A volte capita che il paratesto la dica più lunga del testo stesso. Non perché il testo non abbia le sue ragioni, non contenga saggi interessanti e osservazioni acute. Ma perché le intenzioni del testo sono rese con grande esplicitezza fin nel titolo, nel sottotitolo e nell’esergo. Il titolo, anzitutto: «Il liberale che non c’è», ovvero quanta poca cultura liberale circola nelle vene della società e della politica italiana. Quindi il sottotitolo: «Manifesto per l’Italia che vorremmo», o dell’intenzione polemica e battagliera con cui gli autori prendono posizione e, se la parola non spiace troppo, partito. Infine l’esergo, una frase di Flaiano: «In Italia ci sono due fascismi: il fascismo e l’antifascismo», che con ironia metta una pietra tombale sull’Italia repubblicana, l’Italia dei partiti e della partitocrazia, delle corporazioni e degli ordini professionali, del capitalismo di relazione e della magistratura politicizzata. Poiché il libro esce ora, dopo vent’anni circa di seconda Repubblica, è da credere che per gli autori o almeno per il curatore, Corrado Ocone, siamo ancora là: poco o nulla è cambiato e di liberale la società italiana ha ancora ben poco, nonostante l’ultimo ventennio sia stato inaugurato da una rivoluzione liberale promessa ed evidentemente mai attuata.
Questo peraltro è il ruolo tradizionale che i liberali occupano nel nostro Paese: quello di bastian contrari, di minoranza a volte agguerrita, a volte un po’ meno, a cui niente o quasi va bene dello sviluppo del Paese. Sintetizzo in maniera un po’ brutale: la cultura politica italiana è distante anni luce da quella delle potenze liberali egemoni in Occidente (Dino Cofrancesco); la Costituzione italiana non è tra le più brutte del mondo ma poco ci manca (Marco Gervasoni); lo Stato è una presenza fin troppo ingombrante (Giuseppe Bedeschi); l’informazione mainstream ipocrita e sussiegosa (Giovanni Sallusti); nella scuola dominano stupidità e statalismo (Giancristiano Desiderio); la giustizia è un disastro e la sua riforma un’occasione perduta (Guido Vitiello, il saggio più brillante); la cultura femminista è una iattura (Laura Zambelli Del Rocino); sulla bioetica, la laicità regredisce invece di affermarsi (Luisella Battaglia); l’Europa, infine, è totalmente priva di visione (Paolo Savona, che però nel filone liberale ci sta decisamente stretto). La morale di tutto questo ragionare mi pare tuttavia si trovi riassunta nelle conclusioni del saggio di Luigi Marco Bassani sul federalismo (altra chimera): contrariamente a quei liberali per il quale il problema, in fondo, sono proprio gli italiani, Bassani se la prende con la casta, coi politici e gli «intellettuali», messi rigorosamente tra virgolette, per prenderne più ampiamente distanze. E considerandoli responsabili di cotanto disastro, Bassani non « può che ammirare profondamente il popolo» e augurarsi che il governo non riesca a cambiarlo. Cioè, in breve: che il governo governi il meno possibile. Questo è infatti da sempre il dilemma dei liberali italiani, per i quali élites e popolo non si sono mai o quasi mai incontrati nella storia del Belpaese, vuoi per colpa dell’uno vuoi per colpa degli altri. Alla fine, però il calabrone Italia vola – o almeno ha volato, per un cinquantennio di vita repubblicana – e a guardarlo volare c’è sempre stato almeno un liberale pensoso, incapace di scoprire come diavolo faccia.
(Il Messaggero, 2 aprile 2015)
E dai riferimenti mi sembra proprio che continua a non esserci… Mi sembra che qui ancora una volta si confonda un’area border line (nella migliore delle ipotesi) tra liberalismo e conservatorismo, saltando a piè pari il liberalismo nella sua centralità: aperto; dinamico; per le libertà ed i diritti (tutti: civili, politici, socio-economici, ambientali e della conoscenza ed informazione; di tutti e presi sul serio, non solo di chi se li può permettere e che non si chiamano libertà ma privilegi); quel liberalismo impegnato a riedificare e rinnovare profondamente il welfare che ha disegnato lo scorso secolo, piuttosto che a distruggerlo; quello dell’equilibrio tra il centro (politico, di contenuti; non opportunista di schieramento) e le ansie della sinistra (che significa progressismo e non certo socialismo); per non parlare delle posizioni più spinte del liberalradicalismo (che integra femminismo, ambientalismo, libertarismo, partiti pirata ed altre ricerche di libertà e spazi di non-conformismo); se guardo ai gruppi storici di un tale liberalismo io li vedo nella sommatoria del meglio di destra e sisnistra storica,a ssieme alla estrema, nei liberali e progressisti che erano nel PLI, PRI, PdA-GL, talvolta in PSI-PSDI e nella “sinistra indipendente” che si esprimeva nel PCI. ben pochi erano in quel centro destra e in quella destra che in Italia si è sempre negata anche ad esprimere il difficile mix lib-Conservatori per andare dietro ad antistatalismo, nostalgie e un moderato clericalismo di facciata. Uno spazio che era tra DC e MSI e che oggi è distribuito tra FI, NCD, UDC, FdI e lega. mentre nel versante proprio dei liberali appare difficile vederlo nell’opportunismo e pragmatismo del PD (nuovo centro poltico senza anima -cioè cultura politica) e in SEL col suo vacuo libertarismo in connubio con un’anticapitalismo vecchio che non sa distinguere il filo rosso che c’è tra la libertà economica e le altre libertà e non sa cogliere la profonda differenza tra liberismo e liberalismo.