti? Certo i dirigenti del Pd possono decidere di intervenire e giudicare l’un caso più scabroso dell’altro, e qui avallare e lì invece bocciare, qui giudicare un candidato impresentabile lì invece promuoverlo a pieni voti e tirare dritto, ma a ben vedere si tratta solo della superficie del fenomeno. Non è la bollinatura, tempestiva o tardiva che sia, a risolvere il problema. Può al massimo tamponare la falla, ma non riportare a galla la barca.

Il problema è il partito politico. Che cosa è, o cosa ne resta. Se infatti si assottiglia troppo il partito, lo si svuota di contenuti ideologici, programmatici o culturali, lo si priva di funzioni formative e rappresentative, e lo si riduce a una bruta macchina di selezione della classe dirigente, per giunta in assenza di regole certe, è quasi inevitabile che finisca così, con risultati sospesi e legittimazioni contestate. L’opinione pubblica è giustamente preoccupata dello scadimento morale, ma il cittadino dovrebbe essere altrettanto, se non ancor più preoccupato dello scadimento della natura stessa delle compagini politiche. Con il giudizio sulla idoneità morale o sulla onorabilità di questo o quel candidato si cerca di porre un argine su un primo fronte (in maniera a sua volta moralmente dubbia, perché queste cose van fatte prima, non dopo, ingenerando il sospetto che ci siano figli e figliastri), ma non si cura affatto l’altro fronte, tanto più rilevante. Soprattutto quando si sposta lo sguardo dal centro verso la periferia. I sociologi sanno che le periferie sono il luogo in cui la temperatura politica raggiunge più facilmente la massima intensità: trascurarlo significa rischiare di prendere una febbre da cui non è facile guarire. Né è facile immaginare dove quelle energie politiche, non governate, possano in futuro scaricarsi.

Dai partiti, dalle loro antenne sui territori (finché ce l’hanno) dipende una buona manutenzione della sfera pubblica. I partiti sono l’interfaccia fra le istituzioni e la società: se non funzionano, se per un verso si arroccano nelle istituzioni, o per l’altro si lasciano interamente permeare dalla società, senza esercitare un principio di distinzione – se questo accade, l’esito è purtroppo scontato, ed è un esito pessimo.

La Costituzione non dice molto sui partiti: li indica come attori del processo di formazione della politica nazionale, ma non si spinge oltre. Ogni tanto si torna a parlare di una legge sui partiti che, dando ad essi un profilo pubblico, li costringerebbe ad osservare standard più stringenti di quelli richiesti attualmente (cioè, di fatto, non richiesti). Non sarebbe male se il Pd e gli altri partiti se ne occupassero, e provassero ad intestarsi una battaglia non so quanto popolare, ma sicuramente riformatrice. E gioverebbe a tutti, o quasi: sia quando Omero dormicchia che quando si assenta, come è accaduto nel centrodestra nelle scorse settimane e negli scorsi mesi, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. In uno schieramento politico e nell’altro sono pochissime, purtroppo, le epiche imprese che oggi si possono cantare.

(Il Mattino, 14 aprile 2015)

La breccia di Lecce sul muro della leadership

mura crepate

È mai accaduto, nel centrodestra, che la leadership di Silvio Berlusconi fosse contestata al punto che la sua direzione politica ne venisse apertamente sconfessata? È mai accaduto che qualcuno, posto dinanzi alla scelta fra il Cavaliere e il capo dell’opposizione interna, preferisse quest’ultimo? No, non era mai accaduto fino ad ora. Ma ora è accaduto, ora che Francesco Schittulli, candidato di Forza Italia alla guida della regione Puglia, ha mollato il partito al suo destino per ottenere il sostegno di Raffaele Fitto, contro le tassative indicazioni di segno opposto provenienti da Arcore. Il veto su Fitto è caduto, e sono adesso i berlusconiani a dover casomai andare al seguito e rimanere aggrappati.
Conta ovviamente il peso elettorale di Fitto nella regione: senza il suo appoggio Schittulli non ha chance di vittoria. Ma è arduo trovare un segnale più fragoroso della profonda crisi che attraversa oggi il centrodestra. All’inizio, cioè nel 1994, era il Verbo, e il Verbo era stato assai ben accolto: di opposizione interne non aveva neppure senso parlare. Nel corso di un ventennio Berlusconi ha perso e ritrovato alleati, e ha attratto a sé forze e personalità anche distanti, culturalmente e ideologicamente, dall’area moderata e di destra che è riuscito per lungo tempo a coagulare attorno a sé, riunendo in un’unica alleanza perfino la Lega secessionista e la Destra nazionale, spingendo al voto azzurro uomini molto diversi: ex filosofi marxisti e illustri professori liberali, democristiani di lungo corso e socialisti di provata fede, perfino repubblicani e repubblichini. E nessuna di queste componenti ha mai potuto disegnare un’area di minoranza, un’opposizione interna, un dissenso organizzato. Malumori e disaccordi rientravano, e se proprio non potevano essere ricomposti, non producevano molto di più di qualche solitaria rinuncia, o di qualche lenta ma inesorabile emarginazione politica.
In un partito univocamente caratterizzato dal carisma del Cavaliere, una normale dialettica interna non ha mai potuto stabilirsi. Ci hanno provato, esplicitamente o implicitamente, in molti – da Fini a Tremonti, da Casini a Follini -: non ha mai funzionato. E non poteva funzionare, perché il partito di Berlusconi esisteva nell’elettorato solo grazie a Berlusconi. Naturalmente, in tanti anni, non pochi dei quali trascorsi a Palazzo Chigi (e alla guida di amministrazioni periferiche), si sono formati e sono esistiti anche un partito nel governo e un partito nell’organizzazione, con gruppi dirigenti fedeli al Cavaliere ma legati anche a cordate locale e ai plenipotenziari della macchina di partito: Scajola prima, Denis Verdini poi. Ma quel che conta sono i voti e il progetto politico, e l’uno e l’altro sono sempre rimasti intestati al Cavaliere, il che scongiurava ogni pericolo di disarticolazione.
Ormai, però, non è più così: più che le disavventure giudiziarie, hanno potuto la caduta del governo nel 2011, le deludenti elezioni del 2013, l’ascesa di Renzi nel 2014. Succede così che non vi sia più nulla – né la linea politica né il consenso – per spegnere i conflitti che scoppiano dentro il partito. E mentre prima poteva bastare a Berlusconi isolare o cacciare il dissidente di turno, ora succede che all’angolo ci finisce lui. Schittulli forse lo sa, forse no, ma si è assunto la parte che nella favola è del bambino il quale dice a voce alta ciò che tutti fingono di non vedere: che il Re è nudo.
Berlusconi è nudo: i sondaggi danno Forza Italia al suo punto più basso; figure storiche come Sandro Bondi lasciano il partito e contestano apertamente gli uomini e le donne più vicine al Cavaliere; né, infine, Alfano né Salvini ragionano più come Fini o Bossi, come se cioè Berlusconi potesse ancora essere il loro trait d’union. E, oltre a tutto ciò, Fitto gli dimostra che può avere più forza attrattiva di lui, o anche solo più facilità di movimento di lui. Accusano Fitto di «sete di potere», ma il punto è proprio questo: prima, chi aveva sete di potere stava con Berlusconi, non contro di lui.
In Campania, l’altra grande regione del Mezzogiorno che va al voto, le cose sono un po’ diverse. Non però perché Forza Italia abbia molte più carte da spendere, ma perché ne ha ancora qualcuna Caldoro. Se infatti Area popolare sembra propensa a rimanere nell’area di centrodestra, è in virtù della forza del governatore uscente. Che in verità può esercitarsi su due terreni: uno è quello del sottogoverno locale, delle residue promesse di fine mandato; l’altro è riconducibile all’«incumbency factor», alla tendenza dell’elettorato a premiare la continuità amministrativa, quando può dare un giudizio positivo sull’esperienza conclusa, ma soprattutto quando giudica che essa ha bisogno, per compiersi, di continuare per un altro mandato. Ora è chiaro che non potranno essere le ultime, frettolose nomine a decidere in questo senso. I tre profili di partito prima descritti – il partito nell’organizzazione, il partito nel governo, il partito nell’elettorato – possono comporsi in modo diverso. E se, invece di guardare all’elettorato con un progetto di governo, Caldoro si adagerà sul primo profilo, lasciando che prevalgano gli accordi fra notabili e conventicole, forse qualcosa rimarrà insieme, e una più rumorosa conflagrazione del centrodestra sarà evitata, ma in un senso non dinamico, non espansivo, bensì puramente difensivo. E, prima o poi, succederà così che altre nudità verranno allo scoperto.
Il Mattino, 5 aprile 2015

Qualcuno si fermi

downloadE così Silvio Berlusconi telefonava a Amedeo Laboccetta. L’unica reazione che una simile notizia ispira si può riassumere in un rotondo: «Beh?» . Ma non è questa la reazione dei carabinieri che sunteggiano l’intercettazione tra l’ex parlamentare del Pdl e il Cavaliere, e evidentemente non è la reazione dei solerti magistrati che prendono la notizia e la inseriscono nelle carte dell’inchiesta ischitana. Eh già: perché Amedeo Laboccetta aveva rapporti con il dirigente della Coop Concordia Francesco Simone (finito agli arresti); perché Laboccetta era, in virtù di questi rapporti, a sua volta intercettato; perché Laboccetta parlava con Silvio Berlusconi, e perché – soprattutto perché – in una di queste conversazioni Berlusconi confidava all’ex parlamentare che i giudici non aspettano altro che un suo passo falso per arrestarlo, su ordine, scrivono i carabinieri, nientepopodimeno che di Giorgio Napolitano.

Ricordate la fiera dell’Est? Venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo? Bene: con le intercettazioni è uguale, tu intercetti Tizio, che parla con Caio, che dice di Sempronio, che riferiva di Pinco Pallo: nella canzone di Branduardi alla fine veniva l’Angelo della Morte; qui finisce invece con l’orecchio di un carabiniere, e la disposizione di un magistrato che mette in piazza la conversazione carpita, anche se non c’è nessun rilievo penale, e nessuno, ma proprio nessun rapporto con i fatti contestati, l’inchiesta, la metanizzazione, le tangenti e quant’altro.

Ora, sicuramente verrà qualcuno a spiegarci che è però di rilevanza pubblica quanto così apprendiamo, che cioè Berlusconi non era sereno, temeva che i magistrati volessero fargliela pagare, diffidava del Presidente della Repubblica. Ma a parte il fatto che tutte queste cose Berlusconi le diceva, confidava o dichiarava un giorno sì e l’altro pure, e dunque non era per nulla una novità la preoccupazione che rivelava a Laboccetta, ma che razza di argomento è? Anche parole estorte con la tortura possono avere rilevanza pubblica, ma non per questo è una buona idea torturare gli inquisiti. Lo capisce chiunque: perché non riescono a capirlo quei magistrati che si divertono a tirare in ballo i politici importanti al solo scopo, si deve supporre, di dare maggiore risalto alle loro inchieste? Alle inchieste: finché esse durano, e, purtroppo, del tutto a prescindere da come spesso finiscono.

(Il Mattino, 3 aprile 2015)

L’italia e quella rivoluzione liberale sempre in sala d’attesa

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A volte capita che il paratesto la dica più lunga del testo stesso. Non perché il testo non abbia le sue ragioni, non contenga saggi interessanti e osservazioni acute. Ma perché le intenzioni del testo sono rese con grande esplicitezza fin nel titolo, nel sottotitolo e nell’esergo. Il titolo, anzitutto: «Il liberale che non c’è», ovvero quanta poca cultura liberale circola nelle vene della società e della politica italiana. Quindi il sottotitolo: «Manifesto per l’Italia che vorremmo», o dell’intenzione polemica e battagliera con cui gli autori prendono posizione e, se la parola non spiace troppo, partito. Infine l’esergo, una frase di Flaiano: «In Italia ci sono due fascismi: il fascismo e l’antifascismo», che con ironia metta una pietra tombale sull’Italia repubblicana, l’Italia dei partiti e della partitocrazia, delle corporazioni e degli ordini professionali, del capitalismo di relazione e della magistratura politicizzata. Poiché il libro esce ora, dopo vent’anni circa di seconda Repubblica, è da credere che per gli autori o almeno per il curatore, Corrado Ocone, siamo ancora là: poco o nulla è cambiato e di liberale la società italiana ha ancora ben poco, nonostante l’ultimo ventennio sia stato inaugurato da una rivoluzione liberale promessa ed evidentemente mai attuata.

Questo peraltro è il ruolo tradizionale che i liberali occupano nel nostro Paese: quello di bastian contrari, di minoranza a volte agguerrita, a volte un po’ meno, a cui niente o quasi va bene dello sviluppo del Paese. Sintetizzo in maniera un po’ brutale: la cultura politica italiana è distante anni luce da quella delle potenze liberali egemoni in Occidente (Dino Cofrancesco); la Costituzione italiana non è tra le più brutte del mondo ma poco ci manca (Marco Gervasoni); lo Stato è una presenza fin troppo ingombrante (Giuseppe Bedeschi); l’informazione mainstream ipocrita e sussiegosa (Giovanni Sallusti); nella scuola dominano stupidità e statalismo (Giancristiano Desiderio); la giustizia è un disastro e la sua riforma un’occasione perduta (Guido Vitiello, il saggio più brillante); la cultura femminista è una iattura (Laura Zambelli Del Rocino); sulla bioetica, la laicità regredisce invece di affermarsi (Luisella Battaglia); l’Europa, infine, è totalmente priva di visione (Paolo Savona, che però nel filone liberale ci sta decisamente stretto). La morale di tutto questo ragionare mi pare tuttavia si trovi riassunta nelle conclusioni del saggio di Luigi Marco Bassani sul federalismo (altra chimera): contrariamente a quei liberali per il quale il problema, in fondo, sono proprio gli italiani, Bassani se la prende con la casta, coi politici e gli «intellettuali», messi rigorosamente tra virgolette, per prenderne più ampiamente distanze. E considerandoli responsabili di cotanto disastro, Bassani non « può che ammirare profondamente il popolo» e augurarsi che il governo non riesca a cambiarlo. Cioè, in breve: che il governo governi il meno possibile. Questo è infatti da sempre il dilemma dei liberali italiani, per i quali élites e popolo non si sono mai o quasi mai incontrati nella storia del Belpaese, vuoi per colpa dell’uno vuoi per colpa degli altri. Alla fine, però il calabrone Italia vola – o almeno ha volato, per un cinquantennio di vita repubblicana – e a guardarlo volare c’è sempre stato almeno un liberale pensoso, incapace di scoprire come diavolo faccia.

(Il Messaggero, 2 aprile 2015)

Se lo stereotipo diventa una condanna

gomorra
Vi sono molti buoni motivi per apprezzare Gomorra: la scrittura, gli attori, l’impegno produttivo. Girata benissimo, venduta in decine e decine di paesi, ambiziosa, realistica e spettacolare, la serie Gomorra, di cui è in preparazione la seconda stagione, regge finalmente il confronto con le produzioni internazionali. Ma tra i suoi meriti va sicuramente incluso anche quello di non aver ceduto una sola volta alle querimonie del meridionalismo, ai detrattori del sudismo, ai campioni del moralismo. Non è pensabile che ogni volta il discorso su Napoli riprenda dalla oleografia o viceversa dalla denuncia, dalla difesa della città o dall’atto d’accusa, dal timore di finire nei luoghi comuni o dal piacere di crogiolarsi in essi. C’è in Gomorra un racconto, c’è una storia potente su uno sfondo potente, quasi metafisico, e in quello sfondo il profilo di una città livida, tenebrosa, funebre. C’è il male e non c’è il bene: nessun lieto fine, nessuna speranza di redenzione, nessuna facile consolazione. E funziona.
Perché allora non possono essere semplicemente lasciate cadere le parole che usa oggi il Cardinale Crescenzio Sepe, sull’«esagerazione» della realtà nel racconto cinematografico, sull’«offesa» recata alla città dall’identificazione di un’intera comunità con «la violenza e la prepotenza» rappresentate senza il soccorso di un giudizio morale, senza una presa di distanza critica, senza un «fine informativo e formativo», senza mettere in contrapposizione al male il bene «che pure esiste ed è tanto»?
Diciamolo con un esempio illustre, preso da un altro ambito ma anche da una delle più potenti riflessioni sull’arte consegnateci dal pensiero del ‘900. In un breve ed aureo saggio, il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty invitava i suoi lettori ad osservare un celebre quadro di Henri Matisse, «La danza». Si vedono cinque flessuose figure umane danzare tenendosi per mano sullo sfondo di due larghe campiture di colore, o forse sul confine del mondo: verde è il colore nella parte inferiore del quadro, blu intenso su tutto il resto della tela. Ebbene, Merleau-Ponty osservava che la grandezza del quadro, il suo miracolo sta forse in ciò, che noi non vi vediamo semplicemente rappresentata la danza, né è questione di realismo della rappresentazione. Per niente affatto: le posture delle figure sono anatomicamente improbabili. Eppure, dopo aver visto la danza di Matisse noi impariamo a vedere i ballerini «secondo» il canone stabilito dal quadro, la realtà (e il significato) della danza in base al quadro, non viceversa. Non conta cioè quello che vediamo nell’opera, ma quello che vediamo quasi per la prima volta grazie all’opera di Matisse.
Si sarà compreso il senso dell’esempio: se l’opera è riuscita, non è in ragione della rappresentazione più o meno fedele della realtà, ma perché d’ora innanzi sarà la realtà ad essere vista e illuminata a partire dalla sua rappresentazione. L’opera riuscita produce sempre un rovesciamento simile. Ed anche Gomorra, proprio in quanto è un’opera riuscita, produce una rivelazione del genere. Le vele di Scampia, le piazze, le terrazze non sono restituite con scrupolo sociologico: la serie ambisce però a svelarne la verità, e a farci vedere d’ora innanzi Scampia e Secondigliano con gli occhi impregnati della più vigorosa rappresentazione che sia stata finora data di esse al cinema o in televisione. Proprio per questo, la serie di Gomorra è anche di gran lunga più potente del romanzo di Roberto Saviano.
Se ora prendessimo le parole del cardinale come semplice frutto di un giudizio fuori luogo, ignaro della libertà dell’espressione o dell’autonomia dell’arte, a cui è sbagliato chiedere di tirare la morale della favola o sovrapporre preoccupazioni di ordine etico-politico, faremmo mostra di non comprendere non le intenzioni di Sepe, in ogni caso perfettamente legittime, ma le ambizioni dell’opera. Che non possono essere solo differenziate esteticamente, cioè relegate prudentemente nel recinto estetico per proteggerle da ogni presunta intrusione moralistica. Il punto non è nemmeno se sia tutto vero quello che si vede nella serie, e se non vi siano tanti semi di bontà nella città che Gomorra non coltiva e non lascia germogliare, condannando Napoli ad andare in giro nel mondo con un unico, irrimediabile vestito. Il punto è quale verità Napoli è ancora capace di generare, o se si vuole: quanti sguardi nuovi e altrettanto potenti possono prometterci ancora di rivelarne lo spirito, di aprircene i luoghi, di rigenerarne la storia e lo spirito, fuori da vecchi e nuovi stereotipi come da vecchie e nuove condanne. Aspettiamo naturalmente di vedere la serie, ma il rischio che Gomorra diventi solo una cifra stilistica, un marchio da sfruttare commercialmente e una linea di prodotti «made in Naples» c’è. E la soluzione, se così fosse, non sarebbe certo la recriminazione, ma la necessità di reinventare ancora Napoli da un’altra parte.

(Il Mattino di Napoli, 1 aprile 2015)