«Mille e mille volte». Non una, non due o cento, ma mille. Fabio Tortosa rientrerebbe mille e mille volte nella caserma Diaz. E per farci cosa? Se ci fu tortura, per torturare? Se i manifestanti furono massacrati di botte, per picchiare e massacrare ancora? Il poliziotto che su Facebook ha rivendicato con orgoglio di essere stato quella notte alla Diaz, durante il G8 di Genova, insieme ad altri ottanta agenti, si è poi trincerato dietro la verità processuale, come se nel frattempo non fosse intervenuta la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. O piuttosto: proprio perché è intervenuta. Il post su Facebook di Fabio Tortosa è precisamente un commento a quella sentenza, e vuol dire: qualunque cosa dica la legge, qualunque cosa dicano i tribunali, qualunque cosa i «perbenisti» pensino, io so, io c’ero, io ho fatto quel che ho fatto e benché non possa dirlo forte, senza incorrere in conseguenze di legge, voglio che sappiate che lo rifarei mille volte: con la stessa brutalità, che era quel che ci voleva per quelle «merde» che avevamo portato quella notte alla Diaz.
In realtà, il «perbenismo» che Tortosa tanto disprezza è soltanto l’atteggiamento di un normale cittadino che non chiede una gestione dell’ordine pubblico sul modello della Diaz o di Bolzaneto. Che non consente a nessuno, nemmeno a un pubblico ufficiale, l’arbitrio, la violenza, la tortura. Che non ammette che nessuno sia trattato come una «merda», qualunque cosa si pensi di lui. E che, infine, non accetta per nessun motivo che tutta la distanza che la legge mette tra due persone che si fronteggiano si riduca, si consumi e si azzeri fino a lasciare l’uno alla completa mercé dell’altro: segregato, spogliato, offeso e violentato.
Bene hanno fatto Renzi ed Alfano a intervenire subito, pubblicamente, e a condannare con forza le parole di Tortosa, ma intanto: cosa sta accadendo? È come se un sordo ribollire nelle viscere della società, un malessere di fondo che per lo più rimane inavvertito, ogni tanto trovasse uno sfogo immediato, una sorta di subitaneo «passaggio all’atto», attratto irresistibilmente dalla possibilità di avere una immediata risonanza universale: grazie, anzitutto, ai social network. È come se fossimo sempre più spinti a pensare (o piuttosto a sentire) così: voglio proprio dire questa cosa, e posso dirla al mondo intero, e nulla si frappone fra me e lo spazio «mondiale» della rete; dunque, la dico senz’altro. Subito. Ora. A volte ciò accade anche con una sorprendente noncuranza delle conseguenze, perché certo Tortosa non se la passerà bene per via di quel post vergognoso. Ma la vergogna, in rete, è scomparsa. Né è questione di rivendicare coerenza o coraggio: nessuno infatti chiamerebbe coraggio uno sfogo, sbagliato o giusto che sia. Stavolta è sbagliato, orribilmente sbagliato, ma resta il fatto che non abbiamo ancora preso le misure, individualmente e collettivamente, con questo aspetto inedito della «disintermediazione» tecnologica, per cui i primi ad essere «disintermediati», cioè in fondo completamente disinibiti, siamo noi stessi. I freni inibitori saltano: non hanno funzionato alla Diaz; non hanno funzionato nemmeno stavolta, su Facebook. È come se in rete tutti ci fossimo messi a parlare ad alta voce anche dei nostri fatti più intimi e privati, delle nostre pulsioni e dei nostri fantasmi, e ad urlare quasi senza accorgercene, incuranti di effetti e circostanze. Ed è proprio questo continuo, enorme frastuono, questa universale propensione alla dichiarazione pubblica che rende sempre più difficile contenersi e limitarsi: il poliziotto a fare il poliziotto, il magistrato a fare il magistrato, il professionista a fare il professionista. Perché ogni volta questo significherebbe fare il proprio lavoro trovando in esso e solo in esso, o nella trama ordinaria dei rapporti personali, familiari, amicali o professionali, il proprio giusto riconoscimento (e, anche, la propria misura).
Questo riconoscimento, evidentemente, non basta più: sembra anzi che sia immiserito, ridotto di formato, tolto o calpestato dai «like» che si raccolgono sui social network a centinaia, a migliaia, a milioni. Straordinario strumento di condivisione, non c’è dubbio. Ma, purtroppo, a volte anche di divisione.
(Il Mattino, 15 aprile 2015)