Archivi del giorno: aprile 15, 2015

Blitz alla Diaz, il poliziotto senza freni

Acquisizione a schermo intero 15042015 125938.bmp«Mille e mille volte». Non una, non due o cento, ma mille. Fabio Tortosa rientrerebbe mille e mille volte nella caserma Diaz. E per farci cosa? Se ci fu tortura, per torturare? Se i manifestanti furono massacrati di botte, per picchiare e massacrare ancora? Il poliziotto che su Facebook ha rivendicato con orgoglio di essere stato quella notte alla Diaz, durante il G8 di Genova, insieme ad altri ottanta agenti, si è poi trincerato dietro la verità processuale, come se nel frattempo non fosse intervenuta la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. O piuttosto: proprio perché è intervenuta. Il post su Facebook di Fabio Tortosa è precisamente un commento a quella sentenza, e vuol dire: qualunque cosa dica la legge, qualunque cosa dicano i tribunali, qualunque cosa i «perbenisti» pensino, io so, io c’ero, io ho fatto quel che ho fatto e benché non possa dirlo forte, senza incorrere in conseguenze di legge, voglio che sappiate che lo rifarei mille volte: con la stessa brutalità, che era quel che ci voleva per quelle «merde» che avevamo portato quella notte alla Diaz.

In realtà, il «perbenismo» che Tortosa tanto disprezza è soltanto l’atteggiamento di un normale cittadino che non chiede una gestione dell’ordine pubblico sul modello della Diaz o di Bolzaneto. Che non consente a nessuno, nemmeno a un pubblico ufficiale, l’arbitrio, la violenza, la tortura. Che non ammette che nessuno sia trattato come una «merda», qualunque cosa si pensi di lui. E che, infine, non accetta per nessun motivo che tutta la distanza che la legge mette tra due persone che si fronteggiano si riduca, si consumi e si azzeri fino a lasciare l’uno alla completa mercé dell’altro: segregato, spogliato, offeso e violentato.

Bene hanno fatto Renzi ed Alfano a intervenire subito, pubblicamente, e a condannare con forza le parole di Tortosa, ma intanto: cosa sta accadendo? È come se un sordo ribollire nelle viscere della società, un malessere di fondo che per lo più rimane inavvertito, ogni tanto trovasse uno sfogo immediato, una sorta di subitaneo «passaggio all’atto», attratto irresistibilmente dalla possibilità di avere una immediata risonanza universale: grazie, anzitutto, ai social network. È come se fossimo sempre più spinti a pensare (o piuttosto a sentire) così: voglio proprio dire questa cosa, e posso dirla al mondo intero, e nulla si frappone fra me e lo spazio «mondiale» della rete; dunque, la dico senz’altro. Subito. Ora. A volte ciò accade anche con una sorprendente noncuranza delle conseguenze, perché certo Tortosa non se la passerà bene per via di quel post vergognoso. Ma la vergogna, in rete, è scomparsa. Né è questione di rivendicare coerenza o coraggio: nessuno infatti chiamerebbe coraggio uno sfogo, sbagliato o giusto che sia. Stavolta è sbagliato, orribilmente sbagliato, ma resta il fatto che non abbiamo ancora preso le misure, individualmente e collettivamente, con questo aspetto inedito della «disintermediazione» tecnologica, per cui i primi ad essere «disintermediati», cioè in fondo completamente disinibiti, siamo noi stessi. I freni inibitori saltano:  non hanno funzionato alla Diaz; non hanno funzionato nemmeno stavolta, su Facebook. È come se in rete tutti ci fossimo messi a parlare ad alta voce anche dei nostri fatti più intimi e privati, delle nostre pulsioni e dei nostri fantasmi, e ad urlare quasi senza accorgercene, incuranti di effetti e circostanze. Ed è proprio questo continuo, enorme frastuono, questa universale propensione alla dichiarazione pubblica che rende sempre più difficile contenersi e limitarsi: il poliziotto a fare il poliziotto, il magistrato a fare il magistrato, il professionista a fare il professionista. Perché ogni volta questo significherebbe fare il proprio lavoro trovando in esso e solo in esso, o nella trama ordinaria dei rapporti personali, familiari, amicali o professionali, il proprio giusto riconoscimento (e, anche, la propria misura).

Questo riconoscimento, evidentemente, non basta più: sembra anzi che sia immiserito, ridotto di formato, tolto o calpestato dai «like» che si raccolgono sui social network a centinaia, a migliaia, a milioni. Straordinario strumento di condivisione, non c’è dubbio. Ma, purtroppo, a volte anche di divisione.

(Il Mattino, 15 aprile 2015)

Il bollino etico non risolve la crisi dei partiti

Acquisizione a schermo intero 15042015 120407.bmpE così Renzi deve occuparsi anche della grana delle candidature locali. Renzi e i vertici nazionali del partito, visto che sul piano locale non si trova, come si dice, la quadra. Il proverbio latino – aliquando dormitat Homerus: a volte anche Omero si appisola – giustifica il sonnellino una volta, forse due. Ma poi Omero si deve svegliare e affrontare la situazione dentro il partito democratico per quello che è: un casino.

Un casino non tanto perché i casi siano numerosi o clamorosi: magari anche per quello. Magari anche perché in Campania a Pomigliano si è sommata Giugliano, e a Giugliano si è sommata Ercolano; e, in Sicilia, a Enna si è sommata Agrigento, e in tutti questi casi viene messa pesantemente in discussione ora la presentabilità del candidato, ora la correttezza delle procedure di selezione (le primarie), ora entrambe le cose. Ma più ancora che la somma dei casi sta la grande incertezza che regna ovunque, un senso di precarietà delle scelte e di aleatorietà delle decisioni che non trova spiegazione solo nelle vicende locali ma getta radice in una condizione di profonda fragilità dei partiti politici.

Ora Matteo Renzi pare intenzionato a prendere di petto quelle situazioni che, più di altre, appaiono controverse. Ma come, e cosa, farà? Le situazioni controverse, obiettivamente, vi sono. Vi sono a tal punto che a lungo lo è stata anche quella più rilevante politicamente: quella che in Campania concerne il candidato governatore, Vincenzo De Luca. E anche nella sua vicenda la cosa che sorprende di più non è tanto la decisione finale, di prescindere dalla condanna in primo grado e dall’impatto della legge Severino, quanto la lunga impasse che è durata fino a ieri l’altro, fino a quando il fedelissimo Luca Lotti non è venuto a mettere fine a voci ed illazioni, dubbi e mal di pancia, confermando che il candidato del Pd è proprio lui, il sindaco di Salerno. Ma ci sono voluti quattro rinvii delle primarie, e più di un mese dalla proclamazione del risultato: politicamente parlando, un tempo lunghissimo.

Perché allora le candidature locali appaiono così esposte a contestazioni e ricorsi, insubordinazioni e rifiuti? Certo i dirigenti del Pd possono decidere di intervenire e giudicare l’un caso più scabroso dell’altro, e qui avallare e lì invece bocciare, qui giudicare un candidato impresentabile lì invece promuoverlo a pieni voti e tirare dritto, ma a ben vedere si tratta solo della superficie del fenomeno. Non è la bollinatura, tempestiva o tardiva che sia, a risolvere il problema. Può al massimo tamponare la falla, ma non riportare a galla la barca.

Il problema è il partito politico. Che cosa è, o cosa ne resta. Se infatti si assottiglia troppo il partito, lo si svuota di contenuti ideologici, programmatici o culturali, lo si priva di funzioni formative e rappresentative, e lo si riduce a una bruta macchina di selezione della classe dirigente, per giunta in assenza di regole certe, è quasi inevitabile che finisca così, con risultati sospesi e legittimazioni contestate. L’opinione pubblica è giustamente preoccupata dello scadimento morale, ma il cittadino dovrebbe essere altrettanto, se non ancor più preoccupato dello scadimento della natura stessa delle compagini politiche. Con il giudizio sulla idoneità morale o sulla onorabilità di questo o quel candidato si cerca di porre un argine su un primo fronte (in maniera a sua volta moralmente dubbia, perché queste cose van fatte prima, non dopo, ingenerando il sospetto che ci siano figli e figliastri), ma non si cura affatto l’altro fronte, tanto più rilevante. Soprattutto quando si sposta lo sguardo dal centro verso la periferia. I sociologi sanno che le periferie sono il luogo in cui la temperatura politica raggiunge più facilmente la massima intensità: trascurarlo significa rischiare di prendere una febbre da cui non è facile guarire. Né è facile immaginare dove quelle energie politiche, non governate, possano in futuro scaricarsi.

Dai partiti, dalle loro antenne sui territori (finché ce l’hanno) dipende una buona manutenzione della sfera pubblica. I partiti sono l’interfaccia fra le istituzioni e la società: se non funzionano, se per un verso si arroccano nelle istituzioni, o per l’altro si lasciano interamente permeare dalla società, senza esercitare un principio di distinzione – se questo accade, l’esito è purtroppo scontato, ed è un esito pessimo.

La Costituzione non dice molto sui partiti: li indica come attori del processo di formazione della politica nazionale, ma non si spinge oltre. Ogni tanto si torna a parlare di una legge sui partiti che, dando ad essi un profilo pubblico, li costringerebbe ad osservare standard più stringenti di quelli richiesti attualmente (cioè, di fatto, non richiesti). Non sarebbe male se il Pd e gli altri partiti se ne occupassero, e provassero ad intestarsi una battaglia non so quanto popolare, ma sicuramente riformatrice. E gioverebbe a tutti, o quasi: sia quando Omero dormicchia che quando si assenta, come è accaduto nel centrodestra nelle scorse settimane e negli scorsi mesi, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. In uno schieramento politico e nell’altro sono pochissime, purtroppo, le epiche imprese che oggi si possono cantare.

(Il Mattino, 14 aprile 2015)