Archivi del mese: giugno 2015

Ma i diritti sono più forti dei sondaggi

Acquisizione a schermo intero 30062015 152502.bmpRichard Posner, chi era costui? Era, anzi è, oltre che un filosofo del diritto, un giudice americano. Che il 4 settembre 2014, insieme a due suoi colleghi, ha dichiarato incostituzionali le leggi degli Stati dell’Indiana e del Wisconsin, che vietavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza superata dal pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che la settimana scorsa ha reso legale il matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti d’America. Sentenza storica. Obama ha salutato il verdetto dichiarando: «quando tutti gli americani sono trattati in maniera uguale, siamo tutti più liberi». Sono parole che non solo i gay, ma chiunque si consideri progressista sente di dover far proprie. Un sondaggio Gallup conforta peraltro la decisione presa dalla Corte: dal 1996 – anno dell’ultima «legge in difesa del matrimonio» – al 2014, quindi in soli dodici anni, gli americani favorevoli al matrimonio omosessuale sono passati dal 26% al 55%.

Da noi? Da noi, il sondaggio pubblicato ieri dal Mattino ci dice che le cose non stanno proprio così. Stanno anzi all’opposto: abbiamo anche noi il nostro 55%, ma di contrari al matrimonio gay (percentuale che sale al 67% tra i cattolici praticanti, mentre scende al 42% tra i laici). Proprio perciò non è inutile andarsi a leggere la sentenza del giudice Posner: non perché lui ci è arrivato prima, ma perché offre qualche considerazione in materia che merita di essere ripresa, per capire che paese siamo.

Dunque: cosa diceva il Wisconsin? Per prima cosa, che limitare il matrimonio agli eterosessuali fa parte della tradizione, e la tradizione «costituisce una valida base per limitare i diritti civili». Secondo, che va’ a sapere quali conseguenze potrebbero discendere dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del matrimonio gay. Meglio, dunque, esser prudenti, e non far nulla. Terzo, che una simile decisione va presa democraticamente, a maggioranza. Quarto, e ultimo, che il matrimonio gay discende da quella stessa concezione dalla quale discende pure il divorzio senza colpa (perché semplicemente ci si è stancati di stare insieme), e produce dunque gli stessi effetti di indebolimento sul matrimonio tradizionale.

Non sono sicuro, ma guardando l’insieme delle risposte date dal campione esaminato da Ipr Marketing nel sondaggio commissionato dal Mattino, mi vien fatto di pensare che gli italiani sono contrari prevalentemente per il primo motivo e, in subordine, per l’ultimo. Non si tratta cioè tanto della volontà di negare diritti agli omosessuali, su questo c’è anzi una relativa apertura (non però sull’adozione gay, su cui le resistenze sono decisamente più forti); si tratta però di difendere l’istituto familiare: peccato che da questa difesa viene come conseguenza niente affatto secondaria che quei diritti risultino conculcati.

Il giudice Posner, comunque, quei motivi li respinge tutti e quattro. Con buone ragioni, che parafraso liberamente, e che credo siano utili anche al nostro Paese. Per cominciare, la tradizione non è per niente, in quanto tale, un buon motivo per limitare alcunché. Vi sono infatti anche tradizioni cattive, o insulse: se a tradizione non vi è modo di aggiungere «razionale» o almeno «ragionevole», non è il caso di dare ad essa alcuna, speciale autorità. In secondo luogo, non vi sono evidenze empiriche a sostegno della tesi che il matrimonio gay è pericoloso per le basi della società. In terzo luogo, democrazia non vuol dire rimettere tutto al giudizio della maggioranza. Le nostre sono democrazie liberali, che proteggono o dovrebbero proteggere un certo numero di diritti fondamentali anche dalle decisioni della maggioranza. Anzi: dovrebbero in materia di diritti fondamentali difendere anzitutto le minoranze, perché le maggioranze si difendono abbastanza bene da sole. In quarto e ultimo luogo, gli effetti sul matrimonio tradizionale vi saranno pure (vedi alla voce: secolarizzazione), ma siamo daccapo al punto primo: perché sarebbe preferibile una società fondata sul matrimonio tradizionale?

Fin qui, più o meno, Richard Posner. Altro si potrebbe aggiungere, sui timori di chi crede che si darebbe la stura a tutto (perché non la poligamia?), o che si snaturerebbe e infiacchirebbe l’identità di un popolo. Forse, tra gli italiani, circolano anche questi ancor meno razionali timori. Più probabilmente, è solo l’idea che una qualche naturalità dei rapporti morali (quindi anche matrimoniali) vada comunque difesa. Metto insieme tutte queste cose (che identiche però non sono), solo per dire ciò che in esse manca. Manca, in un Paese a sfondo tradizionalista e anagraficamente invecchiato, la fiducia che la storia sia non il luogo di una irreparabile perdita di sostanza, ma quello in cui invece si acquista qualche spazio di libertà in più per l’agire umano. La fiducia nel progresso, si sarebbe detto una volta, definito dal sempre maggior grado di eguaglianza e di libertà fra gli uomini.

La maggioranza degli italiani è contro il matrimonio gay? È una sensibilità di cui il legislatore deve tener realisticamente conto. Ma una sensibilità non è uguale a una ragione, né può essere più forte di un diritto.

(Il Mattino, 30 giugno 2015)

La strategia dell’incertezza

Acquisizione a schermo intero 30062015 153825.bmpLe elezioni regionali campane si sono tenute domenica 31 maggio. Ad oggi, a quasi un mese di distanza dal voto, non è chiaro quando la Campania avrà la sua nuova giunta regionale, e presieduta da chi. Dopo la sconvocazione della prima seduta del consiglio, prevista inizialmente per oggi, tutto rimane appeso alle decisioni di un giudice ordinario, innanzi al quale Vincenzo De Luca presenterà stamane ricorso perché la sospensione inflittagli a norma della legge Severino venga essa stessa sospesa nei suoi effetti, in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale (che dovrebbe – il condizionale, in questa vicenda, è d’obbligo – arrivare in autunno). Dunque: non c’è ancora un Presidente insediato e nel pieno dei suoi poteri, non c’è ancora la giunta, di nomina del Presidente, e non c’è neppure un vice Presidente; non sono state esposte le linee programmatiche del nuovo governo e il primo consiglio regionale è rinviato a data da destinarsi: c’è solo un giudice e un ricorso. Le istituzioni rallentano fino quasi a fermarsi, e tutti si rimane in attesa del pronunciamento del giudice. Qualcuno studia i precedenti, qualcun altro annuncia nuovi ricorsi e carte bollate, altri dichiarano e altri ancora tacciono. Ma siamo là: siamo a un giudice e ad un ricorso. Giudice ordinario, in una situazione invero straordinaria.

Che richiede forse qualche parola in più, da parte dei suoi protagonisti. Perché il mese precedente il voto, e il mese seguente, sono trascorsi all’insegna del «chi vince governa», detto da Renzi e rilanciato dal vincitore, cioè da De Luca. «Chi vince governa» significava: non c’è Severino che tenga. Ovviamente non era così. Tra qualunque vittoria e qualunque atto di governo ci sono un bel po’ di formalità da osservare: quelle formalità collocano la  vittoria politica nel perimetro disegnato  dalle disposizioni di legge. La Severino complica il quadro, ma non altera certo il principio. Questo era ben chiaro sia a De Luca che a Renzi. Ed entrambi hanno altrettanto chiaro che in questi giorni non stanno salendo il Golgota dei cavilli giuridici, ma stanno semplicemente provando a rimanere dentro i limiti dello Stato di diritto.

Cosa dunque non era chiaro, o non è stato debitamente chiarito? Non che la candidatura di De Luca era contro la legge: anzi. De Luca era eleggibile ed è stato eletto. Ma c’è poco da fare: ad esser conseguenti, la volontà di eleggerlo doveva contenere anche la volontà di procedere al superamento della Severino. In realtà, l’ex sindaco di Salerno lo ha detto chiaro e tondo: il problema non sono io, ha ripetuto svariate volte, e non si tratta di fare un favore a me; il problema è la Severino e si tratta di fare un favore al Paese, cancellando una legge incostituzionale. Naturalmente, le dichiarazioni di incostituzionalità non spettano a De Luca, ma alla suprema Corte. Il punto è però politico: può un partito acconsentire a una candidatura, senza acconsentire al significato e alle conseguenze che discendono dalla presentazione di quella candidatura? No, se è un partito serio.

Questa domanda si ripropone anche oggi, e va rivolta anche a Renzi. A Renzi, cioè al Presidente del Consiglio che ha firmato la sospensione dopo avere chiesto e ottenuto il parere dell’Avvocatura dello Stato, che gli lasciava margini per un decreto che consentisse a De Luca di procedere alla nomina della giunta e del vice-Presidente, così da assicurare da subito la funzionalità dell’istituzione regionale. Come ieri, nella candidatura di un condannato in primo grado per abuso di ufficio, così oggi, in quei margini interpretativi lasciati aperti alla decisione di Renzi, stava un punto politico che il Premier non ha voluto o potuto affermare.  Di più: Renzi ha menato vanto di non averlo fatto. In realtà, ha così riconosciuto di essere sotto scacco, non so se dell’opinione pubblica o delle denunce e della raffica di ricorsi promessi da esponenti dell’opposizione. Nell’uno e nell’altro caso, ha rivelato questa volta di non avere la forza politica necessaria per dar seguito al parere che pure aveva richiesto. Questa forza era però necessaria, così come è stata necessaria a De Luca per candidarsi, per vincere le primarie del Pd, per vincere poi le elezioni. Nel percorso dell’ex sindaco di Salerno c’è una coerenza che non si ritrova invece nei tentennamenti del partito democratico, che sembra stare sempre un passo indietro la necessità del momento: voleva o non voleva De Luca governatore? Chi lo sa. Vuole o non vuole la Severino? Neppure questo è più chiaro. Vuole o non vuole che adesso De Luca governi? Mistero senza fine bello.

C’è però anche per De Luca qualche chiarimento da dare. Perché è ormai evidente che non erano tutte «palle» quelle di chi temeva l’empasse, come lui ha ripetutamente dichiarato. Nell’impasse ci siamo, e anche se forse ne usciremo a breve, non resta meno vero che a dire più di una panzana, su questa vicenda, è stato lui. La più grande è stata lasciare intendere che tutto sarebbe andato e andrà come previsto. Non era previsto un bel niente: la mancata presenza il giorno della proclamazione, la sospensione prima della seduta del consiglio, la convocazione e il mancato insediamento, l’assenza a un mese dal voto di un Presidente o di un vice Presidente in carica. E però, se c’è una cosa di cui c’è massimamente bisogno, specie in territori che con la legalità hanno qualche problema, è la prevedibilità del corso istituzionale. Al momento, il consigliere anziano Rosetta D’Amelio ha sconvocato il consiglio, sperando che il giudice ordinario faccia presto. Sperare si può, ma sperare significa, per definizione, lavorare in condizioni di incertezza: giusto il contrario di quel che ci vuole a un’istituzione per funzionare come si deve.

(Il Mattino, 29 giugno 2015)

I cento complotti di De Magistris

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Dopo i Protocolli dei Savi Antichi di Sion, le scie chimiche e il falso allunaggio, nella classifica dei complotti più famosi al mondo, o almeno sotto il Vesuvio, entra di prepotenza quello ordito ai danni del sindaco di Napoli. Se Elvis Presley inscenò la sua morte, e i rettiliani governano occultamente il mondo, non sarà che tutto l’ambaradan della legge Severino sia stato architettato al solo scopo di fregare Luigi De Magistris? Questo almeno lascia intendere il sindaco, nell’intervista rilasciata ieri a questo giornale. Chi ha scritto infatti la legge Severino? Il ministro Severino, e chi sennò? E da chi era difeso Romano Prodi, parte civile nel processo che ha portato alla condanna di De Magistris? Dallo studio legale Severino. Due più due fa quattro, e la prova è data. In realtà, con questi argomenti, due più due può fare qualsiasi risultato. La legge Severino è firmata effettivamente dal ministro della Giustizia del governo Monti, però è stata voluta anzitutto dal ministro dell’Interno Cancellieri, e redatta insieme al ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi: tutti complottardi? Evidentemente sì.  Quanto al non piccolo particolare che la condanna in primo grado di Giggino è intervenuta dopo la legge, non prima, che ci vuole a sistemare le cose? Basta immaginare trame nascoste e segrete cospirazioni, e si può facilmente supporre che il giudizio della magistratura sia stato abilmente orchestrato a danno del malcapitato Sindaco.

Ma non finisce qua. Perché De Magistris ne ha anche per Raffaele Cantone. In passato, ‘o  Sinnaco ha lanciato sassi contro il Quirinale, quando vi sedeva Giorgio Napolitano: volete che si fermi davanti all’Autorità Nazionale Anticorruzione? La quale Autorità si era pronunciata contro la nomina di Raffaele Del Giudice alla guida di Sapna (la società provinciale che gestisce il ciclo dei rifiuti), e il collegio sindacale di Sapna aveva sostenuto il parere dell’Anac. Ebbene, chi presiedeva il collegio sindacale di Sapna? Ma Michele Cantone, fratello di Michele. Tutto torna, dunque, e la cospirazione è provata. La verità ha poi trionfato ugualmente perché il complotto è stato smascherato dal Tar, ma De Magistris non può star zitto lo stesso, perché De Magistris «non molla mai». Pure qui, in realtà, c’è un particolare che non torna: Michele Cantone si astenne dalla redazione del parere citato da De Magistris, per evitare illazioni. Ma di nuovo: se stai ipotizzando che il mondo ce l’ha con te, questi sono dettagli che lasci a qualche Azzeccagarbugli, tu sei il sindaco che scassa tutto, puoi ben evitare di curartene.

E così De Magistris continua a dare di sé il ritratto che a suo dire piace tanto ai napoletani: quello del Sindaco che a mani nude lotta contro i poteri forti, i poteri occulti, le trame di Palazzo (anche se nel Palazzo lui siede ormai da un bel po’). E così, mentre dice «basta con la storia del soggetto isolato», dice pure che però lui è «l’unico riferimento istituzionale in circolazione»; mentre parla di «autorevolezza nazionale» restituita alla città, se la prende con l’Autorità nazionale anticorruzione, e, en passant, con qualche ex ministro ed ex Presidente del Consiglio. C’è contraddizione? Tanto peggio per la contraddizione!

Tutto ciò ha però una precisa coerenza: il sindaco della gente, senza partiti alle spalle, non può sedersi a un tavolo come un politico qualsiasi e fare l’accordo con il Pd. Non ci sono le condizioni, ripete. «La mia forza non è quella di essere il sindaco di centrosinistra», insiste. E mentre lo dice lascia intendere che in realtà una condizione c’è, ed è quella che ha messo lui: se proprio il partito democratico non sa che pesci pigliare, può mettersi in coda e sostenerlo. «Ben venga»! Basta, ovviamente, che il Pd venga così: con il cappello in mano. O magari in ordine sparso.

Su questo, peraltro, De Magistris ha ragioni da vendere: veramente il Pd non sa, al momento, a che santo votarsi. È vero, manca ancora un anno alle elezioni comunali, ma già si capisce che per ogni nome che vorrà tirar fuori, si troverà certo qualcuno disposto a impallinarlo. Dopo il disastro delle primarie del 2011, e il fallimento del Prefetto Morcone, andare appresso a De Magistris significherebbe però certificare questo stato, ammettere che, nel frattempo, non è maturata alcuna proposta politica seria. Può essere che non ci sia altro da fare. Del resto, alla Regione c’è ora De Luca, che nella sua Salerno il simbolo del Pd non ha voluto vederlo nemmeno col cannocchiale: a che serve proporlo allora a Napoli?

Già: a che serve? A che servono i partiti? Qualcuno ancora, ostinatamente, se lo chiede. Ma, ovviamente, tocca ai partiti dimostrare che a qualcosa servono: non certo a De Magistris. E forse nemmeno a De Luca.

(Il Mattino, 27 giugno 2015)

Se il premier prende il gessetto e la maggioranza impara la lezione

174917526-939a51a4-c385-4c08-92ab-94ab2dc39a39-420x133Con la fiducia al Senato, la riforma della scuola del governo Renzi si avvia a diventare legge dello Stato. Alla Camera, infatti, i numeri non sono ballerini e sorprese non ce ne saranno. Chi ieri se le aspettava, o anche solo ci sperava, è rimasto deluso da un voto netto, in cui il Pd si è mostrato persino più compatto del previsto. Eccezion fatta per due o tre senatori che non hanno partecipato al voto, e che paiono decisamente propensi ad unirsi a Pippo Civati, già uscito dal Pd, i democratici hanno dimostrato che la tenuta della maggioranza è assicurata anche su materie dove molto forte è la frizione interna, e sulle quali probabilmente hanno perso non pochi consensi, alle scorse elezioni regionali. Un segno di salute del governo, qualunque cosa si pensi della legge.

Non è stato, in verità, un passaggio semplice. Basta leggere l’intervento del senatore Miguel Gotor, tra i più vicini alla Ditta che fu di Bersani. Gotor, come molti altri della minoranza interna, ha voto sì alla fiducia per evitare, sono state le sue parole, che si aprisse una «crisi politica e istituzionale senza precedenti» (cioè che si andasse al voto), ma giudica questa «la peggior fiducia possibile» alla quale si è risolto «con un crescente disagio, misto a delusione e persino rabbia». Più duro di così c’è solo il voto contrario, ma il voto contrario non c’è stato.

Nel merito, Gotor può lamentare che la legge non fa nulla sulla dispersione scolastica, o che non si è messa mano ai cicli scolastici, ma ha purtuttavia dovuto riconoscere che nel lavoro parlamentare diversi aspetti controversi del testo sono stati modificati, o almeno smussati, e anche se lo considera un «mediocre intervento legislativo», invece di una vera riforma, ha dovuto prendere atto che siamo dinanzi ad un cambiamento deciso dell’organizzazione del sistema dell’istruzione, quasi brusco.

Questa presa d’atto è forse il più chiaro significato politico del voto di ieri. Renzi governa, e non ha nessuna intenzione di mollare la presa, o di rallentare il passo. I conti si faranno alla fine, ma dinanzi agli elettori Renzi vuole presentarsi con un carniere di riforme pieno. Agli avversari interni non resta, appunto, che prenderne atto. Il governo non cade per un incidente parlamentare, o per la defezione di un pezzo del Pd: chi ci contava ha in realtà già lasciato o sta per lasciare il Pd, ma i numeri sono comunque dalla parte del governo. A quest’ultimo appuntamento Renzi non si presentava certo nel momento di massima forza: il mondo della scuola gli si è fatto avverso, i sindacati gli hanno proclamato contro uno sciopero generale e ancora ieri gli insegnanti erano in piazza. Le opposizioni scalpitavano e i grillini non hanno certo perso tempo nel tentativo di ergersi a rappresentanti degli insegnanti e degli studenti delusi dalla sinistra. Per di più, nel voto regionale non sono state tutte rose e fiori, per il Pd. Però le cose sono andate come sono andate: Renzi ha tirato dritto e la maggioranza lo ha seguito. In effetti, il Nuovo Centrodestra ha non poche gatte da pelare (vedi il caso Castiglione) e soprattutto pare tenuto insieme quasi solo dalla presenza nelle istituzioni: difficile dunque che provi a sfilarsi. Non lo farà ora e non lo farà nei prossimi mesi. Quanto al Pd, il vero smottamento si è prodotto in realtà nelle file della sinistra interna, perché all’intransigenza un po’ rancorosa della vecchia guardia di D’Alema e Bersani, sempre più inascoltata, si è sostituita la formazione dialogante dell’area guidata dal ministro Martina e da Cesare Damiano, che pur con tutti i distinguo non intendono affatto essere d’intralcio al governo. Sono gli ultimi arrivati al fatidico momento della presa d’atto: Renzi non è un energumeno estraneo al Pd, lo scassinatore irriguardoso della tradizione della sinistra; è invece colui che ne interpreta la proposta di cambiamento. Respingerla in toto, come ha fatto due giorni fa Fassina, significa uscire dal Pd.

Dunque la nave va, e il suo timoniere può giocarsi una nuova partita, quella delle riforme istituzionali che in corso d’anno, con la legge sul nuovo Senato, proverà a chiudere. Poi, forte del bottino di credibilità conquistato sin lì, proverà a dare una sterzata anche sul quadrante europeo, dove si gioca la vera partita dei conti pubblici italiani. Solo dopo comincerà a pensare al voto, magari aiutato dai primi, timidi segnali di ripresa.

Dall’altra parte del campo di gioco, è ancora presto per dire se davvero Matteo Salvini riuscirà a prendere la guida del centrodestra. Ma intanto è lui che sembra disegnare i crinali lungo i quali si divide oggi l’opinione pubblica, cioè in tema di sicurezza e di immigrazione. L’altro discrimine, quello contro la casta e contro la corruzione, è presidiato con i toni giustizialisti che le sono propri, dall’altra opposizione, quella a cinque stelle. Al Pd,  tocca il compito  di tracciare la sua linea di demarcazione, e provare ad imporla presso l’opinione pubblica. Nelle settimane scorse, tra «mafia capitale» e liste di impresentabili, sbarchi di profughi e paure di uscita dall’Euro della Grecia, se ne era perso il segno. Ieri Renzi ha ripreso in mano il gessetto ed è tornato con decisione alla lavagna. E la maggioranza ha appreso la lezione.

(Il Mattino, 26 giugno 2015)

L’eterna tentazione della bandana

Acquisizione a schermo intero 24062015 200854.bmpUna stretta di mano gelida è quasi una contraddizioni in termini: non meraviglia però che se la siano scambiati ieri, alla festa della Finanza, Luigi De Magistris e Vincenzo De Luca. Per gli antropologi, stringere la mano è infatti il contrario della freddezza, è un modo di ridurre lo spazio interpersonale, un modo per verificare l’odore dell’altro: un modo di annusarsi, insomma.

Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato, e forse non sono stati i segnali chimici e olfattivi, ma quelli politici a spingere i due non già ad avvicinarsi e a sigillare patti, ma a mantenere la massima distanza possibile, fatto salvo il dovere istituzionale di salutarsi. Gelidamente, appunto.

Eppure le cose sembravano avere preso una piega diversa, solo pochi giorni fa, quando si erano ritrovati alla stessa tavola, complice la mediazione di Raimondo Pasquino. La notizia era filtrata sui giornali, e la riservatissima cena, che doveva preludere ad una ripresa del confronto fra il partito democratico e il sindaco di Napoli, era finita sulla bocca di tutti.

È possibile che De Luca fosse stato già contrariato dalle indiscrezioni che avevano accompagnato quel primo contatto. Certo è che l’intervista in seguito rilasciata da De Magistris, in cui il sindaco tornava ad escludere categoricamente un accordo col Pd, deve averlo irritato non poco, e il dialogo, appena avviato, si è subito interrotto. A De Luca, che sta provando a costruire la futura giunta regionale prendendosi i più ampi margini di autonomia dalle forze politiche di maggioranza, tornava utile dimostrare di poter costruire un rapporto solido di collaborazione con l’area che su Napoli fa ancora riferimento a De Magistris. Dalle difficoltà che la legge Severino frappone al suo insediamento De Luca sta provando ad uscire costruendo da un lato un programma ad impatto immediato, dall’altro dimostrando di avere lui tutte le atout politiche in mano: non solo su Salerno, dove non ha difficoltà a definire le condizioni della successione, ma anche su Napoli, dove si trattava appunto di stabilire una cerniera con la maggioranza, in vista delle prossime elezioni comunali.

Né il pontiere Pasquino, che volentieri sarebbe traslocato da Palazzo San Giacomo a Palazzo Santa Lucia, magari nelle vesti di vice-Presidente, né il neo-eletto De Luca hanno però fatto i conti con la coazione a ripetere che costringe De Magistris dentro lo schema del 2011, e che evidentemente gli impedisce di lavorare ad uno scenario diverso da quello che lo ha portato sulla poltrona di primo cittadino. Non fu forse il disastro delle primarie del partito democratico a spianare la strada al magistrato d’assalto? E non è per questo, perché deve a quel disastro tutta la sua fortuna politica, che a De Magistris riesce impossibile calarsi in una logica di accordi fra partiti, di rapporto fra alleati, di costruzione di rapporti politici?

Il ragionamento potrebbe anche tenere, se dal 2011 ad oggi non fosse cambiato nulla. Ma le elezioni dimostrano invece che molto è cambiato: il Movimento Cinque Stelle ha preso un quartodei voti alle scorse elezioni regionali, e in quel così ampio consenso vi è sicuramente una larga parte degli elettori che quattro anni fa votarono De Magistris. È abbastanza complicato immaginare che, in presenza dell’agguerrita offerta politica grillina, i voti della jacquerie napoletana tornino disciplinatamente a sventolare la bandana arancione. Molto più probabilmente, quei voti il sindaco non li ha più, anche se continua a comportarsi come se li avesse, con piglio movimentista, facendo e disfacendo, cenando e poi mandando di traverso la cena ai suoi interlocutori.

Se però si capisce perché De Magistris, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, non sappia o non voglia interpretare un ruolo diverso da quello fin qui tenuto, si capisce un po’ meno cosa pensi di fare il Pd. Invece di inseguire un elettorato che, se molla De Magistris, è facile che si sposti sui Cinque Stelle, dovrebbe lavorare a costruire una proposta davvero credibile, negli uomini e nei programmi, di rilancio della città. Farlo senza timidezze e abboccamenti, senza cercare piccoli accordi di potere in una logica meramente pattizia, parlando invece alle forze vive della società napoletana, danno sostanza alla propria opposizione all’attuale Amministrazione, costruendo con la sponda istituzionale della Regione una proposta concreta di governo del territorio. Di lavoro da fare ce n’è, insomma. E, per il Pd, la distanza vera da accorciare con qualche stretta di mano non è con la giunta in carica, ma con la città.

(Il Mattino – ed. Napoli, 24 giugno 2015)

Se la sinistra Pd usa la scuola come una clava

Immagine23Centomila docenti immessi in ruolo non sono affatto pochi. I sindacati e la sinistra del Pd non sono tuttavia disposti a trattare e, pochi o molti, provano a ottenerli lo stesso «maledetti e subito»: non sembrano cioè disponibili a fare sconti al governo, e rifiutano l’idea che vi sia un nesso fra la riforma della scuola e la nuova leva di docenti di ruolo che dovrebbero entrare nella scuola. In linea di principio, dovrebbe essere esattamente il contrario, per ogni settore della pubblica amministrazione: tu cambi la pianta organica, la riduci o la incrementi in ragione di nuovi compiti, nuove mansioni, una nuova organizzazione di lavoro. Ma la partita è diventata tutta politica, le questioni di merito stanno rapidamente retrocedendo sullo sfondo, e l’obiettivo è ora incassare subito i centomila, riforma o non riforma, e, se Renzi dovesse ostinatamente rifiutarsi, provare a lasciarlo con il cerino in mano, sperando che il premier si scotti le dita con la mancata assunzione dei precari.

Il dilemma sembra infatti essere il seguente: o Renzi cede, e allora i sindacati grideranno alla vittoria, si intesteranno i nuovi assunti e sosterranno di avere vinto il braccio di ferro col governo. Oppure Renzi tirerà dritto, e allora sarà nuovamente intonata la litania di una sinistra che si è ormai allontanata dalle sue ragioni profonde, dai suoi mondi di riferimento, dai suoi valori e, infine, dalla sua identità storica. O Renzi cede, e allora la minoranza interna rialzerà la testa, avendo dimostrato il suo potere di interdizione e la capacità di condizionamento del governo. Oppure Renzi tirerà dritto, e allora si griderà all’autoritarismo strisciante, alla fine della democrazia o alla sinistra irriconoscibile, che ormai fa sue le politiche della destra.

Ovviamente, Renzi non ha nessuna voglia di dare ragione agli uni o agli altri. E ha tutto l’interesse a portare a casa la riforma. È facile infatti prevedere che se davvero si procedesse allo stralcio delle assunzioni, ogni interesse per la «buona scuola» svanirebbe all’istante. A che pro cambiare, se nel frattempo si è già ottenuto quello che si voleva? E soprattutto come cambiare, se nel frattempo si è dimostrato che il governo non ha la forza per cambiare?

Nell’assemblea che i senatori del Pd hanno tenuto qualche giorno fa, in vista dell’approdo in aula del testo di legge, si erano in realtà ascoltati accenti diversi, e osservazioni di merito su alcuni dei punti controversi (sul ruolo del dirigente scolastico, ad esempio, o sulle modalità della valutazione) che avrebbero potuto e ancora, probabilmente, potrebbero essere raccolti in una linea di mediazione. Ma imboccare questa strada sarebbe stato possibile a una condizione, che sempre meno sembra sussistere: se cioè nel Pd si fosse ragionato nei termini di un’unità che, in realtà, manca. Parliamoci chiaro, tra cambiare la riforma in alcuni suoi punti, o mettere in seria difficoltà il governo, sindacati e minoranza non sembrano avere dubbi: si tratta di mettere in difficoltà il governo.

Ora, è chiaro che Renzi questo non lo può consentire. Quanto più la partita si sposta dal merito delle questioni, tanto più diviene difficile trovare un accomodamento. Quanto più si avvicina il punto in cui in gioco è l’esistenza stessa del governo, tanto più a Renzi non rimane che un solo modo per risolvere il dilemma: dimostrare che la riforma è il piatto principale, e che le nuove assunzioni ne sono il contorno, o almeno la conseguenza. Non c’è altro modo. Spiegando in prima persona i propositi del governo in materia, Renzi ha deciso di farne un punto qualificante della sua stessa leadership. Forse dal dilemma deve provare a venire fuori così, chiedendo all’opinione pubblica del Paese se la sinistra che vuole al governo è quella di Camusso, Civati o Bersani, oppure quella che lui rappresenta. Se è da lui o dagli altri che vogliono sentirsi dire «education, education, education: le tre priorità di cui parlava Tony Blair quando portò al governo il New Labour. Ora che la sinistra socialista e socialdemocratica arretra in quasi tutto il continente, incalzata da populismi di varia specie e natura, diviene essenziale al partito democratico chiarirsi intorno ai propri compiti: non però intorno ai nuovi assunti, ma intorno alla difesa della scuola pubblica. Si tratta di buttare a mare la riforma, o di completarne il disegno? Se Renzi riesce a portare la decisione su questo punto, non è detto che in un cul de sac non ci finiscano un’altra volta i «gufi» e i «frenatori».

(Il Mattino, 22 giugno 2015)

Politica e giustizia sul ring

Sospesi [particolare 1]-installazioneIl nodo non è ancora sciolto, e non è detto che lo sarà facilmente nei prossimi giorni. L’assenza di Vincenzo De Luca, ieri, e il mancato insediamento come Presidente della regione crea un intervallo fra la fine della giunta Caldoro e l’inizio del nuovo corso deluchiano che la legge si sforza invece di chiudere, per assicurare piena continuità amministrativa all’ente regionale. Questa volta la cosa è molto meno chiara che in passato.

Non è, naturalmente, solo questione di bon ton, di mancate strette di mano o di cordialità nello scambio delle consegne: è, invece, la contraddizione contenuta in un esito che dopo l’elezione, per effetto della legge Severino, non consente di fare anche il passo successivo della proclamazione: compierlo avrebbe evidentemente esposto gli atti conseguenti al pericolo di nullità. E invece De Luca deve arrivare alla seduta della prima Assemblea regionale e alla nomina della nuova giunta (e del vice-Presidente) senza essere colpito dalla legge, e prima che scatti la sospensione, il cui iter, peraltro, con la prima trasmissione di carte verso Roma, è già partito.

Non si può dire che di tutto questo groviglio giuridico il cittadino non deve darsene pensiero: non solo perché il caso è ancora aperto, ma perché il primo significato della democrazia sta nel portare innanzi all’elettorato, e non certo nel tenere riservate, forme e ragioni e fondamenti di legittimità delle decisioni di governo.

Non è, insomma, andato in scena un bello spettacolo. Non lo è mai, quando si è costretti a ricorrere a qualche escamotage, per non strappare la tela del diritto, e conseguire comunque un certo risultato politico. De Luca, d’altra parte, lo sa perfettamente: lui più di qualunque altro dirigente democrat, che alla forza elettorale dell’ex sindaco di Salerno ha dovuto piegarsi. De Luca sa anche, con altrettanta certezza, che l’incubo di una sedia su cui non riuscire a sedersi potrebbe ossessionarlo ancora a lungo, e sa infine che ciò non sarebbe privo di conseguenze per l’istituzione regionale. Sull’altro piatto della bilancia sta però il voto democratico. E sta anche, non dimentichiamolo, il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Si tratta di architravi fondamentali di un ordinamento liberal-democratico: insieme, certo, al principio di legalità, che la vicenda De Luca sta invece sottoponendo a più di una tensione. Se di un tal principio vi è pieno rispetto, nelle mosse fin qui compiute, lo si capirà meglio nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, perché la battaglia di istanze e contro-istanze, diffide ed esposti è, con tutta probabilità, appena cominciata.

Resta però il nodo. Aggrovigliato ancor di più dall’incertezza che grava anche sul Sindaco di Napoli, che potrebbe essere nuovamente sospeso e che non ha ancora nominato un nuovo vice, dopo le dimissioni di Sodano. Se a ciò aggiungiamo che anche a Salerno, dopo la decadenza di De Luca, non siede sullo scranno più alto un sindaco eletto direttamente dai cittadini, come la legge prevede, abbiamo un quadro allarmante dello stato dei poteri democratici, in Campania.

Tutto ciò sta sotto il tema del rapporto fra politica e giustizia, che non ha evidentemente trovato ancora un equilibrio accettabile. Le ragioni sono storiche, vengono da lontano, vanno ben oltre i casi individuali, ma sta di fatto che è così: quell’equilibrio non c’è. La lite rimane aperta. Ed espone tutto il campo della politica a continue, forti sollecitazioni. Un tempo si poteva pensare, con lucido quanto disincantato realismo, che la legge dello Stato nascesse da ciò, che non potendosi fare che il giusto fosse forte, si doveva finire con il fare in modo che il forte fosse giusto: così si taglia la testa al toro e la si smette con le contestazioni. Ma lo Stato di diritto moderno è il tentativo di allargare gli spazi in ci è invece la forza a piegarsi alla giustizia, e non viceversa. Dopodiché però rimane il problema di chi dichiari la giustizia tale: la forza, infatti, è abbastanza perentoria dal dichiararsi da sé. È stata allora trovata un’altra soluzione: rimettere in ultima analisi la forza nelle mani di tutti, cioè del popolo, che la esprime tramite il consenso. E questa è la democrazia. Con la quale certo non si cancellano i tribunali, il lecito e l’illecito, tanto meno si eclissa la morale individuale, ma si cerca almeno un «ubi consistam», un punto di tenuta su cui l’istituzione dello Stato deve poter contare comunque. Questo punto, in Campania, sembra non esserci: non è infatti chiaro nemmeno – non lo è sicuramente al comune cittadino – innanzi a quale tribunale finirà, se e quando finirà, la fuga dei ricorsi.

E così si rimane «tra color che son sospesi»: come diceva Dante, che chi così si trova «dal cominciar tutto si tolle»? Beh, è proprio quello che è accaduto: De Luca si è tolto dal cominciare a fare il Presidente della regione, e non è ancora sicurissimo che, alla buon’ora, prima o poi comincerà.

(Il Mattino, 19 giugno 2015)

I due forni del partito democratico

mano tatticaLa notizia è: il partito democratico non è imbattibile. Anche i comuni siciliani andati al voto suonano un campanello d’allarme. Se poi passano al centrodestra città come Venezia o Arezzo, da lunga pezza governate dal Pd, vuol proprio dire che l’esito elettorale delle prossime elezioni politiche, vicine o lontane che siano, non è affatto scontato. Dopo il quaranta e passa per cento ottenuto da Renzi alle europee, e le evidenti difficoltà di un centrodestra frammentato e diviso, in crisi di leadership e di identità, sembrava che la navigazione di Renzi sarebbe stata tranquilla per un bel pezzo. E invece non è così. Il centrodestra si riorganizza, la Lega si lascia spingere dal vento populista e i grillini portare, al solito, dall’onda dell’indignazione morale, mentre il Pd paga in termini di consenso le divisioni interne, e la bonaccia che segue sempre quando cala, inevitabilmente, il soffio della novità. Contano, ovviamente, le logiche che si disegnano sul piano locale, ma la sociologia elettorale insegna che i trend nazionali influenzano anche il voto municipale, o regionale. Se così non fosse, non avrebbe senso guardare alle elezioni amministrative come ad una sorta di elezioni di medio termine, indicative dello stato di salute di un governo, o di una maggioranza, o di un partito che governa a livello nazionale e al quale l’elettorato manda, anche con il voto a livello locale, un segnale.

Ma quale sia il segnale consegnato alle urne dipende molto dal significato che si attribuisce all’exploit delle europee del 2014. Quel voto rappresentava sicuramente un grande investimento di fiducia nel nuovo corso impresso da Renzi al governo e al Pd, ma non cancellava d’un sol colpo tutte le difficoltà in cui si dibatteva non solo il partito democratico, ma il sistema politico italiano nel suo complesso. Il dato dell’affluenza, mai così bassa, dimostra che c’è sicuramente un calo drammatico di fiducia e di credibilità dei partiti. Le ragioni della partecipazione cambiano, e sicuramente si affievoliscono quanto più si indebolisce il significato di appartenenza che l’elettore affida al voto, ma la sequenza di scandali che punteggia le cronache politiche da settimane, con il bubbone romano in primo piano, di certo non contribuisce al recupero di credibilità e di fiducia del sistema dei partiti. A ciò si aggiunga che il tasso di rinnovamento a livello locale è sicuramente inferiore a quello visibile a livello nazionale, e il conto è presto fatto. Dove perde, il Pd perde anzitutto perché viene identificato con la continuità di un sistema di potere e di governo che i cittadini chiedono di cambiare. Questo vale anche a Venezia, dove forse la sconfitta fa più male: lì la candidatura di Felice Casson, magistrato dalla indiscussa reputazione, doveva significare una discontinuità che, invece, è stata meglio rappresentata dalle liste che hanno sostenuto il candidato di centrodestra, Brugnaro. In quel voto, peraltro, si vede bene il peso di certe dinamiche più generali: per vincere, Casson doveva portare dalla sua parte un pezzo dell’elettorato che al primo turno ha votato i Cinquestelle. E invece quell’elettorato ha preferito starsene a casa, nonostante Casson fosse quanto di più vicino a una certa sensibilità grillina il centrosinistra fosse in grado di esprimere: è il segno che il solco che separa il Pd dai Cinquestelle va approfondendosi.

Poi ci sono realtà come quella di Giugliano, dove il Pd paga il prezzo di lacerazioni profonde. Una logica elementare, ma sempre valida, si impone anche in questo caso: la compattezza e l’unità di uno schieramento fanno la differenza. Il che costringe il partito democratico ad una riflessione sul suo «mito fondativo», quelle primarie che non vengono vissute come uno strumento per allargare la partecipazione, ma come una sorta di regolamento di conti all’interno di un partito che spesso, nelle singole realtà, non ha vere ragioni di coesione.

Una frattura, in realtà, sembra correre anche fra la dirigenza nazionale del Pd e i gruppi dirigenti locali. Non sempre si ha l’impressione che costituiscano la stessa comunità di destino, come si diceva una volta enfaticamente: molto più spesso, pare proprio che il Pd risulti a livello locale da una sommatoria di certi suoi pezzi, e che anche a Renzi l’amalgama non sia veramente riuscito. Che Renzi vada da una parte, insomma, mentre tutto il resto del Pd se ne va per conto proprio. Sarà un’impressione sbagliata, ma tutte queste iniziative a sostegno delle riforme, in giro, sul territorio, non è che si siano viste. E se un partito non prova a rivendicare i risultati che ottiene nell’azione di governo, è difficile che riesca a tenere bene il campo. Squadra troppo lunga e sfilacciata, quella del Pd: forse un cambio di modulo è necessario, e qualche panchina qua e là finirà col saltare.

(Il Mattino, 16 giugno 2015)

La verità contro il razzismo

TERMINILa verità sull’immigrazione. Non è facile, ma è necessario. I toni populisti e forcaioli rendono difficile proporre un ragionamento serio; i rischi dell’equivoco, oppure della strumentalizzazione si nascondono dietro ogni parola, e tuttavia non basta prendersela con chi soffia sul fuoco o lucra sulla paura, senza domandarsi perché il fuoco covi sotto la cenere, e come mai sia possibile condurre un simile gioco. Vi sono aspetti generali del fenomeno difficilmente governabili, e vi è sicuramente una responsabilità dell’Europa che non può lavarsene le mani e lasciare soli i paesi più esposti, ma esposti – voglio chiedere – a cosa? All’ingresso di orde di barbari, di delinquenti incalliti, di razze geneticamente inferiori? Nulla di tutto questo, ovviamente. Ma è passato quasi un quarto di secolo da quando una nave di albanesi colma fino all’inverosimile si affacciò sulle nostre coste: cosa abbiamo fatto da allora perché fosse meno estraneo il volto dell’altro, e meno minaccioso? Quali politiche per l’immigrazione e per la sicurezza sono state attuate, e con che risultati? Quanto si può dire che sia riuscita l’integrazione degli extra-comunitari, e quanti di costoro, che sono qui ormai da anni, non sono più extra? A chi abbiamo dato la cittadinanza? A chi saremmo disposti a darla? E a quali condizioni la daremmo? Quali doveri pretendiamo noi, come Paese,d a un immigrato?

Non sono domande difficili, eppure a molte di esse non possiamo che dare risposte molto parziali, lacunose, insufficienti. Manca infatti un quadro di regole soddisfacente che consentano un governo effettivo del fenomeno. Governarlo non può voler dire abolirlo: è impossibile, non si può fare. Ma non può voler dire nemmeno rinunciarvi del tutto, e pazienza se ognuno si dovrà arrangiare come può. La Lega, d’altra parte, può montare tutta la caciara che vuole, prendersela coi prefetti o coi magistrati, gridare al nemico alle porte e tirar su il ponte levatoio. Può farlo, incurante delle responsabilità che ha, per essere stata alla guida del Paese per anni, per avere avuto la titolarità del ministero dell’Interno, per avere firmato il Trattato di Dublino e la regola che lascia sulle spalle del paese d’arrivo (spesso l’Italia) tutto il peso dei migranti. Ma presa la distanza più netta e più radicale dalla insopportabile demagogia leghista, non è demagogico anche parlare di accoglienza, di ospitalità, di solidarietà, parlare ed avere fallito e fallire nell’opera di scolarizzazione, oppure utilizzare la pressione migratoria solo come esercito di riserva (magari illegale) della manovalanza meno qualificata?

Quale rapporto vi è fra le parole pur necessarie per svelenire il clima ed incoraggiare il reciproco rispetto (che è qualcosa più della tolleranza, cioè della sopportazione pura e semplice del diverso), quale rapporto  vi è – dico – fra queste parole e le condizioni reali di convivenza che si danno nelle periferie delle nostre città, negli angoli delle strade dove li incontriamo: fantasmi che vorremmo non incrociare mai, spettri che ci assillano con la loro semplice presenza, estranei con i quali non sapremmo scambiare due parole? Finché non offriamo che questo: un modo di ammucchiarli in campi profughi, una specie di reclusione in centri di presunta accoglienza dove qualcuno monetizza oscenamente una pelosa solidarietà, e infine, il più delle volte, una condizione di clandestinità o di semi-illegalità, finché – ripeto – non mostriamo altro volto che questo, come possiamo pensare di educare loro e di educare noi stessi? La scommessa della multiculturalità non può essere vinta (benché la pressione migratoria sia tale che non sia possibile non giocarla), finché oscilla fra il relegare e l’ammassare, senza mai essere in grado di tracciare linee, stabilire norme, e soprattutto dire sì a questo e no a quello, visto che il no a tutto ingrossa solo le fila dei clandestini in terra e dei cadaveri in mare, ma anche il sì a tutto, senza politiche a sostegno, alla lunga produce risultati non molto diversi, anche se al riparo di una buona coscienza.

L’ospitalità è un dovere etico assoluto, incondizionato, che però ci interroga in quanto individui; la responsabilità politica è un’altra cosa, perché si estende anche agli individui che noi non siamo, alla cui fatica del vivere quotidiano non possiamo permetterci di aggiungere i nostri doveri etici inderogabili.  Essere ospitali non può, allora, voler dire accettare che ad ogni crocevia di strade, nelle nostre città, la criminalità abbia modo di gestire il racket dei lavavetri e il commercio dei fazzoletti di carta.

L’altra sera ho perso l’ultimo treno da Roma: la stazione Termini chiude per qualche ora. Sono rimasto nel piazzale antistante, per qualche ora, e ho visto un’umanità dolente, povera, raccogliersi stancamente, quasi uscire dall’ombra e cercare di organizzarsi alla bell’e meglio un giaciglio con buste e cartoni, cercare l’acqua di una fontanella per una toilette di fortuna, fasciarsi i piedi, frugare nell’immondizia. In che senso – mi chiedo – in che modo queste persone sono accolte in Italia? Perché chiamare accoglienza la mera tolleranza di una simile condizione? Non vi è uno spaventoso equivoco, in tutto ciò? E chi vincerebbe una sola elezione – lo dico alla sinistra che su questi temi ha perso e rischia di perdere nuovamente la Capitale – se lasciasse le cose così, come si vedono la notte, nei pressi della stazione Termini? E cosa pensa di chiedere a chi vive non per una malaugurata notte ma ogni giorno e ogni notte fianco a fianco di situazioni simili? Cosa pensa di opporre alla retorica leghista? Dire «non li vogliamo a casa nostra» è sbagliato e ingiusto, ma dire «la mia casa è la tua casa» è ipocrita. Ed è invece tempo di verità, vi prego, sull’immigrazione.

(Il Mattino, 13 giugno 2015)

Gli imbecilli di Eco e il diritto alla parola

faber7-01-03Ma cosa si deve dare a un imbecille? Voglio dire: secondo Umberto Eco,  internet, i social network, hanno finito col dare a legioni di imbecilli il diritto alla parola, con le conseguenze che sappiamo (cioè precisamente quali? Non è chiaro, ci torno sopra dopo). Ora, però, a un imbecille non è il caso di dare la parola, è chiaro, ma nemmeno le chiavi dell’auto, o il posto a tavola. Da questo punto di vista, come dar torto a Eco? Il professore, ieri parlava a braccio, a margine della cerimonia in cui riceveva l’ennesima laurea honoris causa, ed è quindi probabile, se non certo, che, lamentandosi del diritto alla parola dato agli imbecilli e alle loro vaste legioni non intendesse affatto togliere loro un diritto costituzionalmente garantito. La nostra Carta non distingue infatti fra il diritto di parola agli intelligenti, agli stolti, e ai completamente imbecilli. Anche il diritto di voto, peraltro, non tiene conto della distinzione – è la democrazia, bellezza! – e consente agli imbecilli di cui sopra di esprimersi liberamente. Se è vero, come Eco ha detto, che gli imbecilli parlando fanno molti guai, figuriamoci votando!

Ma è chiaro che in questione non è tanto il diritto, quanto il fatto, o forse meglio lo strumento con il quale gli imbecilli esercitano il loro diritto: la rete. Eco ha infatti sostenuto che grazie alla rete lo scemo del villaggio è diventato «portatore di verità». Che grosso modo vuol dire: è lui che, oggi, fa opinione in rete. Lui che si inventa le cose più assurde; lui, il troll che infesta i commenti o crede alle storie più improbabili. Altro che avere un mondo nel cuore e non riuscire a esprimerlo con le parole, come cantava De André! Lo scemo adesso si esprime e come! Anzi: monopolizza la scena. E soprattutto non capisce, cioè non discrimina, prende per oro colato qualunque notizia circoli in rete, e ignora la differenza fra essere informati ed essere colti, sapere quello che si dice e sapere perché lo si dice. A decidere se un sito sia autorevole, affidabile, competente è il numero di accessi e condivisioni: la popolarità, insomma, che è un indice in cui gli imbecilli impongono la dura legge del numero.

A queste ragioni e preoccupazioni si possono però opporre almeno un paio di cose. La prima: non è vero che la quantità rovini necessariamente la qualità. Anzi Donald Sassoon ci ha scritto su un librone grosso così (chi mai lo leggerà? Non lo so, ma se siete bravi – ehm – potete riuscire a scaricarlo dalla rete). Tesi: già altre volte si sono rotte le cateratte dell’accesso, e i barbari sono entrati nel tempio della cultura. Con la stampa, ad esempio, con il disco, con la televisione. Non sono per questo finite né la letteratura, né la musica, né le arti visive. Piuttosto: sono cambiate. Oggi in metropolitana tutti ascoltano grazie a internet musichette orrende? Beh, prima non ascoltavano affatto.

Seconda obiezione: ma chi l’ha detto che i siti sono tutti uguali? Il fatto che notizie e conoscenze circolino per mille rivoli, ufficiali e non, mediate o disintermediate, non toglie che pure la rete, come i materassi di una volta, ha i suoi «punti di capitone», cioè luoghi in cui le cose si intrecciano, per i quali più o meno tutti passano, e che quindi finiscono con l’assumere una funzione quasi-istituzionale, di filtro o di raccordo. Persino la pagina di ricerca di Google, apparentemente bianca e vuota, la esercita e sarebbe più utile capire in che modo, piuttosto che rimanerne ignari. Se dunque Eco, smettendo i panni apocalittici e integrandosi un po’ di più, esercitasse il suo spirito critico non in termini generici e approssimativi, ma guardando un po’ più da vicino le cose, e come davvero funzionano, l’imbecillità della rete non scomparirebbe, ma forse non gli risulterebbe più così insuperabile.

(Il Mattino, 12 giugno 2015)

Il leader alla sfida dei valori

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Siccome le elezioni regionali non sono andate come si immaginava che sarebbero andate, in Direzione ieri sera erano in molti che attendevano Renzi al varco. Ma come dovevano andare, le elezioni, perché la Direzione nazionale del Pd festeggiasse a champagne? Davvero qualcuno pensava che il Pd veleggiasse ancora, bello e felice, intorno al 40 per cento, o che il Pd avrebbe fatto cappotto? Davvero si pensava che non ci sarebbe stato un calo in elezioni di mid-term, finita cioè la luna di miele dei primi mesi di governo e con tutte le querimonie della minoranza interna? E le amministrazioni regionali godevano forse di così ampio credito e fiducia, da non lasciar temere un calo di affluenza?

In verità, ieri sera Renzi non è sembrato particolarmente interessato all’analisi del voto, quanto piuttosto all’analisi del mese di maggio. Perché il Pd ha trascorso il mese di maggio ha ragionare di sé, piuttosto che delle cose fatte dal governo. Così sul piano dell’analisi del voto, il premier si è limitato a contare le regioni che il Pd ha messo in fila, mentre come conseguenza del maggio delle polemiche interne ha tirato una linea assai netta: l’unità del partito non vale la paralisi. Naturalmente non si è sottratto alla ricerca del punto di sintesi, su quei terreni sui quali può ancora essere trovata, la scuola e il Senato, cioè le riforme che devono passare per le forche caudine di Palazzo Madama. Ma, sia vero o no quello che Renzi ha sostenuto, che cioè i numeri ci sono e le si potrebbe approvare anche domani mattina, certamente è vero il punto politico che ha difeso. E cioè: il governo Letta si era dato un orizzonte temporale limitato, per superare lo stallo seguito al voto e alla «non vittoria» di Bersani; il governo Renzi ha motivo di concludere la legislatura e arrivare al 2018 solo se è in grado di fare le riforme, e non se tiene dentro tutto e tutti, per non scontentare nessuno. Perché per Renzi, se da una parte c’è Grillo («rabbia, rabbia, rabbia») e dall’altra c’é Salvini (e di nuovo solo «rabbia rabbia rabbia») Il Pd è necessariamente chiamato ad investire sull’aazione di governo. Non c’è altra strada, che non sia, a sinistra, quella minoritaria di Landini e della sua fumosa coalizione sociale.

Stanno strette le scarpe, alla minoranza del Pd? Pazienza. In cima alle preoccupazioni di Renzi non sta l’unità del Pd. Era ancora nel vero Renzi, quando aggiungeva che le riforme fatte finora – Jobs Act, legge elettorale – piaccia o no, sono frutto di un’accelerazione: gentile eufemismo per dire che è andato avanti nonostante i «frenatori» interni.

Non basta. Ieri Renzi non ha avuto paura di annunciare la volontà di cambiare i connotati del Pd anche su questioni fondanti, per un partito di sinistra, come l’immigrazione e il giustizialismo. Su quest’ultimo punto ha forse pronunciato l’eresia maggiore: il giustizialismo è di destra, ha detto. Sarà anche l’effetto di qualche opportunità del momento (leggi: De Luca e la legge Severino), ma resta che una roba così netta e così chiara ha sicuramente il valore di una ridefinizione del quadro valoriale di riferimento del partito. Se e come Renzi la porterà avanti vale sicuramente più di tutte le beghe interne.

Su Repubblica, Ilvo Diamanti, ha proposto un’analisi del voto abbastanza paradossale: nelle ex regioni rosse, l’elettore che vota il Pd lo vota nonostante Renzi. Nelle regioni forza-leghiste, l’elettore che vota Renzi lo vota nonostante il Pd. Insomma: Renzi e il Pd, nell’analisi di Diamanti, non possono coincidere. Come però si ottiene questo risultato? Immaginando che l’elettore non cambi: quello di sinistra resta di sinistra, e non riesce a farsi piacere la novità di Renzi; quello di centro-destra potrà anche farselo piacere, ma allora gli continuerà a spiacere il Pd. In un caso e nell’altro, in base a questa analisi col voto non si esprime mai una volontà di cambiare: di cambiare opinione o di cambiare il Paese. Tra rottamazione prima e strappi nel partito poi, è innegabile invece che Renzi qualcosa la stia cambiando nella carta d’identità della sinistra italiana. E se ha ragione lui, allora rimane un’ultima possibilità, non tanto a Ilvo Diamanti quanto alla minoranza che lo ascoltava ieri, un po’ intimorita da tanta baldanza: quella, prima o poi, di cambiare analisi.

(Il Mattino, 9 giugno 2015)

Il dramma oltre gli slogan

Immigrazione

In un’operazione senza precedenti, le navi dei paesi europei che incrociano nelle acque del Mediterraneo sono impegnate da ieri nel soccorso di almeno quattordici barconi zeppi fino all’inverosimile di migranti. Il ministro della difesa britannico, Michael Fallon, a bordo di una delle navi accorse nella zona, ha dichiarato che nel breve periodo vi sarà sempre più bisogno di navi europee in quel tratto di mare. Le quali, tuttavia, non basteranno. Accorrono navi italiane, irlandesi, tedesche: non basteranno. Dalla Turchia all’Egitto alla Libia, un continente intero si affaccia sul mare e prova ad attraversarlo. Con ogni mezzo. Con ogni tempo. E non sono viaggi della speranza: nessuno spera più nulla, ormai. Sono piuttosto viaggi della disperazione, accompagnati dalla certezza che è meglio fuggire, meglio lasciarsi alle spalle la fame, la miseria, la guerra. Qualunque cosa si troverà sul mare, foss’anche la morte.

Nelle scorse settimane l’Europa ha provato a imbastire una prima risposta comune. In realtà, non ha ancora messo bene a fuoco neppure la domanda. C’è infatti sicuramente un’emergenza, ogni qual volta giunge notizia di un barcone alla deriva, o di corpi dispersi in mare. Quando però è un’umanità intera che con una flottiglia di fortuna tenta la traversata, quando si sa che dietro la linea dell’orizzonte vi sono già altre barche che hanno levato le ancora, e basta levarsi in volo con un elicottero, oppure scattare una foto con un satellite, o semplicemente attendere qualche ora per vederle – quando tutto questo accade, tergiversare è ridicolo, minimizzare è colpevole, ignorare è delittuoso.

Nel breve periodo, dice Fallon, occorrono più navi. È almeno il segno che una qualche consapevolezza della crisi umanitaria va facendosi largo. Ma nel lungo periodo? Ci vuole più intelligence, ha detto il ministro di Sua Maestà, per sgominare la rete che sostiene gli scafisti e lucra sulla pelle dei profughi. Ma forse avrebbe dovuto aggiungere che ci vuole più politica, per fare le due cose che la politica è essenzialmente chiamata a fare.

Una è senz’altro agire; l’altra, però, è rappresentare. Sono necessarie entrambe. È necessario agire perché fin quando le coste libiche rimarranno incontrollate, non saranno né le navi né i pool dei servizi segreti a sgominare il traffico di esseri umani che ogni giorno avviene nelle acque del Mediterraneo. Ci vuole molto di più: ci vuole una ricostruzione di equilibri politici e statuali che sono stati compromessi, senza avere minimamente idea di quel che sarebbe capitato dopo. E il «dopo» – il dopo la primavera araba – è ormai arrivato. Non lo può fare l’Italia, da sola, ma lo deve fare l’Unione europea. Se però non lo fa, è perché la politica non riesce a fare l’altra cosa necessaria. Si agisce infatti politicamente sulla base di ciò che si intende rappresentare. Di quello che si vuole essere. Bisogna che i cittadini europei sentano allora come una questione che li concerne maledettamente da vicino la domanda che i migranti rivolgono loro: chi siete? Noi siamo quelli che fuggono, voi chi siete? Dove stanno insomma, gli europei, quando vedono i barconi alla deriva e le facce di povera gente consumate dal sole e dalla salsedine? Cosa chiedono: che si alzi il ponte levatoio, e si tengano quegli estranei fuori dalla fortezza europea, o che si tirino su quelli che hanno ancora forza per aggrapparsi ad una mano tesa? La mano è per respingere o per accogliere? Il diritto, i diritti: a chi appartengono? Sono un bene di tutti, degli uomini in quanto uomini o solo dei cittadini europei?

Nel breve periodo, più navi. Ma la politica non è fatta per il breve periodo, e di fronte a un fenomeno di proporzioni così ampie non può sottrarsi alle domande più radicali. Vorrei aggiungere: una domanda radicale è una domanda per la quale non c’è davvero una risposta. Nessuno, per esempio, sa davvero cosa significhi essere felici, o in cosa consista la giustizia. Ma non per questo la sua vita non ruota intorno a questi assi, che gli riesca o meno di star su. Allo stesso modo: non basta alla sinistra dire che bisogna accogliere tutti senza altra considerazione, e non basta alla destra dire che bisogna respingere tutti con altrettanta assolutezza. Queste sarebbero solo pseudo-risposte, tanto facili quanto irresponsabili, tanto semplici quanto ineffettuali. Fate che li volete respingere tutti: arriveranno lo stesso. Fate invece di volerli accogliere tutti: neppure questo potrà mai riuscirvi. Cionondimeno, questa è la croce del presente che la politica deve provare a comprendere, cercando di restar dritta. Di tenere dritte le barche, senza che affondino con il loro carico di vite umane. Di tener dritti gli Stati europei, evitando che si pieghino troppo per il peso dei rispettivi egoismi. Di tener dritti, infine, anche i nostri cuori, spesso troppo velati di facili lacrime, o peggio gonfi di cieco risentimento.

(Il Mattino, 7 giugno 2015)

De Luca, Crozza e il nuovo stile

Immagine2Sarebbe un peccato se, per colpa di Crozza, il neo Presidente rinunciasse ad affibbiare a questo o a quello il più efficace dei suoi epiteti, quello di «personaggetto». Eppure ieri De Luca, sentito sull’imitazione del comico genovese (che peraltro ha detto di apprezzare assai), ha ventilato la tristissima eventualità. Sarebbe una vera iattura. Dallo «sterminatore di congiuntivi» (Luigi Cesaro) in poi, passando per l’insulto a Gasparri («strana mescolanza tra uomo e pinguino»), per l’epopea dei cafoni e per altre, non meno celebri espressioni , la raccolta dei memorabilia di De Luca potrebbe rapidamente superare quella di Senofonte, se solo lo si lasciasse parlare come sa e può.

Quanto a lasciarlo lavorare, a Palazzo Santa Lucia, non è ancora detto, benché a sollevare dubbi sul nodo della legge Severino e sulla sua applicazione si finisce diritti al «circo equestre»: così l’ex sindaco di Salerno qualifica i dibattiti inutili e le «palle» che fanno perder tempo. Quindi niente: non avendo particolari doti circensi, preferiamo aver fiducia che tutto si risolverà per il meglio e De Luca si insedierà regolarmente, in modo che la funzionalità dell’istituzione non verrà compromessa dalla successiva, eventuale sospensione. Ma il punto è se, per colpa di un’imitazione, per quanto riuscita, De Luca rinuncerà davvero a riconoscere la patente di «personaggetto» a chi se la merita: sarebbe come togliere la clava ad Ercole, o il poncho a Garibaldi.

E se non fosse per colpa di Crozza, ma per il nuovo stile istituzionale che De Luca vorrà magari imporsi, più consono al nuovo ruolo? Se istituzionale è sinonimo di formale, pacato, prudente, se soprattutto equivale a bolli e controbolli, firme e controfirme, pareri e contropareri, beh: si può andar certi che non succederà. A condizione, va da sé, che De Luca rimanga quello che in campagna elettorale ha promosso la più radicale sburocratizzazione che l’Occidente ricordi dai tempi dell’Impero romano d’Oriente.

Del resto, con gli avversari politici De Luca continua a dare il meglio di sé: ai Cinquestelle che annunciano ostinati battaglie a colpi di carte bollate, ieri ha replicato così (e bisogna ammettere che una battuta simile nemmeno il miglior Crozza):  «Ci sono i grillini, specializzati nel presentare ricorsi. Metteremo sulla loro lapide: ‘Presentarono mille ricorsi’, è l’unica attività politica che fanno».

Ironia o piuttosto arroganza? A volte prevale l’una, a volte prevale l’altra. A volte l’ironia permette di scusare l’arroganza, altre volte il tratto ironico è il pretesto per far sentire la mano pesante al malcapitato di turno. O alla malcapitata: come è accaduto nel confronto televisivo fra i candidati, prima del voto, quando De Luca a domanda ha replicato: «La gentile signorina non ha bisogno di una risposta politica e programmatica ma ha bisogno di affetto». Poi ha mostrato la mano ingessata e aggiunto: «Sinceramente per come sto combinato non credo di poterle dare assistenza». E meno male, si dovrebbe dire.

Il fatto è che non è sempre facile trovare la misura. Crozza può esagerare, perché la sua è una caricatura. De Luca deve evitare di diventare la caricatura di se stesso: un compagno di merende di Razzi, o di Flavio Briatore, per rimanere nella variopinta fauna dei personaggi imitati da Crozza.

Ma a muovere una simile obiezione si fa la figura degli schizzinosi. E non è proprio il caso. D’altronde, De Luca non è certo stato eletto nonostante le sue uscite sui frullini amorosi e gli imbrattatori di muri, ma anzi proprio grazie a quelle trovate (e però, si spera, non solo a quelle). Quindi non vi rinuncerà, Crozza o non Crozza.

Che poi, a pensarci, certe risposte hanno almeno un pregio: costringono a formulare domande migliori. Al giornalista che chiede se la giunta sarà formata per metà da uomini e per metà da donne, ieri De Luca ha risposto: «C’era il centauro, metà cavallo e metà uomo. Diciamo che faremo uno sforzo per una bella rappresentanza femminile». È un po’ come con gli allenatori sentiti a fine partita, di fronte al rischio di cadere nella fiera delle banalità. De Luca, quando può, si sottrae, ci mette una nota di colore, un tratto del carattere, una smorfia del viso, e dice qualcosa che almeno rimane impressa.

E il punto è proprio qui: per divertire, diverte. Per funzionare, funziona. Ma funziona per far cosa? Sta al neoeletto presidente della regione Campania dimostrare d’ora innanzi che questo stile serve anche a fare le cose, in regione: togliere le ecoballe, bonificare la terra dei fuochi, sistemare i trasporti, spendere di più e meglio i fondi europei. Perché queste non sono «palle». Non sono nemmeno «ricorsi», d’accordo: ma quel che è certo è che non se ne vanno con una battuta di spirito.

(Il Mattino – ed. Napoli, 6 giugno 2015)

Il coraggio di rifare un Partito

ImmagineQualcosa, nel Pd, si sta muovendo. Alcuni movimenti sono forse scomposti, altri più prudenti e accorti, ma qualcosa si muove. E, forse, nella direzione di lunedì prossimo si comincerà a capire anche verso dove.

Sotto il titolo di movimenti prudenti, misurati nei toni e nelle parole, possono essere incluse le dichiarazioni del ministro Orlando, o l’intervista resa a questo giornale dal Presidente del Pd Orfini: per entrambi, c’è da mettere mano, cioè da rimettere in sesto, il partito, e l’unica obiezione che gli si può muovere è che forse è più facile dirlo che farlo.

Ma che lo si debba fare, nessuno, nemmeno Renzi ne dubita. E se anche qualche dubbio vi fosse, i movimenti scomposti contribuiscono senz’altro a toglierli. Tra questi ultimi stanno sicuramente gli scambi di cortesia fra il Presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, e il neoeletto presidente della Campania, Vincenzo De Luca: date pure i torti o le ragioni all’una oppure all’altro, ma difficilmente in uno stesso partito politico si può trovare che tra i suoi massimi dirigenti corrano le querele.

Dunque il partito va ripensato. Per la minoranza interna, farlo significa fermarsi. All’orizzonte c’è la riforma della scuola, più in là ci sarà la riforma costituzionale del Senato, e la sinistra del Pd si prepara a far pesare la propria consistenza parlamentare, a Palazzo Madama, per indurre il premier a più miti consigli, sull’una e sull’altra legge.

Ma una simile scelta avrebbe il significato di un brusco cambio di linea politica, che Renzi non è affatto intenzionato a concedere. Non è affatto disponibile, in particolare, a interpretare il voto di domenica come una bocciatura. Un conto poi è accantonare il partito della nazione, un altro è mettersi a cercare, in un rinnovato moto di purezza ideologica, solo i voti della sinistra a denominazione d’origine controllata (e controllata, s’intende dalla vecchia ditta). La prima cosa Renzi può farla: la seconda di sicuro non gli appartiene. Le analisi del voto, tuttavia, si protrarranno ancora per giorni: in fondo, si tratta del pezzo più antico e pregiato della tradizione post-elettorale dei partiti italiani. Ma, al dunque, quando la nube di parole si sarà dissolta, si tratterà di dare risposte di governo, sia a livello nazionale che a livello locale. E su quello Renzi verrà misurato, a Roma così come nel Mezzogiorno.

Il partito, però, resta il tema. Anzitutto perché la minoranza ha, al momento, numeri per mettere in difficoltà il governo, almeno al Senato. E poi perché un partito serve: per motivare, per mobilitare, per formare, per selezionare, per raccogliere idee e uomini, proposte e iniziative.

Sul primo punto, cioè sull’interdizione che la sinistra del Pd conduce instancabilmente, c’è poco da dire, se non individuare le colonne d’Ercole oltre le quali spingersi vuol dire navigare per altri mari. Mollare gli ormeggi lo ha fatto Pippo Civati e, finora, nessun altro. Ma se il partito democratico rinuncia a indicare dove finisce il mare interno, e dove comincia invece l’oceano esterno, le acque si mischiano, non si capisce più chi – e soprattutto in nome di chi o di che cosa – prende la parola, e come dunque si possa proseguire la navigazione. Forse non ce lo si può più permettere. O forse Renzi non se lo può permettere, e deve provare a mettere alle strette quella parte della minoranza che non vuole tirare la corda fino al punto di rottura, che non vuole far cadere il governo e interrompere la legislatura, che può dissentire ma non intende boicottare. Quella parte c’è, magari lunedì sera, in direzione, verrà allo scoperto ed è verso di essa che sono stati compiuti i primi, accorti passi.

Sul secondo punto, le cose sono invece più lontane da una necessaria chiarezza di intenti. Se un partito fa la riforma della scuola, e non fa una sola iniziativa per spiegarla, per sostenerla, per promuoverla, vuole dire o che non crede a quella riforma, o che non è più un partito. Ancora: se un partito sceglie i suoi candidati alle primarie, ma un minuto dopo la scelta prende a dubitare del candidato, oppure delle primarie, o delle due cose insieme, di nuovo: o non si riconosce in quel candidato, o non è più riconoscibile come partito.

Sono accadute, per limitarci a quest’ultimo mese di campagna elettorale, entrambe le cose. E questo prescinde dal merito delle scelte: riguarda invece il nesso fra le scelte e il partito, cioè gli uomini, le strutture, i programmi che debbono sostenerle. Se quel nesso salta, del partito non resta che il marchio, il nome, casomai il volto che riesce, per la sua forza personale a realizzare la sintesi, ma su ogni altro piano la vede inevitabilmente smembrarsi fra notabilati locali, faide piccole e grandi, iniziative estemporanee, candidature improvvide.

Un partito della nazione non può essere questo. Ma, a parlar chiaro, non può esserlo un partito quale che sia, non importa se della nazione o meno.

(Il Mattino, 4 giugno 2015)

Napoli-Bari, un’asse per il Sud

immagine 2 giugno.1Come la lupa che sbarra la strada al fiorentino Dante, nel primo canto dell’Inferno, così Vincenzo De Luca e Michele Emiliano si sono messi di traverso, e dopo il pasto di domenica sembrano avere più fame di prima. Difficile cioè che si sentano sazi per il successo elettorale e che al fiorentino Renzi non chiedano nulla. Nei primo commenti dopo il voto, De Luca ha avuto parole di ringraziamento per il segretario del suo partito, ed Emiliano ha generosamente ascritto al Pd anche il successo delle liste collegate, escludendo di avere altro in mente al di fuori della sua Puglia. Entrambi, però, non hanno esitato a toccare subito il punto dolente, che riguarda il rapporto del Mezzogiorno con il governo nazionale, e la necessità di un «ragionamento molto fermo» – così lo ha chiamato De Luca – per contrastare la desertificazione industriale, chiedere nuovi investimenti, politiche mirate. Fin qui, sembrano sottintendere i due, Renzi per il Mezzogiorno è valso quanto Monti, o Letta. Ora entrambi chiedono un cambio di passo.

I due ex-sindaci hanno anche mostrato un’attenzione complessiva per il quadro politico uscito dalle urne, che è probabilmente indice di una preoccupazione non legata soltanto alla nuova prova amministrativa che entrambi devono affrontare. Significativo è, in particolare, il cenno rivolto al Movimento Cinque Stelle, che entra per la prima volta in regione. Ebbene, se i Cinque Stelle raccolgono consensi e ricevono fiducia in virtù di un rapporto diretto con i cittadini, contro i privilegi del ceto politico, Emiliano ha deciso di fare di più: ha dato in conferenza stampa direttamente il suo numero di telefono personale. Chiunque può comporlo e parlare al nuovo governatore. Quanto a De Luca, il nodo della legge Severino non favorisce certo il dialogo con i grillini, che anzi hanno già fatto partire il primo esposto contro il suo insediamento. Però De Luca è l’unico, in Campania, in grado di contendere ai Cinquestelle l’elettorato che rifiuta e respinge la «politica politicante»: lui, infatti, pretende di fare lo stesso, ed è proprio su questo terreno che proverà a sfidare l’opposizione.

L’uno e l’altro, insomma, forti anche della popolarità già raggiunta come sindaci delle loro città, promettono ora di giocare a tutto campo. Di dedicarsi anima e corpo all’istituzione regionale, ma insieme anche di rilanciare la questione meridionale sul piano nazionale. Hanno i numeri per farlo, perché il successo è più loro che di Renzi o del Pd, e hanno pure quel tratto contundente che forse, dopo vent’anni di trazione nordista della seconda Repubblica, è necessario per scrollarsi di dosso un bel po’ di pregiudizi e farsi ascoltare nei palazzi romani.

C’è poi un non piccolo riflesso di questa nuova geografia politica tutto interno al partito democratico. Si possono mettere in fila, uno dopo l’altro, i fattori che verranno a sommarsi nelle prossime settimane, costringendo Renzi a qualche riflessione in più. Non si tratta, per il premier, di una sconfitta: è vero che se si guarda al numero dei votanti il Pd è andato dietro non solo le europee, ma anche dietro le regionali del 2010, ma è una comparazione che non tiene conto del dato dell’affluenza. I voti sono cioè calati per tutti, in termini assoluti: perfino per i grillini, se raffrontati al dato delle politiche. Per giunta, alle europee Renzi era in piena luna di miele, mentre ormai governa da un anno, ed è noto che le elezioni cosiddette di mid-term sono sempre una prova difficile per il governo in carica (vedasi Hollande in Francia o Rajoy in Spagna). Altro è il dato con cui Renzi deve misurarsi: è, anzitutto, il forte carisma personale di cui godono sia De Luca che Emiliano; è il loro radicamento territoriale altrettanto forte; è insomma, la possibilità di far pesare un successo elettorale conseguito con le sole proprie forze, e non al traino del governo centrale. L’uno e l’altro, per di più, non provengono dalle fila del renzismo, non sono dentro alcun cerchio magico, e sono stati candidati fra mugugni e perplessità, per non dire di esplicite resistenze. In campagna elettorale, Renzi ha addirittura evitato di incontrare Emiliano, mentre con De Luca ha trascorso mezza giornata, poco meno, senza fare campagna elettorale ma concedendo qualche foto-opportunity: non molto di più. Infine, è vero che il Pd governa ormai quasi tutte le regioni italiane e l’intero Mezzogiorno, ma al Sud è difficile chiamarlo il partito di Renzi. Si tratta piuttosto della somma di molti potentati locali. Ora che però sono  giunti alla guida delle rispettive regioni, De Luca ed Emiliano hanno la possibilità di costruire qualcosa di più di un tessuto di rivendicazioni localistiche: una proposta politica, un progetto complessivo di sviluppo, forse persino una nuova classe dirigente. Se è così, per venirne a capo anche a Renzi, non solo a Dante nell’Inferno, converrà di qui innanzi tenere altro viaggio.

(Il Mattino, 2 giugno 2015)