Con la fiducia al Senato, la riforma della scuola del governo Renzi si avvia a diventare legge dello Stato. Alla Camera, infatti, i numeri non sono ballerini e sorprese non ce ne saranno. Chi ieri se le aspettava, o anche solo ci sperava, è rimasto deluso da un voto netto, in cui il Pd si è mostrato persino più compatto del previsto. Eccezion fatta per due o tre senatori che non hanno partecipato al voto, e che paiono decisamente propensi ad unirsi a Pippo Civati, già uscito dal Pd, i democratici hanno dimostrato che la tenuta della maggioranza è assicurata anche su materie dove molto forte è la frizione interna, e sulle quali probabilmente hanno perso non pochi consensi, alle scorse elezioni regionali. Un segno di salute del governo, qualunque cosa si pensi della legge.
Non è stato, in verità, un passaggio semplice. Basta leggere l’intervento del senatore Miguel Gotor, tra i più vicini alla Ditta che fu di Bersani. Gotor, come molti altri della minoranza interna, ha voto sì alla fiducia per evitare, sono state le sue parole, che si aprisse una «crisi politica e istituzionale senza precedenti» (cioè che si andasse al voto), ma giudica questa «la peggior fiducia possibile» alla quale si è risolto «con un crescente disagio, misto a delusione e persino rabbia». Più duro di così c’è solo il voto contrario, ma il voto contrario non c’è stato.
Nel merito, Gotor può lamentare che la legge non fa nulla sulla dispersione scolastica, o che non si è messa mano ai cicli scolastici, ma ha purtuttavia dovuto riconoscere che nel lavoro parlamentare diversi aspetti controversi del testo sono stati modificati, o almeno smussati, e anche se lo considera un «mediocre intervento legislativo», invece di una vera riforma, ha dovuto prendere atto che siamo dinanzi ad un cambiamento deciso dell’organizzazione del sistema dell’istruzione, quasi brusco.
Questa presa d’atto è forse il più chiaro significato politico del voto di ieri. Renzi governa, e non ha nessuna intenzione di mollare la presa, o di rallentare il passo. I conti si faranno alla fine, ma dinanzi agli elettori Renzi vuole presentarsi con un carniere di riforme pieno. Agli avversari interni non resta, appunto, che prenderne atto. Il governo non cade per un incidente parlamentare, o per la defezione di un pezzo del Pd: chi ci contava ha in realtà già lasciato o sta per lasciare il Pd, ma i numeri sono comunque dalla parte del governo. A quest’ultimo appuntamento Renzi non si presentava certo nel momento di massima forza: il mondo della scuola gli si è fatto avverso, i sindacati gli hanno proclamato contro uno sciopero generale e ancora ieri gli insegnanti erano in piazza. Le opposizioni scalpitavano e i grillini non hanno certo perso tempo nel tentativo di ergersi a rappresentanti degli insegnanti e degli studenti delusi dalla sinistra. Per di più, nel voto regionale non sono state tutte rose e fiori, per il Pd. Però le cose sono andate come sono andate: Renzi ha tirato dritto e la maggioranza lo ha seguito. In effetti, il Nuovo Centrodestra ha non poche gatte da pelare (vedi il caso Castiglione) e soprattutto pare tenuto insieme quasi solo dalla presenza nelle istituzioni: difficile dunque che provi a sfilarsi. Non lo farà ora e non lo farà nei prossimi mesi. Quanto al Pd, il vero smottamento si è prodotto in realtà nelle file della sinistra interna, perché all’intransigenza un po’ rancorosa della vecchia guardia di D’Alema e Bersani, sempre più inascoltata, si è sostituita la formazione dialogante dell’area guidata dal ministro Martina e da Cesare Damiano, che pur con tutti i distinguo non intendono affatto essere d’intralcio al governo. Sono gli ultimi arrivati al fatidico momento della presa d’atto: Renzi non è un energumeno estraneo al Pd, lo scassinatore irriguardoso della tradizione della sinistra; è invece colui che ne interpreta la proposta di cambiamento. Respingerla in toto, come ha fatto due giorni fa Fassina, significa uscire dal Pd.
Dunque la nave va, e il suo timoniere può giocarsi una nuova partita, quella delle riforme istituzionali che in corso d’anno, con la legge sul nuovo Senato, proverà a chiudere. Poi, forte del bottino di credibilità conquistato sin lì, proverà a dare una sterzata anche sul quadrante europeo, dove si gioca la vera partita dei conti pubblici italiani. Solo dopo comincerà a pensare al voto, magari aiutato dai primi, timidi segnali di ripresa.
Dall’altra parte del campo di gioco, è ancora presto per dire se davvero Matteo Salvini riuscirà a prendere la guida del centrodestra. Ma intanto è lui che sembra disegnare i crinali lungo i quali si divide oggi l’opinione pubblica, cioè in tema di sicurezza e di immigrazione. L’altro discrimine, quello contro la casta e contro la corruzione, è presidiato con i toni giustizialisti che le sono propri, dall’altra opposizione, quella a cinque stelle. Al Pd, tocca il compito di tracciare la sua linea di demarcazione, e provare ad imporla presso l’opinione pubblica. Nelle settimane scorse, tra «mafia capitale» e liste di impresentabili, sbarchi di profughi e paure di uscita dall’Euro della Grecia, se ne era perso il segno. Ieri Renzi ha ripreso in mano il gessetto ed è tornato con decisione alla lavagna. E la maggioranza ha appreso la lezione.
(Il Mattino, 26 giugno 2015)