Gli imbecilli di Eco e il diritto alla parola

faber7-01-03Ma cosa si deve dare a un imbecille? Voglio dire: secondo Umberto Eco,  internet, i social network, hanno finito col dare a legioni di imbecilli il diritto alla parola, con le conseguenze che sappiamo (cioè precisamente quali? Non è chiaro, ci torno sopra dopo). Ora, però, a un imbecille non è il caso di dare la parola, è chiaro, ma nemmeno le chiavi dell’auto, o il posto a tavola. Da questo punto di vista, come dar torto a Eco? Il professore, ieri parlava a braccio, a margine della cerimonia in cui riceveva l’ennesima laurea honoris causa, ed è quindi probabile, se non certo, che, lamentandosi del diritto alla parola dato agli imbecilli e alle loro vaste legioni non intendesse affatto togliere loro un diritto costituzionalmente garantito. La nostra Carta non distingue infatti fra il diritto di parola agli intelligenti, agli stolti, e ai completamente imbecilli. Anche il diritto di voto, peraltro, non tiene conto della distinzione – è la democrazia, bellezza! – e consente agli imbecilli di cui sopra di esprimersi liberamente. Se è vero, come Eco ha detto, che gli imbecilli parlando fanno molti guai, figuriamoci votando!

Ma è chiaro che in questione non è tanto il diritto, quanto il fatto, o forse meglio lo strumento con il quale gli imbecilli esercitano il loro diritto: la rete. Eco ha infatti sostenuto che grazie alla rete lo scemo del villaggio è diventato «portatore di verità». Che grosso modo vuol dire: è lui che, oggi, fa opinione in rete. Lui che si inventa le cose più assurde; lui, il troll che infesta i commenti o crede alle storie più improbabili. Altro che avere un mondo nel cuore e non riuscire a esprimerlo con le parole, come cantava De André! Lo scemo adesso si esprime e come! Anzi: monopolizza la scena. E soprattutto non capisce, cioè non discrimina, prende per oro colato qualunque notizia circoli in rete, e ignora la differenza fra essere informati ed essere colti, sapere quello che si dice e sapere perché lo si dice. A decidere se un sito sia autorevole, affidabile, competente è il numero di accessi e condivisioni: la popolarità, insomma, che è un indice in cui gli imbecilli impongono la dura legge del numero.

A queste ragioni e preoccupazioni si possono però opporre almeno un paio di cose. La prima: non è vero che la quantità rovini necessariamente la qualità. Anzi Donald Sassoon ci ha scritto su un librone grosso così (chi mai lo leggerà? Non lo so, ma se siete bravi – ehm – potete riuscire a scaricarlo dalla rete). Tesi: già altre volte si sono rotte le cateratte dell’accesso, e i barbari sono entrati nel tempio della cultura. Con la stampa, ad esempio, con il disco, con la televisione. Non sono per questo finite né la letteratura, né la musica, né le arti visive. Piuttosto: sono cambiate. Oggi in metropolitana tutti ascoltano grazie a internet musichette orrende? Beh, prima non ascoltavano affatto.

Seconda obiezione: ma chi l’ha detto che i siti sono tutti uguali? Il fatto che notizie e conoscenze circolino per mille rivoli, ufficiali e non, mediate o disintermediate, non toglie che pure la rete, come i materassi di una volta, ha i suoi «punti di capitone», cioè luoghi in cui le cose si intrecciano, per i quali più o meno tutti passano, e che quindi finiscono con l’assumere una funzione quasi-istituzionale, di filtro o di raccordo. Persino la pagina di ricerca di Google, apparentemente bianca e vuota, la esercita e sarebbe più utile capire in che modo, piuttosto che rimanerne ignari. Se dunque Eco, smettendo i panni apocalittici e integrandosi un po’ di più, esercitasse il suo spirito critico non in termini generici e approssimativi, ma guardando un po’ più da vicino le cose, e come davvero funzionano, l’imbecillità della rete non scomparirebbe, ma forse non gli risulterebbe più così insuperabile.

(Il Mattino, 12 giugno 2015)

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