Archivi del giorno: aprile 3, 2015

Qualcuno si fermi

downloadE così Silvio Berlusconi telefonava a Amedeo Laboccetta. L’unica reazione che una simile notizia ispira si può riassumere in un rotondo: «Beh?» . Ma non è questa la reazione dei carabinieri che sunteggiano l’intercettazione tra l’ex parlamentare del Pdl e il Cavaliere, e evidentemente non è la reazione dei solerti magistrati che prendono la notizia e la inseriscono nelle carte dell’inchiesta ischitana. Eh già: perché Amedeo Laboccetta aveva rapporti con il dirigente della Coop Concordia Francesco Simone (finito agli arresti); perché Laboccetta era, in virtù di questi rapporti, a sua volta intercettato; perché Laboccetta parlava con Silvio Berlusconi, e perché – soprattutto perché – in una di queste conversazioni Berlusconi confidava all’ex parlamentare che i giudici non aspettano altro che un suo passo falso per arrestarlo, su ordine, scrivono i carabinieri, nientepopodimeno che di Giorgio Napolitano.

Ricordate la fiera dell’Est? Venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo? Bene: con le intercettazioni è uguale, tu intercetti Tizio, che parla con Caio, che dice di Sempronio, che riferiva di Pinco Pallo: nella canzone di Branduardi alla fine veniva l’Angelo della Morte; qui finisce invece con l’orecchio di un carabiniere, e la disposizione di un magistrato che mette in piazza la conversazione carpita, anche se non c’è nessun rilievo penale, e nessuno, ma proprio nessun rapporto con i fatti contestati, l’inchiesta, la metanizzazione, le tangenti e quant’altro.

Ora, sicuramente verrà qualcuno a spiegarci che è però di rilevanza pubblica quanto così apprendiamo, che cioè Berlusconi non era sereno, temeva che i magistrati volessero fargliela pagare, diffidava del Presidente della Repubblica. Ma a parte il fatto che tutte queste cose Berlusconi le diceva, confidava o dichiarava un giorno sì e l’altro pure, e dunque non era per nulla una novità la preoccupazione che rivelava a Laboccetta, ma che razza di argomento è? Anche parole estorte con la tortura possono avere rilevanza pubblica, ma non per questo è una buona idea torturare gli inquisiti. Lo capisce chiunque: perché non riescono a capirlo quei magistrati che si divertono a tirare in ballo i politici importanti al solo scopo, si deve supporre, di dare maggiore risalto alle loro inchieste? Alle inchieste: finché esse durano, e, purtroppo, del tutto a prescindere da come spesso finiscono.

(Il Mattino, 3 aprile 2015)

L’italia e quella rivoluzione liberale sempre in sala d’attesa

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A volte capita che il paratesto la dica più lunga del testo stesso. Non perché il testo non abbia le sue ragioni, non contenga saggi interessanti e osservazioni acute. Ma perché le intenzioni del testo sono rese con grande esplicitezza fin nel titolo, nel sottotitolo e nell’esergo. Il titolo, anzitutto: «Il liberale che non c’è», ovvero quanta poca cultura liberale circola nelle vene della società e della politica italiana. Quindi il sottotitolo: «Manifesto per l’Italia che vorremmo», o dell’intenzione polemica e battagliera con cui gli autori prendono posizione e, se la parola non spiace troppo, partito. Infine l’esergo, una frase di Flaiano: «In Italia ci sono due fascismi: il fascismo e l’antifascismo», che con ironia metta una pietra tombale sull’Italia repubblicana, l’Italia dei partiti e della partitocrazia, delle corporazioni e degli ordini professionali, del capitalismo di relazione e della magistratura politicizzata. Poiché il libro esce ora, dopo vent’anni circa di seconda Repubblica, è da credere che per gli autori o almeno per il curatore, Corrado Ocone, siamo ancora là: poco o nulla è cambiato e di liberale la società italiana ha ancora ben poco, nonostante l’ultimo ventennio sia stato inaugurato da una rivoluzione liberale promessa ed evidentemente mai attuata.

Questo peraltro è il ruolo tradizionale che i liberali occupano nel nostro Paese: quello di bastian contrari, di minoranza a volte agguerrita, a volte un po’ meno, a cui niente o quasi va bene dello sviluppo del Paese. Sintetizzo in maniera un po’ brutale: la cultura politica italiana è distante anni luce da quella delle potenze liberali egemoni in Occidente (Dino Cofrancesco); la Costituzione italiana non è tra le più brutte del mondo ma poco ci manca (Marco Gervasoni); lo Stato è una presenza fin troppo ingombrante (Giuseppe Bedeschi); l’informazione mainstream ipocrita e sussiegosa (Giovanni Sallusti); nella scuola dominano stupidità e statalismo (Giancristiano Desiderio); la giustizia è un disastro e la sua riforma un’occasione perduta (Guido Vitiello, il saggio più brillante); la cultura femminista è una iattura (Laura Zambelli Del Rocino); sulla bioetica, la laicità regredisce invece di affermarsi (Luisella Battaglia); l’Europa, infine, è totalmente priva di visione (Paolo Savona, che però nel filone liberale ci sta decisamente stretto). La morale di tutto questo ragionare mi pare tuttavia si trovi riassunta nelle conclusioni del saggio di Luigi Marco Bassani sul federalismo (altra chimera): contrariamente a quei liberali per il quale il problema, in fondo, sono proprio gli italiani, Bassani se la prende con la casta, coi politici e gli «intellettuali», messi rigorosamente tra virgolette, per prenderne più ampiamente distanze. E considerandoli responsabili di cotanto disastro, Bassani non « può che ammirare profondamente il popolo» e augurarsi che il governo non riesca a cambiarlo. Cioè, in breve: che il governo governi il meno possibile. Questo è infatti da sempre il dilemma dei liberali italiani, per i quali élites e popolo non si sono mai o quasi mai incontrati nella storia del Belpaese, vuoi per colpa dell’uno vuoi per colpa degli altri. Alla fine, però il calabrone Italia vola – o almeno ha volato, per un cinquantennio di vita repubblicana – e a guardarlo volare c’è sempre stato almeno un liberale pensoso, incapace di scoprire come diavolo faccia.

(Il Messaggero, 2 aprile 2015)