
La fiducia chiesta dal governo sulla legge elettorale non è un vulnus alla democrazia, il cui stato di salute non è dunque messo a repentaglio dalla decisione presa ieri dal Consiglio dei Ministri e comunicata dal Ministro Boschi ad un’aula rumorosa e colorita. Piuttosto, si tratta del punto massimo al quale è giunto lo scontro politico: non solo fra maggioranza e minoranza, ma anche all’interno della stessa minoranza, e segnatamente all’interno del partito democratico.
Che non si tratti di uno sbrego costituzionale è dimostrato, oltre che dai regolamenti parlamentari, dalla Costituzione e dalle leggi in vigore, dal fatto che il Presidente della Repubblica non ha ritenuto sin qui di intervenire, lasciando che la questione fosse definita nella dialettica fra Parlamento e Governo. Resta però vero che il passo compiuto da Renzi, col chiedere la fiducia, è una decisione con ben pochi precedenti e soprattutto non priva di conseguenze. I casi analoghi verificatisi in passato– la riforma elettorale voluta da Mussolini nel ’24, la cosiddetta «legge truffa» nel ’53 – alimentano le parole roboanti spese ieri a margine dei lavori della Camera: Renato Brunetta ha parlato di «fascismo renziano», Nichi Vendola di «squadrismo istituzionale», ma sono paragoni privi di qualunque senso storico, frutto per un verso di una polemica politica al calor bianco (e ci sta), ma per altro verso di quella retorica del disconoscimento che purtroppo paralizza l’Italia da decenni (e ci sta un po’ meno).
Le conseguenze della decisione assunta ieri, però, vi sono tutte. Renzi ha passato il Rubicone sul quale finora si erano fermati i precedenti tentativi di sbloccare il sistema. Il primo tentativo, quello di Mario Monti, è presto naufragato, forse perché alla caratura intellettuale e tecnocratica di quella esperienza non corrispondeva un’analoga caratura politica. Fuor di metafora: i partiti che sostenevano il governo Monti non erano disponibili a scommettere davvero sul suo successo. Ma anche il tentativo di Enrico Letta, dopo la rielezione di Napolitano, non è andato a buon fine, e di nuovo è difficile sostenere che sia dipeso dalla mancanza di intenzioni riformatrici. Queste intenzioni si sono variamente raccolte, in questi anni, con pareri sempre più autorevoli e commissioni sempre più sagge: la volontà politica, però, è un’altra cosa.
E qui, forse, sta lo strappo vero. Formalmente parlando, questo governo è infatti ancora un governo di larghe intese, rimpicciolite – come si sa – dal passaggio di Forza Italia all’opposizione. Il consenso sulla legge elettorale si è perciò ridotto, ma l’investimento politico, proprio perciò, è aumentato. Finora, il motivo del consenso largo non v’è dubbio che abbia avuto un effetto paralizzante sull’azione di governo: Renzi sta mettendo fine a questa liturgia. Prestando il fianco a due obiezioni: la prima, che in certe materie di rilevanza costituzionale quel consenso è indispensabile; la seconda, che quando invece si è proceduto senza ricercarlo si sono fatti disastri, come col Porcellum voluto dal centrodestra nel 2005, o come con la riforma del titolo quinto della Costituzione fatta dalla sola maggioranza di centro-sinistra, nel 2001. Ma c’è un ma, cioè una bella differenza. Quei passi venivano compiuti da maggioranze deboli, essenzialmente per mettere i bastoni tra le ruote agli avversari che si apprestavano di lì a poco a vincere le elezioni politiche. Era insomma un modo per inibire il gioco altrui, non per giocare meglio la partita. Renzi sta facendo un’altra cosa: sta provando a giocarla davvero, quella partita, e fino in fondo. La chiamano democrazia decidente, e non ci siamo abituati. Ovvio dunque che sollevi allarme, che susciti preoccupazione, che procuri qualche inquietudine: è una cosa nuova.
Ma su questa novità Renzi ha deciso di puntare, senza esitazione, senza bon ton istituzionale, senza neppure concedere agli avversari l’onore delle armi, bensì con sfrontata arroganza. Lo diceva lui stesso, durante le primarie: preferisco passare per arrogante che arrendermi. Beh, ci è riuscito. In questo modo sono sicuramente messi a dura prova gli equilibri parlamentari, ma non perché il fascismo sia alle porte, non perché ci ritroviamo in una democrazia priva di contrappesi, e neppure perché si introduce così un presidenzialismo di fatto: tutte storie. Non per questo, ma per il preciso significato politico da cui il passaggio è investito: il governo sta o cade con l’approvazione della legge elettorale. Renzi sta o cade con essa. Lo sa la maggioranza, lo sa la minoranza. Le disquisizioni sulle soglie troppo basse o troppo alte, sul premio di maggioranza troppo ampio, sul turno di ballottaggio con o senza apparentamento sono tutte «ben fondate», come dicono i tecnici, ma non toccano la sostanza della sfida.
Che si avverte nel partito di maggioranza più ancora che in tutto il resto del Parlamento. Ciò non avviene però a causa di quanto basso sia il tasso di «sinistra» che vi sarebbe in Renzi, ma per la difficoltà a stare oggi nei partiti, in tutti i partiti, in posizione di minoranza. Alzi la mano chi è in grado di trovarne una, di codeste minoranze, che non stia in realtà quasi sempre sul punto di andarsene da un’altra parte. Vale per il Pd come per Forza Italia (vedi Fitto), o per il Nuovo Centrodestra (vedi De Girolamo) o per la Lega (vedi Tosi). Inutile dire dei Cinque Stelle e della inflessibile pratica grillina delle espulsioni. Su questo terreno si può forse dire allora che difficilmente sarebbe per Renzi una vittoria la lacerazione definitiva del partito democratico. E non perché la minoranza del Pd troverebbe chissà quali spazi fuori dal partito – ipotesi francamente improbabile – ma perché non sarebbe una buona cosa dimostrare che quegli spazi non ci sono neppure dentro. Significherebbe che il Pd è riuscito a dotarsi di una forte leadership personale, ma non a renderla compatibile con una vera dialettica interna. Che è invece l’autentico contrappeso politico che al nostro sistema continua a mancare, e che nessuna legge elettorale è, da sola, in grado di procurare.
(Il Mattino, 29 aprile 2015)