Domani microfoni spenti e silenzio elettorale, dopodomani urne aperte e scrutatori ai seggi, il terzo giorno la rivelazione dei risultati. Il triduo del voto, la liturgia laica del suffragio, la festa della rappresentanza. Che però ha preso un aspetto imprevisto, dal momento che la qualità democratica dell’esperienza che si viene compiendo nella tornata amministrativa di domenica sembra essere l’ultimo dei pensieri che affanna o esalta l’opinione pubblica. Al penultimo posto sta il confronto programmatico, che solo a sprazzi riesce a calamitare un po’ di attenzione, mentre al primo posto sta indiscutibilmente il manipolo degli impresentabili. Hanno fatto molto male ad arruolarli. Bisogna fare nomi e cognomi. Inquinano le liste. Offendono la gente per bene. La nera nuvolaglia delle polemiche si rovescia sulla campagna elettorale, inzuppando ogni cosa.
Se ne poteva fare a meno? Certo che sì. Si poteva fare a meno di infilarsi nel ginepraio della legge Severino, per via della condanna in primo grado di Vincenzo De Luca? Sì, con altrettanta certezza. Ma viene o no un momento in cui si dice: cosa fatta capo ha? In democrazia quest’ora viene ed è adesso: è il voto. Che non lava via tutti i peccati, non monda da ogni colpa, non rimette indietro le lancette dell’orologio, ma fissa un punto, e lascia anzi che siano gli elettori a fissarlo. Non si tratta, naturalmente, di contrapporre la volontà politica a corti e tribunali: se un pronunciamento popolare valesse come un’assoluzione, sarebbe manomessa infatti ogni garanzia liberale. Il fatto è che, però, al piano propriamente giuridico, che ha o dovrebbe avere il suo corso regolare, secondo diritti e procedure, si è sovrapposto un altro tipo di giudizio, assai più volubile, che culmina con la dichiarazione di impresentabilità rilasciata quest’oggi dalla Commissione antimafia, non si capisce su quali basi. Si tratta di un giudizio morale, dal momento che è palesemente privo di effetti giuridici: nessun nome verrà infatti cancellato dalle liste, nessun candidato verrà depennato. Non si esercita però una moral suasion vera e propria, in questo modo, ma piuttosto un’opera di persuasione tutta mediatica, che alimenta l’ondata di indignazione cresciuta senza posa in queste settimane. Non è la prima volta che accade, sta anzi divenendo la regola delle elezioni in Italia: all’approssimarsi del voto, i temi di confronto politico e programmatico finiscono progressivamente sullo sfondo, e il discrimine morale diviene la linea di demarcazione su cui si attestano gli opinion leader: gli intellettuali prestigiosissimi, i magistrati autorevolissimi, le firme illustrissime. A cui manca poco, sempre meno, quasi nulla per disertare sdegnati le urne. Tra l’esercizio del proprio alto magistero intellettuale e la bassura democratica del voto finiscono così col preferire – in nome della morale, beninteso – il primo. E tanto peggio per il secondo.
Sto facendo dell’ironia? Un poco. Non però perché non siano da considerarsi prestigiosi o autorevoli quegli intellettuali o quelle firme. Ma perché colpisce quanta poca attenzione vi sia, in simili campagne di stampa, per la vera moralità della politica, che sta nella necessità di rispondere e dare conto delle conseguenze del proprio agire. Moralità che deve appartenere anche a chi interviene nella sfera pubblica, e con certe improvvise intransigenze sostituisce alla lotta politica l’anatema moralistico. La lotta politica richiede un impegno vero fra gli elettori, per battere un’ipotesi di governo che si giudica dannosa per il proprio paese, per la propria città, per la propria regione, e proporne magari un’altra. Per l’anatema morale è sufficiente invece il solo pulpito mediatico. È come nella prassi parlamentare (mi si passi l’analogia): vi è il merito delle leggi e vi sono le eccezioni preliminari. Nessuno vuole che le eccezioni non siano presentate e discusse. Ma un gruppo politico che si caratterizzasse esclusivamente per la presentazione di raffiche di eccezioni, condendole magari con alte grida sull’alterazione truffaldina dei principi costituzionali, difficilmente produrrebbe buona legislazione. Più realisticamente, non ne produrrebbe alcuna.
Questo è infatti il pericolo, l’azzeramento della politica e lo sfibramento della democrazia, sottoposta a esami soffocanti, deprimenti, incessanti; e infine, per lo più, vani. Oltre che del tutto anomali nelle forme e nei tempi: non c’è forse qualcosa di guasto nell’annunciare i fatidici nomi degli impresentabili nel giorno di chiusura della campagna elettorale? Di cosa si tratta, infatti, in mancanza di conseguenze certe, se non del peggior uso simbolico che si possa fare un delicato organo parlamentare? Naturalmente, gli indignati di professione tirano fuori la storia del dito e la luna: invece di prendersela coi malfattori, ce la si prende con quelli che denunciano i malfattori, dicono. Ma a parte il fatto che le denunciano dovrebbero riguardare anzitutto le malefatte, piuttosto che i malfattori, resta inevasa la domanda di cosa rimane della più schietta risorsa che la politica custodisce, e di cui anche la democrazia più virtuosa ha bisogno: la forza di fare le cose. Il voto è lo strumento di rigenerazione della batteria che alimenta l’agire politico: se lo si mette sotto tutela, non darà più alcuna carica, anche se saranno state correttamente recitate tutte le avvertenze per l’uso.
(Il Mattino, 29 maggio 2015)