Archivi del mese: Maggio 2015

I nemici del voto alle crociate

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Domani microfoni spenti e silenzio elettorale, dopodomani urne aperte e scrutatori ai seggi, il terzo giorno la rivelazione dei risultati. Il triduo del voto, la liturgia laica del suffragio, la festa della rappresentanza. Che però ha preso un aspetto imprevisto, dal momento che la qualità democratica dell’esperienza che si viene compiendo nella tornata amministrativa di domenica sembra essere l’ultimo dei pensieri che affanna o esalta l’opinione pubblica. Al penultimo posto sta il confronto programmatico, che solo a sprazzi riesce a calamitare un po’ di attenzione, mentre al primo posto sta indiscutibilmente il manipolo degli impresentabili. Hanno fatto molto male ad arruolarli. Bisogna fare nomi e cognomi. Inquinano le liste. Offendono la gente per bene. La nera nuvolaglia delle polemiche si rovescia sulla campagna elettorale, inzuppando ogni cosa.

Se ne poteva fare a meno? Certo che sì. Si poteva fare a meno di infilarsi nel ginepraio della legge Severino, per via della condanna in primo grado di Vincenzo De Luca? Sì, con altrettanta certezza. Ma viene o no un momento in cui si dice: cosa fatta capo ha? In democrazia quest’ora viene ed è adesso: è il voto. Che non lava via tutti i peccati, non monda da ogni colpa, non rimette indietro le lancette dell’orologio, ma fissa un punto, e lascia anzi che siano gli elettori a fissarlo. Non si tratta, naturalmente, di contrapporre la volontà politica a corti e tribunali: se un pronunciamento popolare valesse come un’assoluzione, sarebbe manomessa infatti ogni garanzia liberale. Il fatto è che, però, al piano propriamente giuridico, che ha o dovrebbe avere il suo corso regolare, secondo diritti e procedure, si è sovrapposto un altro tipo di giudizio, assai più volubile, che culmina con la dichiarazione di impresentabilità rilasciata quest’oggi dalla Commissione antimafia, non si capisce su quali basi.  Si tratta di un giudizio morale, dal momento che è palesemente privo di effetti giuridici: nessun nome verrà infatti cancellato dalle liste, nessun candidato verrà depennato. Non si esercita però una moral suasion vera e propria, in questo modo, ma piuttosto un’opera di persuasione tutta mediatica, che alimenta l’ondata di indignazione cresciuta senza posa in queste settimane. Non è la prima volta che accade, sta anzi divenendo la regola delle elezioni in Italia: all’approssimarsi del voto, i temi di confronto politico e programmatico finiscono progressivamente sullo sfondo, e il discrimine morale diviene la linea di demarcazione su cui si attestano gli opinion leader: gli intellettuali prestigiosissimi, i magistrati autorevolissimi, le firme illustrissime. A cui manca poco, sempre meno, quasi nulla per disertare sdegnati le urne. Tra l’esercizio del proprio alto magistero intellettuale e la bassura democratica del voto finiscono così col preferire – in nome della morale, beninteso – il primo. E tanto peggio per il secondo.

Sto facendo dell’ironia? Un poco. Non però perché non siano da considerarsi prestigiosi o autorevoli quegli intellettuali o quelle firme. Ma perché colpisce quanta poca attenzione vi sia, in simili campagne di stampa, per la vera moralità della politica, che sta  nella necessità di rispondere e dare conto delle conseguenze del proprio agire. Moralità che deve appartenere anche a chi interviene nella sfera pubblica, e con certe improvvise intransigenze sostituisce alla lotta politica l’anatema moralistico. La lotta politica richiede un impegno vero fra gli elettori, per battere un’ipotesi di governo che si giudica dannosa per il proprio paese, per la propria città, per la propria regione, e proporne magari un’altra. Per l’anatema morale è sufficiente invece il solo pulpito mediatico. È come nella prassi parlamentare (mi si passi l’analogia): vi è il merito delle leggi e vi sono le eccezioni preliminari. Nessuno vuole che le eccezioni non siano presentate e discusse. Ma un gruppo politico che si caratterizzasse esclusivamente per la presentazione di raffiche di eccezioni, condendole magari con alte grida sull’alterazione truffaldina dei principi costituzionali, difficilmente produrrebbe buona legislazione. Più realisticamente, non ne produrrebbe alcuna.

Questo è infatti il pericolo, l’azzeramento della politica e lo sfibramento della democrazia, sottoposta a esami soffocanti, deprimenti, incessanti; e infine, per lo più, vani. Oltre che del tutto anomali nelle forme e nei tempi: non c’è forse qualcosa di guasto nell’annunciare i fatidici nomi degli impresentabili nel giorno di chiusura della campagna elettorale? Di cosa si tratta, infatti, in mancanza di conseguenze certe, se non del peggior uso simbolico che si possa fare un delicato organo parlamentare? Naturalmente, gli indignati di professione tirano fuori la storia del dito e la luna: invece di prendersela coi malfattori, ce la si prende con quelli che denunciano i malfattori, dicono. Ma a parte il fatto che le denunciano dovrebbero riguardare anzitutto le malefatte, piuttosto che i malfattori, resta inevasa la domanda di cosa rimane della più schietta risorsa che la politica custodisce, e di cui anche la democrazia più virtuosa ha bisogno: la forza di fare le cose. Il voto è lo strumento di rigenerazione della batteria che alimenta l’agire politico: se lo si mette sotto tutela, non darà più alcuna carica, anche se saranno state correttamente recitate tutte le avvertenze per l’uso.

(Il Mattino, 29 maggio 2015)

I delusi dal voto che sognano la politica semplice

Immagine3La delusione che Biagio De Giovanni ha espresso ieri sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno è qualcosa di più di un sentimento personale. Cade peraltro nello stesso giorno in cui Raffaele Cantone dichiara che andrà al voto, ma – aggiunge – «non sarà un piacere»: la delusione, dunque, in certo modo riguarda anche lui. Ma delusi per chi o per cosa? Nel caso di De Giovanni, il motivo di delusione è Renzi. Che a livello nazionale lascia sperare in una politica davvero rinnovata, mentre a livello locale, «nelle periferie dell’impero, torna a macinare nei vecchi mulini». Il vecchio mulino da macina è, nella circostanza, il sindaco di Salerno De Luca, che Matteo Renzi, da segretario del Pd, non ha rinunciato a sostenere nella campagna elettorale in corso.

Ora, non c’è riga del filosofo De Giovanni – dico nei suoi libri, non solo nei suoi articoli – che non dia modo di ricavare una severa (e alta, mai cinica o meschina) lezione di realismo: perché dunque questa volta si mette nei panni più volubili di un filosofo «con la testa fra le nuvole», quando invece l’ha sempre tenuta ben dentro i tornanti della storia, secondo la lezione dei suoi maggiori, di Vico o di Hegel? Perché, spiega, una forte discontinuità era da augurarsi anche in Campania: non per semplice ingenuità, ma per necessità politica. La regione, infatti, ha più che mai bisogno di energie nuove, fresche, e invece si ritrova con volti vecchi e, qualche volta, impresentabili.

C’è del vero, naturalmente, in questo argomento. Il Mezzogiorno ha un problema di classe dirigente che non ha sin qui saputo risolvere, e che si ripropone anche in queste elezioni: per esempio, nella formazione delle liste. Ma c’è anche, nella delusione di De Giovanni, una lampante sottovalutazione del dato di fondo di questa tornata elettorale: al confronto vanno non due vecchi leoni della politica locale ma due esperienze amministrative, e su queste è richiesto il giudizio degli elettori. Caldoro chiede di essere confermato alla guida della regione in nome del risanamento dei conti, e del disastro sui rifiuti su cui si infranse la precedente stagione di governo del centrosinistra. De Luca, invece, porta con sé gli anni trascorsi alla guida di Salerno, più di venti, come prova delle sue capacità di amministratore: è poco? È molto? Vedremo. Ma c’è un pizzico di vaghezza nell’immaginare che lo schema renziano della rottamazione, con tutto l’afflato per il nuovo che comporta, possa essere replicato tal quale a Palazzo Santa Lucia come a Palazzo Chigi, indipendentemente dai percorsi politici territoriali, dal contesto sociale, dalla condizione dei partiti regionali.

Renzi ha approfittato con grande scaltrezza del logoramento di una generazione intera di dirigenti democratici, già sperimentatisi al governo, e sostanzialmente bocciati nel voto elettorale del 2013. Invece, né De Luca né Caldoro hanno ancora subito un giudizio simile. Anzi: entrambi rivendicano per sé stessi un successo. Naturalmente si può dare un giudizio negativo sulle loro prove: si può imputare a Caldoro incapacità di produrre idee, visioni per lo sviluppo della regione, e non solo una manutenzione prudente dei conti pubblici. E, allo stesso modo, si può apprezzare poco il tratto decisamente sbrigativo di De Luca, e riconoscervi solo l’antico vizio notabilare della politica meridionale. Ma nell’uno e nell’altro caso bisogna comunque passare attraverso la fisiologia dei processi politici democratici – la loro maturazione, l’aprirsi e l’esaurirsi dei loro cicli – e non pretendere di sostituire ad essi un astratto dover essere, e il rimpianto per quel che doveva essere e, purtroppo, non è stato.

C’è di più: a Napoli i principali partiti politici nazionali sono già franati una volta: nel 2011, quando Luigi De Magistris vinse le elezioni municipali approfittando del naufragio delle primarie democratiche e dell’impreparazione del centrodestra. La rottura, dunque, c’è stata, la rottamazione pure: quale bilancio però ne dobbiamo trarre? Ieri il sindaco di Napoli esultava alla notizia del voto spagnolo per Podemos: ecco altri che finalmente hanno scassato, proprio come lui. E però De Magistris è al governo ormai da quattro anni: forse dovrebbe trovarsi un’altra parte in commedia.

Ma forse, più in generale e più realisticamente, la politica non è palingenesi, ma una costruzione molto più faticosa e contraddittoria di quanto ci si possa augurare. E neanche a un leader come Renzi può riuscire di semplificarla del tutto. O di distribuire tutte le carte e giocare tutte le partite: qualcuna toccherà pure ai cittadini elettori, di giocarla.

(Il Mattino – ed. Napoli, 27 maggio 2015)

Andare oltre l’ondata moralistica

Acquisizione a schermo intero 23052015 131949.bmpI luoghi, i gesti, le strette di mano. A otto giorni dal voto, la contemporanea presenza di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi in Campania, a sostegno dei rispettivi candidati, Vincenzo De Luca e Stefano Caldoro, viene seguita dall’opinione pubblica metro dopo metro, fotogramma dopo fotogramma. La politica è fatta di parole e di programmi, ma anche di volti, di presenze, di incontri, di sale gremite e di microfoni, visite e atti simbolici, dichiarazioni e silenzi. E, contrariamente a quel che si dice, lamentando la piega personalistica della politica contemporanea, i leader non calamitano l’attenzione solo su di loro, a detrimento di tutto il resto, ma contribuiscono anzi a restituire il senso di un confronto politico al voto di fine mese, fin qui oscurato dal rimpallo delle polemiche sugli impresentabili, sulla legge Severino e tutto il resto. Naturalmente il tema della moralità della politica esiste, così come d’altra parte esiste l’esigenza di misurare gli schieramenti in lizza sulla base dei programmi, e dell’idea complessiva di sviluppo della Regione che propongono.

Ma c’è anche una partita politica che il fuoco di sbarramento dell’indignazione ha finora impedito di delineare. Lo sanno molto bene sia Renzi che Berlusconi: su entrambi grava l’onere di comporre e unire le forze, contrastando le piccole e grandi tendenze centrifughe manifestatesi nei rispettivi schieramenti.

Berlusconi è più indietro: l’ultima diaspora degli uomini di Raffaele Fitto dimostra che il processo di ricomposizione, sia o non il Cavaliere a guidarlo a livello nazionale, non è ancora cominciato. Ma c’è una necessità di sistema alla quale prima o poi il centrodestra non potrà non corrispondere, perché la nuova legge elettorale, l’Italicum, assegna un premio di maggioranza al partito, non alla coalizione. E, dunque, in ordine sparso alle prossime politiche, con rimasugli e spezzoni, partitini e liste personali non potrà certo andare.

Ora, proprio in Campania il centrodestra mostra una compattezza che altrove non ha, a riprova del valore politico di questo voto. Con l’unica, in fondo marginale eccezione di De Mita, passato armi e bagagli con De Luca, Caldoro ha saputo tenere insieme la maggioranza che lo ha sostenuto in questi anni, compreso quel Nuovo Centrodestra che a Roma è invece alleato con Renzi: non era affatto scontato. Il progetto che il Cavaliere ha preso a coltivare, una sorta di partito repubblicano sul modello americano, qui trova subito una cartina di tornasole e una base di consenso piuttosto larga.

Quanto a Renzi, quel che è fatto finora mostra se non altro la sua determinazione nel costruire un partito dai connotati profondamente mutati. Altri lo chiamano partito della nazione, come se fosse soltanto un indistinto spazio onniaccogliente. In realtà Renzi ha semplicemente dimostrato di non temere l’opposizione che gli viene da sinistra, dall’interno e dall’esterno del Pd, e la piccola, modesta diaspora che il Pd sta subendo, priva com’è di di apprezzabili effetti politici, gli sta dando ragione. Ha fatto il jobs act, la legge elettorale e sta facendo la riforma della scuola: ha cioè manomesso la costituency tradizionale del partito di sinistra. Se, dopo tutto ciò, i sismografi registrano solo un Civati che se ne va, vuol dire proprio che non ha sbagliato i conti.

Da dove potrebbero venire allora le scosse maggiori? Dall’astensione, o dal risultato dei Cinquestelle. Cioè da quei comportamenti elettorali che traggono indubbio vantaggio dalla colorazione moralistica della campagna elettorale. È, questa, una mera constatazione politologica, che naturalmente non assolve nessuno dai suoi obblighi: dinanzi alla legge o dinanzi alla coscienza. Le liste dubbie, i candidati impresentabili, le ineleggibilità a norme di legge (a meno di ricorsi e sospensioni) non dovrebbero nemmeno essere della partita. Lo sono, e sollevano (un po’ ad arte, un po’ no) ondate di indignazione. Ma quando poi l’onda si ritira rimane il problema di ciò che lascia dopo il suo passaggio. Ieri Renzi ha affermato che non basta la repressione: la camorra la si combatte anzitutto con il lavoro. Affermazione sensata e del tutto condivisibile. Si può proporre allora una analogia, e chiedere con cosa si battono collusioni e connivenze della classe dirigente locale, se cioè non sia proprio la costruzione di un genuino terreno politico di confronto ad essere in ogni senso decisiva. Anche sul piano della moralità della politica. Ma allora, per sterrare il terreno, ci vuole molto di più della polemica sulle liste. Se Berlusconi e Renzi sono venuti per promuovere questo lavoro, allora sono entrambi i benvenuti.

(Il Mattino, 23 maggio 2015)

Caldoro –De Luca eterne promesse e vecchi insulti

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Un’altra volta tutti e cinque insieme. Stavolta però seduti, nel piccolo studio di Rai 3: Salvatore Vozza, Sinistra e Lavoro, sulla sinistra, con la spilletta al bavero della giacca; Marco Esposito, lista meridionalista MO!,  informale, col pullover  azzurro; Valeria Ciarambino, Cinquestelle, con lo sguardo sempre a metà tra il conduttore e la telecamera; poi De Luca rigido, occhi piccoli e dito steccato; infine Caldoro, attentissimo alla postura, al fianco di De Luca ma in realtà quasi in un’altra inquadratura, tanto i due si son tenuti distanti.

E si parte. Il confronto deve avvenire sui temi, e i temi ci sono tutti: sanità, trasporti, rifiuti, fondi europeiu. Forse, tenendosi a ridosso dei programmi, i due principali competitor possono sottrarsi al paradosso per cui in un caso o nell’altro i campani eleggeranno un’anatra zoppa: azzoppata dalla Severino e dalla freddezza del partito democratico, nel caso di De Luca; dallo sfarinamento politico del centrodestra nel caso di Caldoro.

Su tutti i capitoli del bilancio regionale, De Luca e Caldoro si scaldano un po’, scambiandosi la stessa accusa: dici fesserie. Per De Luca non s’è fatto nulla, Per Caldoro il possibile. Per De Luca Caldoro non può dare la colpa agli altri se il porto di Napoli non funziona, se le ecoballe sono ancora per terra, se le liste d’attesa  in sanità sono eterne; per Caldoro, De Luca dimentica come il centrosinistra ha lasciato la regione nel 2009: con l’immondizia che arrivava al terzo piano, senza treni regionali e con le voragini nel bilancio. Un rimpallo di responsabilità? Sì, ma è normale: siamo in campagna elettorale. Però rispetto al precedente confronto De Luca appare decisamente più aggressivo, più ringhioso: riesce persino a ripetere due o tre volte la parola che, è evidente, gli piace di più: «vergogna!», all’indirizzo dell’avversario politico. Caldoro, dal canto suo, è stato abile, almeno nell’intervento finale, a mettere in scena il pezzo che si era preparato: staccarsi dallo schienale della sedia, avvicinarsi convinto alla telecamera, pesare le parole e mettere sul piatto la bellezza di un miliardo di euro: 500 milioni per le imprese, 500 milioni per le famiglie povere. Come il Berlusconi d’altri tempi (o forse il Renzi di oggi). A quanti lo rimproverano di non aver detto nulla sul futuro della regione ha provato a rispondere così, con un bel gruzzolo, mentre De Luca nell’appello agli elettori sfoderava il suo antico cavallo di battaglia: la polemica sulla «palude burocratica della regione».

Gli altri però non hanno affatto giocato il ruolo da comprimari. Almeno non Marco Esposito e Valeria Ciarambino. Quanto a Salvatore Vozza , è stato l’unico a usare le parole: destra, sinistra, centrodestra, centrosinistra. Ma le usava in una chiave vetero-ideologica, quasi solo per certificare la propria esistenza in vita. Per la verità, Vozza ha provato pure qualche colpo ad effetto: tirando fuori l’abbonamento alla circumvesuviana, e proponendo di firmare subito, seduta stante, la proposta grillina che tutti dichiarano di condividere, sul reddito di cittadinanza. Ma quel che veramente Vozza aveva da dire (e ripeteva quasi ad ogni intervento) era solo che De Luca e Caldoro, Pd e centrodestra per lui pari sono. Un richiamo della foresta a tutti gli elettori di sinistra, smarriti a causa della mutazione renziana. E così da una parte c’era un po’ del vecchio vocabolario politico del Novecento, per racimolare un po’ di voti identitari; dall’altra parte si svolgeva, udite udite, il confronto programmatico vero e proprio.

Ma anche il fiume di parole di Valeria Ciarambino. A cui si deve la comparsa, per la prima volta in un appello agli elettori, dell’espressione «residuo vetrificato», pronunciata a una velocità tale che solo un orecchio ben allenato avrà potuto coglierla, collegandola in maniera pertinente a tutto il resto del discorso.  I comuni mortali no: avranno magari apprezzato la foga, ma capito molto poco. I Cinquestelle rimangono la terza forza, se non addirittura la seconda, del panorama politico nazionale, capace di attrarre i voti di tutti quelli che non sono soddisfatti (e sono molti) dell’offerta politica tradizionale. Ma quando non hanno modo di parlare di vitalizi e indennità da abolire, condannati e corrotti da cacciare, rivelano una preoccupante prossimità con il genere di discorso fondamentalista: che si tratti di rifiuti o di mammografie (come Grillo qualche giorno fa), sciorinano la stessa incrollabile certezza, la stessa inflessibile dottrinarietà. Con incidenti di percorso come quello che Marco Esposito, apparso di gran lunga il più preciso della compagnia, ha notato: il reddito di cittadinanza proposto dalla Ciarambino costerebbe venti volte quanto da lei dichiarato. Un’enormità. Ma poco importa: come dice Emmanuel Carrère nel suo ultimo libro sui primi cristiani, i grillini sono coloro che da duemila anni vomitano via dalla loro bocca i tiepidi, quelli che non sono né caldi né freddi (e magari fanno pure di calcolo).

A parte la precisazione – e qua e là Esposito ne ha fatte cadere anche altre: sui trasporti pubblici locali o sui progetti europei – al capofila di MO! va il merito di aver posto con forza un tema politico centrale, che capisce chiunque, al di là di bilanci e promesse: è vero o no che la Campania e il Mezzogiorno soffrono di scarsa attenzione (eufemismo) da parte del governo nazionale? È vero, e qua e là hanno provato a dirlo anche De Luca e Caldoro. Ma Esposito lo ha potuto dire chiaro e tondo, gli altri due solo tra le righe: Caldoro per distinguere le responsabilità proprie da quelle altrui, De Luca per cercare di riproporre la verve polemica che nel passato metteva, da Salerno, contro Napoli. Ma l’uno e l’altro non possono certo prendersela con Renzi ed il governo: De Luca perché Renzi è il segretario del suo partito, Caldoro perché ha appena ricevuto dal premier la patente di «persona seria», e difatti lo ha prontamente ricordato, cercando di approfittarne. E così uno dei temi più sentiti, potenzialmente più mobilitanti, uno di quei temi intorno a cui una regione come la Campania avrebbe motivo di far sentire la sua voce, almeno quanto la fanno sentire, tirando la corda dall’altro capo, il Veneto o la Lombardia, vive in questa campagna elettorale solo di striscio, grazie a una piccola lista che, pur con tutta la simpatia e benevolenza del mondo, difficilmente porterà il suo candidato governatore a Palazzo Santa Lucia.

Ma magari colui che invece ci andrà, tra De Luca e Caldoro, lo chiamerà benevolo alla sua destra: dopo tutto, anche un’anatra zoppa lo può fare.

(Il Mattino, 20 maggio 2015)

Gli outsider all’attacco

imageIn piedi, dinanzi a un podio, i candidati alla guida della Regione Campania sono riusciti a stare senza difficoltà dentro le regole del confronto televisivo. Ed è un punto di merito, che hanno segnato tutti e cinque. Suonava il gong, e loro si tacevano: disciplinatamente. Il conduttore, dal canto suo, ha guidato il confronto sui binari programmatici, tenendo aperti capitoli importanti: prima la disoccupazione, più avanti la sanità, quindi i trasporti e la Terra dei fuochi: ce n’è di che parlare. E a due settimane dal voto viene anche un po’ di rammarico perché la campagna elettorale avrebbe potuto davvero aiutare i cittadini a scegliere. Dopo la prima risposta, i cinque profili erano infatti già nettamente delineati: Salvatore Vozza, Sinistra e Lavoro, insisteva sulla disoccupazione giovanile; Valeria Ciarambino, dei Cinquestelle, reclamava il reddito di cittadinanza; Marco Esposito, lista meridionalista Mo!, lamentava l’enorme squilibrio nei progetti europei a favore del Nord; Caldoro parlava con enfasi dei cantieri aperti in questi cinque anni; De Luca batteva e ribatteva sulla sburocratizzazione. Poi è venuta la seconda, inevitabile domanda: la campagna avvelenata dalla polemica sugli impresentabili. Nessuno ha voluto far nomi, ma Esposito e Ciarambino l’hanno giocata tutta in attacco; Caldoro e De Luca in difesa (mentre Vozza, sciorinando i nomi dei presentabili, cioè dei suoi futuri assessori, s’è tirato fuori dalla mischia). Difficile dire quanta parte del voto si orienterà in base alla qualità delle liste, ai condannati e agli inquisiti, alla quota di trasformisti presenti nell’uno o nell’altro schieramento, ma nel dibattito, salvo Valeria Ciarambino, la più aggressiva, non c’era molta voglia di discutere di queste cose. Non è un caso che il maggior numero di repliche si è avuto su un tema di programma, i trasporti, con Caldoro che difendeva l’opera di risanamento e imputava ai tagli del governo le falle del sistema, e De Luca che invece addossava tutte le responsabilità all’amministrazione Caldoro.

Difficile dire chi ha vinto: di sicuro si sono delineati con chiarezza alcuni stili comunicativi. Ciarambino parlava a manetta, sciorinando indiscutibili certezze; Caldoro tirava fuori cartelli e dati ad ogni risposta, e cercava di ribadire così la sua immagine di affidabile uomo delle istituzioni; Marco Esposito, col pullover colorato, sceglievalo stile più informale, e soprattutto insisteva più di ogni altro sull’identità meridionalista della lista; Vozza aveva l’aria un po’ demodé, ma che voleva anche essere rassicurante, della sinistra tradizionale; De Luca si è tenuto invece parecchio lontano dal cliché del sindaco sceriffo, e molto lontano anche dalla imitazione che gli ha regalato Crozza: solo alla fine, sull’ultimo gong,  ha sfoderato il suo piglio decisionista.

Poi il conduttore si è preso la libertà di chiedere a Caldoro e De Luca, che nella scenografia dello studio si sono trovati dalla stessa parte, di guardarsi una buona volta. E i due si sono voltati. Fino a quel momento, non si erano rivolti un solo sguardo. Nulla di personale, ovviamente: ma non v’è dubbio che i due erano i più ingessati, forse perché sono entrambi quelli che più hanno da perdere dalla sfida. Per entrambi si tratta di una partita decisiva: o la polvere o gli altari. Per De Luca è l’ultimo assalto ad un palcoscenico diverso da quello locale, e probabilmente morde il freno per gli ostacoli che gli sono stati buttati nel corso di questa campagna elettorale, dalla legge Severino all’intervista a Saviano. Che qualcosa non gli sia andata per il verso giusto lo dimostra anche il fatto che la Ciarambino, che pure guida una lista anti-sistema, ha polemizzato molto più con lui che con Caldoro. Quanto a quest’ultimo, governatore in carica, è l’ultimo punto di coagulo del centrodestra nel Mezzogiorno: sa bene che senza un risultato positivo il processo di frantumazione proseguirà, e sarà molto difficile immaginarsi, nel breve periodo, linee di ricostruzione di una proposta politica.

Poi sono venuti gli appelli finali. Chissà a cosa servono. Chissà se esiste un elettore al mondo che cambia al voto sulla base delle poche parole che i candidati rivolgono agli elettori in quei pochi secondi finali. Quelli di Sky ci hanno provato in realtà due volte: la prima, quando hanno chiesto a tutti i candidati di rivolgersi a Gomorra senza abbassare lo sguardo; la seconda, appunto, con gli appelli finali. Ma se è lecito interrompere la cronaca, la battuta più felice l’ha avuta, con gli occhi alla telecamera, Marco Esposito, che citando Luciano De Crescenzo, in “Così parlò Bellavista”, ha detto quello che tutti pensiamo dei camorristi: che fanno una vita di merda. È pure ora, però, che i cittadini campani facciano una vita migliore.

(Il Mattino, 18 maggio 2015)

L’insufficienza dell’onesta

Acquisizione a schermo intero 16052015 141556.bmpNella consueta rubrica che tiene sull’Espresso, Roberto Saviano riserva questa volta, nelle ultime righe, una piccola sorpresa. Non è che l’articolo non faccia già notizia per le critiche che lo scrittore indirizza a Grillo. Il leader dei Cinquestelle se l’era presa infatti con Veronesi e la sua Fondazione, sostenendo che si capisce perché il celebre oncologo vada così spesso in tv a parlare di prevenzione e di mammografia: perché riceve finanziamenti dall’industria farmaceutica. A Saviano non ci vuol molto obiettare che, da qualunque parte provengano i finanziamenti, la prevenzione è importante e salva vite umane: la dichiarazione rilasciata da Grillo è apparsa subito « folle», e però lo hanno detto tutti o quasi, sicché nessuna sorpresa. Poi però Saviano fa un altro passo: la butta in politica, e lì si meraviglia che nessuno nel movimento abbia preso le distanze dal leader, e in particolare che non l’abbia fatto Valeria Ciarambino, la candidata donna dei Cinquestelle in Campania, dove più forte è – probabilmente per cause ambientali – l’incidenza del tumore al seno sulla mortalità femminile. Infine Saviano fa un ultimo passo, e arriva la morale. Che non è la solita. E qui sta la sorpresa, perché la lezione che lo scrittore trae dalla vicenda non è affatto in linea con le censure abitualmente destinate alla politica e ai politici, bacchettati sempre per indecenze, ambiguità, timidezze e contiguità con la criminalità organizzata. Stavolta a finire sul banco degli imputati sono l’onesto Grillo e gli onesti tutti. La morale suona infatti così: «in politica l’ignoranza degli onesti è una cosa molto, molto pericolosa. Non basta essere incensurati, non condannati, non indagati. Bisogna essere prima di tutto responsabili». Ovviamente, Saviano non intende affatto che l’onestà non conti, e non costituisca anzi un requisito essenziale della buona politica. Tuttavia, forse perché la logica del ragionamento sin lì condotto lo spingeva a tanto, o forse perché funzionava bene come conclusione, questa volta apprendiamo dalla penna del campione indiscusso di moralità del paese – l’unico in grado di bacchettare persino Cantone, in questa materia – che la prima cosa per un politico non è l’onestà: la prima cosa è la responsabilità. Max Weber, quello della politica come professione e dell’etica come responsabilità opposta all’etica dell’intenzione (che cioè se ne frega delle conseguenze del suo agire) non avrebbe saputo dir meglio. Si spiega così: Grillo fa la morale, se poi le donne smettono di  farsi la mammografia a lui cosa mai importa? Lui ha detto (o presunto di dire, in tutta onestà) la verità, costi quel che costi.

Ma allora: se, in un confronto a due, fossimo chiamati a scegliere fra un politico onesto ma irresponsabile e un politico disonesto ma responsabile, dovremmo forse preferire il secondo, in base al «prima di tutto la responsabilità» di Saviano? Attenzione: è solo un paradosso. Non si vuol cioè dire, né Saviano dice, che è giocoforza essere disonesti, se si vuol esser responsabili. Di più, in una regione fortemente permeata dalla criminalità organizzata, e con un debole senso della legalità come la Campania, la disonestà è forse la prima delle irresponsabilità. Ma rimane sorprendente vedere Saviano lasciar perdere per una volta l’intemerata morale e prendersela invece col partito degli onesti: cioè degli onesti ad ogni costo, che si pretendono in pace con la loro coscienza, salvo dire o fare clamorose stupidaggini.

Ma dalle parole di Saviano capiamo anche un’altra cosa, ancor più dirompente della prima: che cioè se abbiamo la (buona?) ventura di imbatterci in un politico onesto, dalla coscienza non pulita ma pulitissima, anzi adamantina, anzi inattaccabile, c’è caso che proprio questa sua inattaccabilità lo armi oltre misura e lo renda addirittura «pericoloso» per la democrazia, particolarmente (aggiungiamo noi) in un tempo in cui l’indignazione morale produce effetti politici molto più che le proteste sociali o le organizzazioni di partito.  Gli antichi chiamavano hybris, tracotanza, la tendenza a spingersi oltre il confine assegnato dagli dèi agli uomini. Ormai gli dèi sono fuggiti dalla sfera pubblica, e confini simili non ce ne sono più. Ma è bello che sia proprio Saviano ad accorgersi degli sconfinamenti che vengono comunque compiuti da chi pontifica in nome della morale. Non siamo infatti al racconto autobiografico, ma ci piace pensare che poco ci manca.

(Il Mattino, 16 maggio 2015)

Prove tecniche per il partito della nazione

Acquisizione a schermo intero 13052015 171027.bmpCaldoro è una persona seria e De Luca è un buon amministratore: chi la mette così non dà certo l’impressione di stare da una parte sola, soltanto con l’uno o soltanto con l’altro. Eppure a metterla così è stato il premier Renzi, che non incidentalmente si trova ad essere anche il segretario del partito democratico. Cioè del partito di De Luca, non di Caldoro. Ma l’intervento di ieri è suonato quasi salomonico: «La gara è tra De Luca e Caldoro e saranno i campani a decidere». Certo: chi altri, sennò? Simili parole, però, non potrebbero mai essere pronunciate, in una campagna elettorale spesa a sostegno del proprio candidato, senza aggiungere per esempio che, d’accordo, son bravi tutti e due e mi auguro proprio che vinca il migliore, ma il migliore, si sappia, è il mio candidato. Si fa così, di solito: tutta la cavalleria e il bon ton istituzionale che si vuole ma, alla fine, la pacca sulla spalla si dà ad uno solo dei due.

E invece niente pacche: Renzi ha messo camice e guanti e ha usato una precisione quasi chirurgica nel riferirsi alla situazione campana. Del governatore in carica ha elogiato lo «spirito di collaborazione»; dell’ex sindaco di Salerno l’esperienza amministrativa della città. Una buona parola per l’uno, una buona parola per l’altro. Difficile esprimersi in maniera più pacata. E difficile anche non notare una certa terzietà in una simile presa di posizione. Dopodiché Renzi ha provato a togliere le spine con le quali il suo partito viene punzecchiato: prima la legge Severino e De Luca ineleggibile; poi le liste e i nomi degli impresentabili. E ha risposto: sul primo punto, che la norma è già stata disapplicata (per effetto dei ricorsi al Tar) a Salerno e Napoli, e dunque bisogna prenderne atto; sul secondo punto, che gli impresentabili imbarazzano anche lui, ma stanno in altre liste, non in quella del Pd. Il Pd è pulito e lui è il segretario del Pd.

Già: ma proprio perché lui è il segretario del Pd, colpisce che tenga un atteggiamento quasi notarile, come di chi deve limitarsi a stare i fatti, senza provare a imprimere loro una qualche direzione.

Lo si potrebbe chiamare un patto di non belligeranza. In verità, Renzi ha dimostrato in questo anno di governo che lui ci mette un attimo a passare dalla non belligeranza alla belligeranza aperta, ma intanto quel che a tutt’oggi si capisce è che la visita di sabato prossimo a Napoli sarà all’insegna dell’aplomb istituzionale. Dello «spirito di collaborazione»: quello elogiato in Caldoro. E così in Liguria, ad abbracciare sul palco la candidata del Pd Raffaella Paita, Renzi è andato senz’altro da segretario politico, polemizzando con forza contro gli errori della sinistra che ridanno fiato e campo a Forza Italia e al centrodestra. Sulla Campania, invece, nessun ragionamento politico analogo, e presumibilmente neanche vigorose manifestazioni elettorali e plateali abbracci, bensì piuttosto molto garbo e tanta etichetta. E forse, dall’altra parte, Caldoro ricambierà, chiedendo a Berlusconi di non oltrepassare il Garigliano, perché non serve in questa fase marcare un’appartenenza, picchettare il centrodestra, quando Renzi tende la mano in un unico abbraccio. In un unico embrassons-nous.

Forse è troppo presumere. La competizione si avvicina (e pure il terzo incomodo, i grillini di Valeria Ciarambino) e più si avvicina meno si potrà andare per il sottile. E però l’impressione che Renzi abbia deciso di smorzare parecchio i toni ci sta tutta. In fondo, a sud il partito democratico somiglia assai poco al premier. La si chiami rottamazione, la si chiami riforma dei partiti: questa roba di qui non è ancora passata. E anche l’investimento politico, la ricerca di parole venate di accenti meridionalisti, una scommessa ideale o una nuova leva di dirigenti: non si può dire che siano cose che tolgano il sonno al Presidente del Consiglio.

Quel che insomma altrove sembra un discutibile progetto politico – un bel partito della nazione, centrista e centrale, che però non collima del tutto con l’Italicum, fatto piuttosto per rafforzare il bipolarismo – a livello campano, vuoi per convenienza vuoi invece per necessità, non è ancora un progetto vero e proprio, e però appare un po’ meno discutibile. Un po’ più realizzabile, O almeno: a forza di non discuterne e di non parlarne, a forza di smussare e di stare a guardare, finisce che qualcosa del genere prende corpo davvero. E se non sarà nelle urne, magari si materializzerà in quel che verrà dopo.

(Il Mattino, 13 maggio 2015)

Quel che manca è una vera proposta politica

elezioni

Ma l’avete mai fatta una campagna elettorale? Marco Tullio Cicerone, a suo tempo, la fece. E si conserva la lettera che Quinto Tullio, suo fratello, gli scrisse per consigliargli il modo di ingraziarsi gli amici e procacciarsi i voti. La lettera risale, a quanto ci dicono gli studiosi, al 64 a.C: la bellezza di duemilasettantanove anni fa, se non ho fatto male i conti. Beh: andatevelo a leggere. Le circostanze storiche e politiche generali erano a quel tempo un po’ diverse da ora, ma si votava anche allora, eppure i consigli di Quinto temo funzionerebbero benissimo anche oggi. Basti solo questo piccolo inciso, che si trova nell’epistola: «di questi comportamenti [non importa quali] il primo è tipico dell’uomo onesto, il secondo del buon candidato». Non serve commento.

Orbene, che lezione vogliamo trarre, a proposito della campagna elettorale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della formazione delle liste, dei comizi e delle strette di mano? Forse nessuna. O forse questa, che siccome il suffragio l’abbiamo dai tempi di Quinto e Marco reso (faticosamente) universale e non lo possiamo certo abolire, i «petitores» (così si chiamavano i candidati: quelli che ti chiedono il voto) si troveranno immancabilmente di fronte al dilemma di Quinto: vedi tu se vuoi essere solo un uomo onesto, o piuttosto un buon candidato. Se è così, c’è purtroppo ben poco da sperare dal candidato, e molto più dal contesto in cui è chiamato ad operare, e dunque dal numero di volte in cui si presenterà innanzi a lui il fatidico dilemma.

Questo contesto è fatto di tre cose: di leggi, di partiti, di opinione pubblica e società civile, cioè del corpo elettorale. Ieri su questo giornale Raffaele Cantone si è preoccupato anzitutto di chiedere leggi più severe: nuovi interventi normativi, rafforzamento delle misure attualmente in vigore.  Che il tema ci sia, come ha detto Saviano e come ha ripetuto Cantone, è assolutamente indubbio. C’è a tal punto che quasi non si parla d’altro. In particolare, non si parla di programmi, ma in verità i sondaggisti assicurano che gli elettori non votano certo in base ai programmi, e temo che la pensassero così anche i fratelli Cicerone, pur senza disporre dei sondaggi d’opinione.

Poi però ci sono i partiti. E qui la prospettiva deve essere, io credo, un po’ diversa. Non può bastare cioè l’appello ai codici etici. Non però perché questi codici siano solo carta straccia, o peggio una foglia di fico, buona solo per brillanti esercizi di ipocrisia; ma perché non s’è mai visto un partito che ripulisce le liste a colpi di applicazioni del codice etico, e non lo si vedrebbe neanche se li si trasformasse in più vincolanti norme statutarie, come Cantone propone. Se un partito non ha la forza di buttare fuori qualcuno per indegnità, difficile che gliela dia il codice di autoregolamentazione. È la stessa differenza che passa tra un leader di partito e gli oscuri (nel senso che nessuno li conosce) probi viri: non si può certo lasciare a questi ultimi il peso di decisioni, che competono a candidati e segretari. I quali mettono la loro firma sotto le candidature e si assumono così la responsabilità politica della scelta. E il punto diviene allora se e innanzi a cosa essi rispondono effettivamente.

Arriviamo così all’ultimo pezzo del problema: l’elettorato. L’elettorato, certo, non lo si può cambiare, come invece si possono cambiare i candidati: è comprensibile perciò che si chieda di agire sulla selezione di questi ultimi, e che ci si rammarichi di scelte discutibili, a tal punto che in questi giorni è lo stesso candidato governatore, De Luca, che finisce con l’ammettere qualche imbarazzo. Ma alla fine tocca all’elettore. Certo, non si fa una bella figura ad appellarsi all’elettore solo per lavarsene pilatescamente le mani. Purtuttavia, ripetiamolo: alla fine è all’elettore che tocca la scelta.

Così torniamo al dilemma di prima, più crudamente di prima: se un buon candidato non è necessariamente, almeno per Quinto Tullio Cicerone, una persona onesta, è perché l’elettore non sa che farsene di una persona onesta. Una simile proposizione è certo inaccettabile, e bisogna confutarla. E tuttavia la confutazione non è una roba che si possa affidare semplicemente al ragionamento, come se ci fossimo imbrogliati da qualche parte: sul piano del ragionamento, anzi, lo spazio per una smentita è molto piccolo. Dobbiamo invece e necessariamente affidarlo alla politica, e ai comportamenti effettivi. Forse è un problema culturale, e forse è più ampiamente ancora un problema sociale: poiché ci vuole una diversa coscienza politica ma anche una diversa struttura di interessi economici che debbono trovare il modo di convergere su una proposta politica di altra qualità. Ma allora non esistono scorciatoie, e quel che è da fare è costruire proposte politiche, non scomuniche morali.

(Il Mattino, 11 maggio 2015)

Se la camorra gestisce il racket dei manifesti

imageUna lite, poi l’agguato. Due morti, e tre arresti da parte della squadra mobile, che avrebbe così individuato prontamente esecutori e mandanti del duplice omicidio di Fratte, a Salerno. Dove dunque si muore per il racket dei manifesti elettorali. In rete, sfilano volti e nomi dei candidati più improbabili, alle prese con slogan fantasiosi e spiritosaggini variamente assortite; per strada, invece, dove i manifesti si affiggono ancora con i secchi, la scopa e la colla, negli spazi regolari e più spesso in quelli abusivi, il controllo del territorio e del servizio di attacchinaggio può degenerare in un violento alterco, e finire con un duplice assassinio.

Non si tratta, beninteso, di violenza politica, ma di semplice violenza comune. E però di una violenza che si consuma per prestazioni, come l’affissione, che sono ovviamente partiti, liste e singoli candidati a richiedere: non però attraverso uffici comunali, agenzie di servizi o volontari di partito (che da queste parti sono praticamente scomparsi), ma per il tramite di rapporti più o meno amicali, più o meno personali, di sicuro opachi, anche quando non esplicitamente illegali.

Che questo accada in un territorio come quello campano, in cui sono molte le zone sottratte al controllo di legalità, non sorprende certo. E però non si può non notare come a tutto ciò contribuisca anche il deterioramento della vita politica, e l’inaridimento della stessa attività di partito. Le contiguità sono più frequenti, infatti, quando per un verso non c’è più un partito – militanti e dirigenti – innanzi a cui si sia chiamati a rispondere, e, per altro verso, non esiste nemmeno un tessuto di norme che obblighi i partiti e i singoli uomini politici a condotte più trasparenti, e a frequentazioni più limpide.

Da tempo si discute dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Vi sono ragioni storiche per le quali, all’indomani dell’approvazione della Carta, si decise di non prevedere per i partiti particolari obblighi normativi. Fu anzitutto il partito comunista ad opporsi ad interventi legislativi che avrebbero potuto consentire intromissioni nella vita interna del partito da parte dei pubblici poteri: nel clima della guerra fredda, questa preoccupazione poteva essere giustificata. Ma ovviamente di acqua ne è passata sotto i punti, e soprattutto la vita politica è a tal punto degenerata, che un controllo, un dovere di trasparenza, un obbligo di rendicontazione sull’associazione del partito politico è oggi avvertita da più parti come una inderogabile necessità.

Tanto più che la legge è intervenuta, sulla scia di episodi di malcostume e malversazione che hanno indignato l’opinione pubblica, abolendo il finanziamento pubblico dei partiti. Questo non vuol dire che i partiti non abbiano più risorse pubbliche: altra cosa sono per esempio i danari che vanno a finanziare i gruppi politici nelle amministrazioni locali, e non è purtroppo un caso che quasi tutti i consigli regionali sono oggi sotto inchiesta, o lo sono stati (ivi compreso quello campano). E tuttavia l’iniziativa della magistratura sembra solo una rincorsa dei buoi, quando sono già scappati dalla stalla: è infatti il contesto di norme e disposizioni di legge che non mette affatto chiarezza sull’uso dei fondi pubblici, e consente ancora troppe zone grigie. In cui può perciò capitare facilmente che secchio e colla finiscano in mani sbagliate, o nei posti sbagliati.

Il regolamento di conti di Fratte non dipende da alcuna responsabilità politica diretta, per fortuna. Non siamo a questo. Ciò non vuol dire però che i cittadini siano oggi in condizione di sapere in che modo sono finanziate e svolte le campagne elettorali, e di saperlo con lo stesso rigore e gli stessi vincoli di documentazione che sarebbero certamente richiesti da una regolazione pubblicistica del partito politico.

Sarebbe un passo importante, anche per restituire fiducia a soggetti che rimangono indispensabili al funzionamento della democrazia parlamentare. E la fiducia ritorna più speditamente, se ciascuno può sapere non solo a chi dà i soldi e perché – che è un affare squisitamente politico –, ma anche per che cosa e in che modo quei soldi vengano spesi. E questo è un affare di buona amministrazione: quando c’è, nessuno è spinto a cercare servigi e guardiaspalle fuori dai limiti della legge.

(Il Mattino, 7 maggio 2015)

Presidi e prof la riforma può migliorare

Acquisizione a schermo intero 06052015 144038.bmpLa manifestazione (riuscita) di ieri sulla scuola pone al governo anzitutto un problema: provare a spiegare perché di questa riforma ci si può fidare. È un problema quasi preliminare, rispetto al merito della proposta di legge, anche se una delle condizioni perché il mondo della scuola si fidi è naturalmente entrare nel merito e discutere i punti qualificanti della proposta. Ma non è, questa, una premessa inutile, o di maniera: la progressiva perdita di rilievo, sia educativo che sociale e civile, della figura docente, la riduzione drammatica delle risorse destinata all’istruzione e alla formazione, lo stato di degrado del sistema scolastico nel suo insieme giustificano queste paure, e la necessità di cambiare non è di per sé sufficiente a dissiparle. D’altra parte, un paio delle sterzate che il governo imprime con la sua riforma al sistema sono dettate anzitutto, diciamolo chiaramente, da vincoli esterni: vincoli finanziari, che costringono il governo a ridurre il peso degli scatti di anzianità e a spostare sul merito parte (purtroppo solo parte) di quelle risorse, e vincoli giuridici, che vengono dalle corti europee, i quali impongono una soluzione del problema del precariato, con una massiccia immissione in ruolo. Ma ci può stare: è parte infatti dei compiti della politica fare di necessità virtù. Ed è in ogni caso più virtuoso dell’attuale un sistema che tende ad eliminare le code dei supplenti, e a orientarsi sui posti effettivi necessari al completamento degli organici, così come virtuosa è l’idea di introdurre i primi elementi di merito nella busta paga di insegnanti e professori.

Ciò che però più di tutto sembra procurare allarme è il nuovo ruolo del dirigente scolastico. I latini dicevano: «Caesar dominus et supra grammaticam», ed il timore che il vecchio preside diventi una sorta di piccolo Cesare i cui poteri, ampi e discrezionali, finiscano per prevalere su tutto è forse eccessivo, ma va comunque tenuto in qualche considerazione. Anche perché la riforma non dice molto sul profilo di questi stessi dirigenti, ai quali oggi viene corrisposta a pioggia un’indennità di risultato che non introduce certo elementi di valutazione del loro lavoro. Senza voler scomodare l’antica domanda (chi custodirà i custodi?), da questo lato la riforma è sicuramente migliorabile. Se d’altronde è a loro, ai dirigenti, che tocca pescare i docenti dai nuovi Albi, che sostituiranno le vecchie graduatorie di merito, un modo per misurare, valutare, parametrare l’esercizio di questa nuova facoltà andrà pur introdotto. La riforma, per dirla in modo spiccio, capovolge infatti le cose: prima era il docente a scegliere la sede di servizio; con la nuova legge sarà il dirigente scolastico (e perché non introdurre almeno il vaglio del consiglio di istituto?) a sceglierlo dall’Albo. E ciò allo scopo di dare al dirigente la possibilità di prendere anzitutto i bravi. Ma la riforma non dice mica perché non prendere, invece dei bravi, i simpatici (o magari quelli che vengono proposti dal territorio: cioè, poniamo, da assessori zelanti o da sindacalisti intraprendenti). Il dirigente scolastico dovrebbe regolarsi in base alla funzionalità del docente rispetto all’offerta formativa del suo istituto: un po’ poco, però, per parlare di merito che viene finalmente premiato. Questa «funzionalità» non la si può infatti scambiare per merito, nel senso delle competenze didattiche, della preparazione professionale, insomma della bravura. Per fare un esempio: se il dirigente è punto dal desiderio di avere un professore di filosofia, non deve necessariamente preferire l’abilitato nella relativa classe di concorso a quello abilitato in una classe affine, ma può, in base a quella benedetta funzionalità, prendere liberamente il secondo. Se d’altra parte si vuole premiare il merito, perché allora non si valorizzano adeguatamente i dottorati di ricerca, o le pubblicazioni scientifiche? Sarebbe peraltro coerente con un altro punto della legge, questo indubbiamente positivo, che obbliga all’aggiornamento professionale e concede ai docenti un bonus di 500 euro da destinare alla formazione.

Non sono, ovviamente, questioni di dettaglio: si tratta anzi di un punto dirimente, cioè di capire in base a cosa (e per valorizzare cosa) si forma l’organico di una scuola. Che lo si faccia in base all’esercizio di una responsabilità connessa alla funzione dirigente è il senso stesso della riforma, ed è difficile che il governo vi rinunzi. Ma questo non significa che si debba necessariamente lasciare che un simile esercizio si libri nel vuoto. Una riforma che punti così tanto sull’autonomia scolastica, in capo anzitutto al dirigente, non può insomma non chiarire fino in fondo il valore e le prerogative di questa autonomia.

(Il Mattino, 6 maggio 2015)

La dotta politica (e le lenticchie) secondo De Mita

matassa

Tema: «Il candidato spieghi le ragioni politiche dell’accordo che Ciriaco De Mita ha stretto con Vincenzo De Luca, in vista delle regionali». E aggiungiamo, le spieghi bene, perché si tratta di far capire com’è possibile che l’Udc (= Unione di Ciriaco) sia stata alleata con Caldoro e il centrodestra fino al 30 aprile, per sostenere a partire dal giorno successivo De Luca e il centrosinistra. Così come va spiegato il significato della bella parola, «continuum», che l’immarcescibile leader democristiano impiega – «senza vanità», sia chiaro – per illustrare la sua posizione: cinque anni al governo con Bassolino di là, cinque anni al governo con Caldoro di qua, e cinque anni ora li vuol fare al governo con De Luca, di nuovo di là. Un bel continuum, non c’è che dire. Un continuum e un paio di capriole.

Ebbene, è probabile che se affidassimo lo svolgimento del tema al primo che passa, questi tirerebbe in ballo la figlia di De Mita, Antonia: ci vuol molto a capire che genere di trattativa ha avviato il leader di Nusco? Se invece il tema venisse svolto dalla penna più sottile di un osservatore attento, probabilmente si soffermerebbe sull’intricata vicenda delle candidature. Il ribaltone di De Mita – pardon: il continuum – si è compiuto infatti in una notte, nella notte che precede la presentazione delle liste; e di cosa si parla, secondo voi, nella notte di Valpurga, quando le streghe danzano, gli spettri si liberano, forze occulte celebrano il sabba infernale e il sindaco di Nusco avvia un suo ragionamento? Di nomi e liste, evidentemente, e del fatto che De Mita non voleva tra i piedi candidature ingombranti, di spessore, che rischiassero di finire davanti ai suoi uomini. E siccome non ha avuto da Caldoro le necessarie rassicurazioni, ha preferito prendere barcacca e burattini (e simbolo), e andarsene dall’altra parte. Dove De Luca, che non va certo per il sottile, l’ha accolto a braccio aperte, annuendo soddisfatto.

Ma ammettiamolo: un simile svolgimento non sarebbe all’altezza del personaggio, di un uomo che ha fatto la storia d’Italia. Che è stato segretario del più grande partito italiano. Che è stato Presidente del Consiglio negli anni Ottanta. E infatti De Mita non l’ha presa né per un verso né per l’altro: non ha motivato il salto della quaglia né con la diligenza di un buon padre verso la povera figliola, né con l’esigenza di difendere i suoi uomini e le sue clientele. L’ha presa invece da lontano: da molto lontano. Da De Gasperi e dal governo quadripartito. Sono sicuro che solo dolorosissime esigenze di sintesi abbiano impedito a De Mita di srotolare tutto il filo della storia che porta dal governo quadripartito di De Gasperi, nell’anno del Signore 1948, giù giù fino all’alleanza per il «governo possibile» con l’ex Sindaco di Salerno. De Luca, a suo tempo, questa storia l’aveva riassunta ancora più rapidamente, così: di De Mita «non se ne può più»! E invece adesso si può, eccome se si può.

Certo che l’intervista rilasciata da De Mita al Corriere del Mezzogiorno è veramente esemplare: c’è per esempio questa vecchia storia della destra e della sinistra. Si capisce che uno vorrebbe sapere come diavolo si faccia, a parte il continuum, a passare disinvoltamente da una parte all’altra dello schieramento politico, senza mai mollare la presa del governo. E De Mita, che pure è stato democristiano per una vita, ci mette un attimo a dare per finita la storia politico-culturale del popolarismo e della Dc: destra e sinistra non esistono, dice secco. La fine delle ideologie dura però un paio di domande, non di più. Poi De Mita sentenzia: «Quando sento dire che il centrosinistra è il Pd non mi trovo. Ci deve essere il centro e la sinistra. Voglio recuperare la grande storia del popolarismo». De Mita, poverino, non si trova, ma francamente nemmeno noi ci troviamo nello gnommero in cui De Mita arrotola le risposte e pure la giornalista, che in quel groviglio finisce per perdersi.

Cos’è lo gnommero? Lo dice Gadda: «Un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti». De Mita fa così: tira tutti in quel punto di depressione, e si inventa una molteplicità di causali di lunghissimo periodo, nella più sofistica delle maniere. Cita Lauro, cita i comunisti, scomoda le grandi categorie, il governo dei processi, la politica che è «pensiero per capire l’esistente e invenzione per percepire il problema che si crea» (certo, certo), butta lì persino che «il potere è amore» (come no!), ma non dice una parola che è una sulla Campania, né soprattutto sull’operazione di bassissima lega che lo ha portato nel centrosinistra di De Luca per l’ennesimo piatto di lenticchie. Però, aggiunge, «siamo alla vigilia di eventi incomprensibili»: forse crede davvero che in mezzo a tanto fumo nessuno possa capire quel che sta capitando. E invece no: siamo davanti a un evento sin troppo comprensibile.

(Il Mattino,  4 maggio 2015)

La cattiva coscienza dei pacifisti

e51a464a2fdfUna bellissima esperienza. Il ragazzo che era al centro del corteo di Milano e che dava simpaticamente del coglione a quello che passa davanti a una banca e non prova almeno a sfasciarne le vetrine, l’altro giorno ha avuto la sua «bellissima esperienza». Così almeno l’ha descritta. Ha visto tanta gente che spaccava le cose e ha pensato: che peccato non avere qualcosa tra le mani per fare lo stesso. Ma cavolo: l’esperienza c’è stata.

E allora va posta la domanda più in generale: che esperienza è stata quella dei manifestanti No Expo? Degli altri manifestanti, dico, non dei black bloc, perché di questi ultimi ormai sappiamo abbastanza: di come agiscono e del perché agiscono.  Sappiamo che l’obiettivo è creare disordini, fare casini, provocare danni in maniera cieca e casuale. Per protesta, diceva quel ragazzo intervistato, indipendentemente dalle ragioni della protesta. E indipendentemente pure dai suoi obiettivi. C’è una distanza troppo grande fra la gente che si dà convegno all’inaugurazione dell’Expo e lui, il ragazzo in cerca di bellissime esperienze. E l’unico modo per colmare quella distanza – ci vuole un attimo – è incendiare macchine, distruggere vetrine, lanciare sassi.

Ovviamente, non è vero affatto che sia l’unico modo: il principale modo è la politica sul piano collettivo e l’impegno su quello individuale. Ma questo si sa. E si sa anche che non basta il senso di impotenza o di frustrazione che a volte questi modi più lenti e meno spicci inducono, per giustificare quegli altri, più immediati e violenti. Che però, a ben vedere, sono anche più impotenti a cambiare davvero le cose.

Ad ogni modo, dicevamo: e gli altri? Gli altri che erano nel corteo? Quelli che protestano pacificamente: che tipo di esperienza compiono? E soprattutto dove passa per loro la linea di demarcazione fra la protesta che li ha portati in piazza e quella dei black bloc? Ovviamente quella linea c’è, per migliaia, anzi per le decine di migliaia di manifestanti che scendono in piazza. Il problema è però se manifestano pure quella, se cioè aiutano a far vedere, e a far vedere bene, che quella linea c’è e non può essere varcata, o piuttosto lasciano che si confonda e si intorbidi tra le pieghe del corteo. Una manifestazione è una manifestazione, ma a volte non tutto di essa è allo stesso modo manifesto. Non lo è sempre, per esempio, il rapporto fra il corteo e la parte violenta del corteo. Basterà allora dire che sono cose diverse: due mondi distinti, due corpi estranei, due parti separate? Forse non basta più. Né basta inventarsi la teoria degli agenti provocatori infiltrati nel corteo. Come si legge persino sul Manifesto, che certo non è sospettabile di voler criminalizzare un movimento, questi che portano le mazze e lanciano le bombe carta non stavano mica da un’altra parte, non venivano da fuori, non piombavano all’improvviso: erano «nel» corteo. Erano dentro, nemmeno in fondo. Vuol dire cioè che si mescolavano, che potevano uscire dai ranghi del corteo e rientrarvi, colpire e marciare, marciare e colpire senza aver disturbo dagli altri.

È un fatto, inoltre, che si possono tenere manifestazioni del tutto pacifiche, del tutto ordinate, anche di milioni di persone, senza che un solo sasso venga lanciato, un solo vetro infranto, un solo cassonetto rovesciato. A Parigi, per esempio, dopo  la strage di Charlie Hebdo, è andata così: come mai a Milano non è andata così? Come mai nel movimento no global, fra le frange antagoniste ed estremiste, non vige la stessa insofferenza, lo stesso ripudio, la stessa allergia per i disordini violenti, per le azioni illegali? E dico di più: non per la violenza in genere, ma almeno per quel tipo di violenza gratuita, puramente distruttiva, che è andato in scena a Milano. Come mai non si riesce a rimanere lontani almeno da una simile violenza, priva di un vero scopo, concepita non per acuire i conflitti sociali o magari per favorire una presa di coscienza rivoluzionaria, come si diceva una volta, ma puramente e semplicemente per rovinare la festa? Credo si possa dire ormai, guardando come vanno le cose da un bel po’ di anni a questa parte, che non si tratta né di casi isolati né  di operazioni strumentali orchestrate dal nemico di classe, come a volte si sente dire, ma di tentativi di costruire un’egemonia politica all’interno dei movimenti sociali antagonisti che nascono, dunque, nel seno stesso di quei movimenti, in uno spazio politico più ampio, purtroppo, e più largo di quello occupato solo da chi indossa i caschi e alza le sciarpe per coprire il volto, tra quelle «esperienze», dunque, che compiono anche gli altri. E che, lo sappia il ragazzo stordito della provincia milanese che si esalta in mezzo ai disordini, non sono affatto bellissime. Tutt’altro.

(Il Mattino, 3 maggio 2015)

Passera solitario

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Cominciamo dalla croce: smaltata di bianco, filettata d’oro – la legge stabilisce anche le misure: 52 millimetri  – attraversante due rami di ulivo e di quercia d’oro posti in cerchio. La placca misura invece 80 millimetri ed ha «forma di raggiera convessa, costituita da quattro gruppi di raggi d’argento intagliati a punta di diamante». Infine, il nastro per portare la croce al collo: con i colori dell’ordine, di millimetri 50, listato in rosso. Questo per l’onorificenza di Grande Ufficiale. Per quanto riguarda invece il Cavalierato del lavoro, la decorazione è più modesta: una «croce greca smaltata di verde e bordata d’oro, caricata di uno scudetto tondo recante, su di un lato, l’emblema della Repubblica e, sull’altro, la dicitura “Al merito del lavoro -1901″». Anche questa croce sta appesa ad un bel nastro: verde, listato al centro di rosso.

Bene, cosa rimane? Ah, sì: il fazzoletto (continua su Leftwing)

Renzi e i rivali. Due visioni, un unico destino

divisibilità indefinita

La fiducia chiesta dal governo sulla legge elettorale non è un vulnus alla democrazia, il cui stato di salute non è dunque messo a repentaglio dalla decisione presa ieri dal Consiglio dei Ministri e comunicata dal Ministro Boschi ad un’aula rumorosa e colorita. Piuttosto, si tratta del punto massimo al quale è giunto lo scontro politico: non solo fra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno della stessa minoranza, e segnatamente all’interno del partito democratico.

Che non si tratti di uno sbrego costituzionale è dimostrato, oltre che dai regolamenti parlamentari, dalla Costituzione e dalle leggi in vigore, dal fatto che il Presidente della Repubblica non ha ritenuto sin qui di intervenire, lasciando che la questione fosse definita nella dialettica fra Parlamento e Governo. Resta però vero che il passo compiuto da Renzi, col chiedere la fiducia, è una decisione con ben pochi precedenti e soprattutto non priva di conseguenze. I casi analoghi verificatisi in passato– la riforma elettorale voluta da Mussolini nel ’24, la cosiddetta «legge truffa» nel ’53 – alimentano le parole roboanti spese ieri a margine dei lavori della Camera: Renato Brunetta ha parlato di «fascismo renziano», Nichi Vendola di «squadrismo istituzionale», ma sono paragoni privi di qualunque senso storico, frutto per un verso di una polemica politica al calor bianco (e ci sta), ma per altro verso di quella retorica del disconoscimento che purtroppo paralizza l’Italia da decenni (e ci sta un po’ meno).

Le conseguenze della decisione assunta ieri, però, vi sono tutte. Renzi ha passato il Rubicone sul quale finora si erano fermati i precedenti tentativi di sbloccare il sistema. Il primo tentativo, quello di Mario Monti, è presto naufragato, forse perché alla caratura intellettuale e tecnocratica di quella esperienza non corrispondeva un’analoga caratura politica. Fuor di metafora: i partiti che sostenevano il governo Monti non erano disponibili a scommettere davvero sul suo successo. Ma anche il tentativo di Enrico Letta, dopo la rielezione di Napolitano, non è andato a buon fine, e di nuovo è difficile sostenere che sia dipeso dalla mancanza di intenzioni riformatrici. Queste intenzioni si sono variamente raccolte, in questi anni, con pareri sempre più autorevoli e commissioni sempre più sagge: la volontà politica, però, è un’altra cosa.

E qui, forse, sta lo strappo vero. Formalmente parlando, questo governo è infatti ancora un governo di larghe intese, rimpicciolite – come si sa – dal passaggio di Forza Italia all’opposizione. Il consenso sulla legge elettorale si è perciò ridotto, ma l’investimento politico, proprio perciò, è aumentato. Finora, il motivo del consenso largo non v’è dubbio che abbia avuto un effetto paralizzante sull’azione di governo: Renzi sta mettendo fine a questa liturgia. Prestando il fianco a due obiezioni: la prima, che in certe materie di rilevanza costituzionale quel consenso è indispensabile; la seconda, che quando invece si è proceduto senza ricercarlo si sono fatti disastri, come col Porcellum voluto dal centrodestra nel 2005, o come con la riforma del titolo quinto della Costituzione fatta dalla sola maggioranza di centro-sinistra, nel 2001. Ma c’è un ma, cioè una bella differenza. Quei passi venivano compiuti da maggioranze deboli, essenzialmente per mettere i bastoni tra le ruote agli avversari che si apprestavano di lì a poco a vincere le elezioni politiche. Era insomma un modo per inibire il gioco altrui, non per giocare meglio la partita. Renzi sta facendo un’altra cosa: sta provando a giocarla davvero, quella partita, e fino in fondo. La chiamano democrazia decidente, e non ci siamo abituati. Ovvio dunque che sollevi allarme, che susciti preoccupazione, che procuri qualche inquietudine: è una cosa nuova.

Ma su questa novità Renzi ha deciso di puntare, senza esitazione, senza bon ton istituzionale, senza neppure concedere agli avversari l’onore delle armi, bensì con sfrontata arroganza. Lo diceva lui stesso, durante le primarie: preferisco passare per arrogante che arrendermi. Beh, ci è riuscito. In questo modo sono sicuramente messi a dura prova gli equilibri parlamentari, ma non perché il fascismo sia alle porte, non perché ci ritroviamo in una democrazia priva di contrappesi, e neppure perché si introduce così un presidenzialismo di fatto: tutte storie. Non per questo, ma per il preciso significato politico da cui il passaggio è investito: il governo sta o cade con l’approvazione della legge elettorale. Renzi sta o cade con essa. Lo sa la maggioranza, lo sa la minoranza. Le disquisizioni sulle soglie troppo basse o troppo alte, sul premio di maggioranza troppo ampio, sul turno di ballottaggio con o senza apparentamento sono tutte «ben fondate», come dicono i tecnici, ma non toccano la sostanza della sfida.

Che si avverte nel partito di maggioranza più ancora che in tutto il resto del Parlamento. Ciò non avviene però a causa di quanto basso sia il tasso di «sinistra» che vi sarebbe in Renzi, ma per la difficoltà a stare oggi nei partiti, in tutti i partiti, in posizione di minoranza. Alzi la mano chi è in grado di trovarne una, di codeste minoranze, che non stia in realtà quasi sempre sul punto di andarsene da un’altra parte. Vale per il Pd come per Forza Italia (vedi Fitto), o per il Nuovo Centrodestra (vedi De Girolamo) o per la Lega (vedi Tosi). Inutile dire dei Cinque Stelle e della inflessibile pratica grillina delle espulsioni. Su questo terreno si può forse dire allora che difficilmente sarebbe per Renzi una vittoria la lacerazione definitiva del partito democratico. E non perché la minoranza del Pd troverebbe chissà quali spazi fuori dal partito – ipotesi francamente improbabile – ma perché non sarebbe una buona cosa dimostrare che quegli spazi non ci sono neppure dentro. Significherebbe che il Pd è riuscito a dotarsi di una forte leadership personale, ma non a renderla compatibile con una vera dialettica interna. Che è invece l’autentico contrappeso politico che al nostro sistema continua a mancare, e che nessuna legge elettorale è, da sola, in grado di procurare.

(Il Mattino, 29 aprile 2015)

Il pizza-marketing dei Cinquestelle

pizza

«Il parlamentare che ti serve» serve la pizza: d’altronde, a che altro serve? Ieri sera, in due note pizzerie napoletane, sul Lungomare cittadino, la campagna elettorale di Valeria Ciarambino, candidata del Movimento Cinque Stelle alla guida della Regione Campania, era coadiuvata ai tavoli dal vicepresidente della Camera dei Deputati, Luigi Di Maio, da Alessandro Di Battista e altri pentastellati. Cena di finanziamento, campagna elettorale: la politica si fa vicina ai cittadini e porge volentieri una Margherita e una Bianca al prosciutto in fondo alla sala. In effetti: s’è mai visto un vicepresidente della Camera alle prese non con gli emendamenti ma con i condimenti, non con gli ordini del giorno ma con la comanda del giorno? Non è la prova definitiva che questi parlamentari sono veramente di un’altra pasta, e questa pasta è la pasta della pizza?

Prima però di pagare il conto agli improvvisati pizzaioli di una sera, facciamoli bene pure noi, due conti. Il Movimento Cinque Stelle ha conseguito un successo elettorale straordinario non più tardi di due anni fa, superiore ad ogni più rosea aspettativa. Ma in due anni la sua presenza sui temi politici rilevanti si è dimostrata quasi inconsistente. Lo stesso dicasi in Campania, dove i grillini dicono qualcosa sui rifiuti, chiedono di far largo ai giovani, fanno il miracolo di finanziare di tutto e di più tagliando gli sprechi e i costi della politica, e declinano sul piano regionale la proposta che ripetono come un mantra  del reddito di cittadinanza. E basta. Al resto deve forse pensare la pizza servita ai tavoli. O piuttosto: i grillini continuano a scommettere sul fatto che al resto ci pensano gli altri, che la politica campana e nazionale è messa così male, che basta un’operazione simpatia, un viaggio in treno in seconda classe e un giro fra i tavoli di una pizzeria per riscuotere il giusto consenso. Che ovviamente è consenso vero, consenso genuino, quello onesto sincero e spontaneo che meritano i loro candidati, mentre quello degli altri è sempre sospettato di essere finto, truccato, comprato, corrotto. Così Renzi e Berlusconi sono venditori di fumo, mentre la loro pizza di ieri sera non aveva nemmeno il cornicione bruciacchiato.

In realtà, la pizza sul Lungomare è puro marketing elettorale. Una trovata, non diversa da uno slogan ben pensato, o da un manifesto dai colori indovinati. Com’è giusto che sia, peraltro: hai tolto il finanziamento pubblico, e te ne fai un vanto, non vuoi allora inventarti almeno qualche iniziativa di raccolta fondi? Ben vengano quindi la pizza e, la prossima volta, due spaghetti o una frittura di pesce. Ma da un movimento politico che nel 2013 ha preso più di otto milioni e mezzo di voti – primo partito d’Italia, non primo partito in pizzeria –, da una forza che nel solo collegio di Napoli ha eletto cinque deputati, e che ha suoi uomini in posizioni apicali nelle istituzioni, ti aspetti forse non il manifesto del ventunesimo secolo, ma almeno una capacità di elaborazione, un insieme di proposte che siano un po’ meglio articolate della scelta (difficile, in verità) fra una pizza con o senza acciughe. Che Italia e che Campania sarebbero, quelle che i grillini ci servirebbero? Sicuramente un’Italia più onesta, una Campania più onesta, diranno loro, e non facciamo fatica a credergli. I corrotti tutti in carcere, i camorristi tutti in carcere, i ladri tutti in carcere.  Come non si sa, ma andrà sicuramente così: ce lo auguriamo con tutto il cuore, anche perché è l’unica cosa che si capisce con chiarezza dalle dichiarazioni di intenti del movimento. Ma per tutti gli altri, per quelli che restano fuori dal carcere, e si spera siano in tanti, che si farà: andranno tutti la sera in pizzeria?

(Il Mattino – ed. Napoli, 28 aprile 2015)