I due forni del partito democratico

mano tatticaLa notizia è: il partito democratico non è imbattibile. Anche i comuni siciliani andati al voto suonano un campanello d’allarme. Se poi passano al centrodestra città come Venezia o Arezzo, da lunga pezza governate dal Pd, vuol proprio dire che l’esito elettorale delle prossime elezioni politiche, vicine o lontane che siano, non è affatto scontato. Dopo il quaranta e passa per cento ottenuto da Renzi alle europee, e le evidenti difficoltà di un centrodestra frammentato e diviso, in crisi di leadership e di identità, sembrava che la navigazione di Renzi sarebbe stata tranquilla per un bel pezzo. E invece non è così. Il centrodestra si riorganizza, la Lega si lascia spingere dal vento populista e i grillini portare, al solito, dall’onda dell’indignazione morale, mentre il Pd paga in termini di consenso le divisioni interne, e la bonaccia che segue sempre quando cala, inevitabilmente, il soffio della novità. Contano, ovviamente, le logiche che si disegnano sul piano locale, ma la sociologia elettorale insegna che i trend nazionali influenzano anche il voto municipale, o regionale. Se così non fosse, non avrebbe senso guardare alle elezioni amministrative come ad una sorta di elezioni di medio termine, indicative dello stato di salute di un governo, o di una maggioranza, o di un partito che governa a livello nazionale e al quale l’elettorato manda, anche con il voto a livello locale, un segnale.

Ma quale sia il segnale consegnato alle urne dipende molto dal significato che si attribuisce all’exploit delle europee del 2014. Quel voto rappresentava sicuramente un grande investimento di fiducia nel nuovo corso impresso da Renzi al governo e al Pd, ma non cancellava d’un sol colpo tutte le difficoltà in cui si dibatteva non solo il partito democratico, ma il sistema politico italiano nel suo complesso. Il dato dell’affluenza, mai così bassa, dimostra che c’è sicuramente un calo drammatico di fiducia e di credibilità dei partiti. Le ragioni della partecipazione cambiano, e sicuramente si affievoliscono quanto più si indebolisce il significato di appartenenza che l’elettore affida al voto, ma la sequenza di scandali che punteggia le cronache politiche da settimane, con il bubbone romano in primo piano, di certo non contribuisce al recupero di credibilità e di fiducia del sistema dei partiti. A ciò si aggiunga che il tasso di rinnovamento a livello locale è sicuramente inferiore a quello visibile a livello nazionale, e il conto è presto fatto. Dove perde, il Pd perde anzitutto perché viene identificato con la continuità di un sistema di potere e di governo che i cittadini chiedono di cambiare. Questo vale anche a Venezia, dove forse la sconfitta fa più male: lì la candidatura di Felice Casson, magistrato dalla indiscussa reputazione, doveva significare una discontinuità che, invece, è stata meglio rappresentata dalle liste che hanno sostenuto il candidato di centrodestra, Brugnaro. In quel voto, peraltro, si vede bene il peso di certe dinamiche più generali: per vincere, Casson doveva portare dalla sua parte un pezzo dell’elettorato che al primo turno ha votato i Cinquestelle. E invece quell’elettorato ha preferito starsene a casa, nonostante Casson fosse quanto di più vicino a una certa sensibilità grillina il centrosinistra fosse in grado di esprimere: è il segno che il solco che separa il Pd dai Cinquestelle va approfondendosi.

Poi ci sono realtà come quella di Giugliano, dove il Pd paga il prezzo di lacerazioni profonde. Una logica elementare, ma sempre valida, si impone anche in questo caso: la compattezza e l’unità di uno schieramento fanno la differenza. Il che costringe il partito democratico ad una riflessione sul suo «mito fondativo», quelle primarie che non vengono vissute come uno strumento per allargare la partecipazione, ma come una sorta di regolamento di conti all’interno di un partito che spesso, nelle singole realtà, non ha vere ragioni di coesione.

Una frattura, in realtà, sembra correre anche fra la dirigenza nazionale del Pd e i gruppi dirigenti locali. Non sempre si ha l’impressione che costituiscano la stessa comunità di destino, come si diceva una volta enfaticamente: molto più spesso, pare proprio che il Pd risulti a livello locale da una sommatoria di certi suoi pezzi, e che anche a Renzi l’amalgama non sia veramente riuscito. Che Renzi vada da una parte, insomma, mentre tutto il resto del Pd se ne va per conto proprio. Sarà un’impressione sbagliata, ma tutte queste iniziative a sostegno delle riforme, in giro, sul territorio, non è che si siano viste. E se un partito non prova a rivendicare i risultati che ottiene nell’azione di governo, è difficile che riesca a tenere bene il campo. Squadra troppo lunga e sfilacciata, quella del Pd: forse un cambio di modulo è necessario, e qualche panchina qua e là finirà col saltare.

(Il Mattino, 16 giugno 2015)

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