Archivi del giorno: giugno 30, 2015

Ma i diritti sono più forti dei sondaggi

Acquisizione a schermo intero 30062015 152502.bmpRichard Posner, chi era costui? Era, anzi è, oltre che un filosofo del diritto, un giudice americano. Che il 4 settembre 2014, insieme a due suoi colleghi, ha dichiarato incostituzionali le leggi degli Stati dell’Indiana e del Wisconsin, che vietavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza superata dal pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che la settimana scorsa ha reso legale il matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti d’America. Sentenza storica. Obama ha salutato il verdetto dichiarando: «quando tutti gli americani sono trattati in maniera uguale, siamo tutti più liberi». Sono parole che non solo i gay, ma chiunque si consideri progressista sente di dover far proprie. Un sondaggio Gallup conforta peraltro la decisione presa dalla Corte: dal 1996 – anno dell’ultima «legge in difesa del matrimonio» – al 2014, quindi in soli dodici anni, gli americani favorevoli al matrimonio omosessuale sono passati dal 26% al 55%.

Da noi? Da noi, il sondaggio pubblicato ieri dal Mattino ci dice che le cose non stanno proprio così. Stanno anzi all’opposto: abbiamo anche noi il nostro 55%, ma di contrari al matrimonio gay (percentuale che sale al 67% tra i cattolici praticanti, mentre scende al 42% tra i laici). Proprio perciò non è inutile andarsi a leggere la sentenza del giudice Posner: non perché lui ci è arrivato prima, ma perché offre qualche considerazione in materia che merita di essere ripresa, per capire che paese siamo.

Dunque: cosa diceva il Wisconsin? Per prima cosa, che limitare il matrimonio agli eterosessuali fa parte della tradizione, e la tradizione «costituisce una valida base per limitare i diritti civili». Secondo, che va’ a sapere quali conseguenze potrebbero discendere dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del matrimonio gay. Meglio, dunque, esser prudenti, e non far nulla. Terzo, che una simile decisione va presa democraticamente, a maggioranza. Quarto, e ultimo, che il matrimonio gay discende da quella stessa concezione dalla quale discende pure il divorzio senza colpa (perché semplicemente ci si è stancati di stare insieme), e produce dunque gli stessi effetti di indebolimento sul matrimonio tradizionale.

Non sono sicuro, ma guardando l’insieme delle risposte date dal campione esaminato da Ipr Marketing nel sondaggio commissionato dal Mattino, mi vien fatto di pensare che gli italiani sono contrari prevalentemente per il primo motivo e, in subordine, per l’ultimo. Non si tratta cioè tanto della volontà di negare diritti agli omosessuali, su questo c’è anzi una relativa apertura (non però sull’adozione gay, su cui le resistenze sono decisamente più forti); si tratta però di difendere l’istituto familiare: peccato che da questa difesa viene come conseguenza niente affatto secondaria che quei diritti risultino conculcati.

Il giudice Posner, comunque, quei motivi li respinge tutti e quattro. Con buone ragioni, che parafraso liberamente, e che credo siano utili anche al nostro Paese. Per cominciare, la tradizione non è per niente, in quanto tale, un buon motivo per limitare alcunché. Vi sono infatti anche tradizioni cattive, o insulse: se a tradizione non vi è modo di aggiungere «razionale» o almeno «ragionevole», non è il caso di dare ad essa alcuna, speciale autorità. In secondo luogo, non vi sono evidenze empiriche a sostegno della tesi che il matrimonio gay è pericoloso per le basi della società. In terzo luogo, democrazia non vuol dire rimettere tutto al giudizio della maggioranza. Le nostre sono democrazie liberali, che proteggono o dovrebbero proteggere un certo numero di diritti fondamentali anche dalle decisioni della maggioranza. Anzi: dovrebbero in materia di diritti fondamentali difendere anzitutto le minoranze, perché le maggioranze si difendono abbastanza bene da sole. In quarto e ultimo luogo, gli effetti sul matrimonio tradizionale vi saranno pure (vedi alla voce: secolarizzazione), ma siamo daccapo al punto primo: perché sarebbe preferibile una società fondata sul matrimonio tradizionale?

Fin qui, più o meno, Richard Posner. Altro si potrebbe aggiungere, sui timori di chi crede che si darebbe la stura a tutto (perché non la poligamia?), o che si snaturerebbe e infiacchirebbe l’identità di un popolo. Forse, tra gli italiani, circolano anche questi ancor meno razionali timori. Più probabilmente, è solo l’idea che una qualche naturalità dei rapporti morali (quindi anche matrimoniali) vada comunque difesa. Metto insieme tutte queste cose (che identiche però non sono), solo per dire ciò che in esse manca. Manca, in un Paese a sfondo tradizionalista e anagraficamente invecchiato, la fiducia che la storia sia non il luogo di una irreparabile perdita di sostanza, ma quello in cui invece si acquista qualche spazio di libertà in più per l’agire umano. La fiducia nel progresso, si sarebbe detto una volta, definito dal sempre maggior grado di eguaglianza e di libertà fra gli uomini.

La maggioranza degli italiani è contro il matrimonio gay? È una sensibilità di cui il legislatore deve tener realisticamente conto. Ma una sensibilità non è uguale a una ragione, né può essere più forte di un diritto.

(Il Mattino, 30 giugno 2015)

La strategia dell’incertezza

Acquisizione a schermo intero 30062015 153825.bmpLe elezioni regionali campane si sono tenute domenica 31 maggio. Ad oggi, a quasi un mese di distanza dal voto, non è chiaro quando la Campania avrà la sua nuova giunta regionale, e presieduta da chi. Dopo la sconvocazione della prima seduta del consiglio, prevista inizialmente per oggi, tutto rimane appeso alle decisioni di un giudice ordinario, innanzi al quale Vincenzo De Luca presenterà stamane ricorso perché la sospensione inflittagli a norma della legge Severino venga essa stessa sospesa nei suoi effetti, in attesa del pronunciamento della Corte costituzionale (che dovrebbe – il condizionale, in questa vicenda, è d’obbligo – arrivare in autunno). Dunque: non c’è ancora un Presidente insediato e nel pieno dei suoi poteri, non c’è ancora la giunta, di nomina del Presidente, e non c’è neppure un vice Presidente; non sono state esposte le linee programmatiche del nuovo governo e il primo consiglio regionale è rinviato a data da destinarsi: c’è solo un giudice e un ricorso. Le istituzioni rallentano fino quasi a fermarsi, e tutti si rimane in attesa del pronunciamento del giudice. Qualcuno studia i precedenti, qualcun altro annuncia nuovi ricorsi e carte bollate, altri dichiarano e altri ancora tacciono. Ma siamo là: siamo a un giudice e ad un ricorso. Giudice ordinario, in una situazione invero straordinaria.

Che richiede forse qualche parola in più, da parte dei suoi protagonisti. Perché il mese precedente il voto, e il mese seguente, sono trascorsi all’insegna del «chi vince governa», detto da Renzi e rilanciato dal vincitore, cioè da De Luca. «Chi vince governa» significava: non c’è Severino che tenga. Ovviamente non era così. Tra qualunque vittoria e qualunque atto di governo ci sono un bel po’ di formalità da osservare: quelle formalità collocano la  vittoria politica nel perimetro disegnato  dalle disposizioni di legge. La Severino complica il quadro, ma non altera certo il principio. Questo era ben chiaro sia a De Luca che a Renzi. Ed entrambi hanno altrettanto chiaro che in questi giorni non stanno salendo il Golgota dei cavilli giuridici, ma stanno semplicemente provando a rimanere dentro i limiti dello Stato di diritto.

Cosa dunque non era chiaro, o non è stato debitamente chiarito? Non che la candidatura di De Luca era contro la legge: anzi. De Luca era eleggibile ed è stato eletto. Ma c’è poco da fare: ad esser conseguenti, la volontà di eleggerlo doveva contenere anche la volontà di procedere al superamento della Severino. In realtà, l’ex sindaco di Salerno lo ha detto chiaro e tondo: il problema non sono io, ha ripetuto svariate volte, e non si tratta di fare un favore a me; il problema è la Severino e si tratta di fare un favore al Paese, cancellando una legge incostituzionale. Naturalmente, le dichiarazioni di incostituzionalità non spettano a De Luca, ma alla suprema Corte. Il punto è però politico: può un partito acconsentire a una candidatura, senza acconsentire al significato e alle conseguenze che discendono dalla presentazione di quella candidatura? No, se è un partito serio.

Questa domanda si ripropone anche oggi, e va rivolta anche a Renzi. A Renzi, cioè al Presidente del Consiglio che ha firmato la sospensione dopo avere chiesto e ottenuto il parere dell’Avvocatura dello Stato, che gli lasciava margini per un decreto che consentisse a De Luca di procedere alla nomina della giunta e del vice-Presidente, così da assicurare da subito la funzionalità dell’istituzione regionale. Come ieri, nella candidatura di un condannato in primo grado per abuso di ufficio, così oggi, in quei margini interpretativi lasciati aperti alla decisione di Renzi, stava un punto politico che il Premier non ha voluto o potuto affermare.  Di più: Renzi ha menato vanto di non averlo fatto. In realtà, ha così riconosciuto di essere sotto scacco, non so se dell’opinione pubblica o delle denunce e della raffica di ricorsi promessi da esponenti dell’opposizione. Nell’uno e nell’altro caso, ha rivelato questa volta di non avere la forza politica necessaria per dar seguito al parere che pure aveva richiesto. Questa forza era però necessaria, così come è stata necessaria a De Luca per candidarsi, per vincere le primarie del Pd, per vincere poi le elezioni. Nel percorso dell’ex sindaco di Salerno c’è una coerenza che non si ritrova invece nei tentennamenti del partito democratico, che sembra stare sempre un passo indietro la necessità del momento: voleva o non voleva De Luca governatore? Chi lo sa. Vuole o non vuole la Severino? Neppure questo è più chiaro. Vuole o non vuole che adesso De Luca governi? Mistero senza fine bello.

C’è però anche per De Luca qualche chiarimento da dare. Perché è ormai evidente che non erano tutte «palle» quelle di chi temeva l’empasse, come lui ha ripetutamente dichiarato. Nell’impasse ci siamo, e anche se forse ne usciremo a breve, non resta meno vero che a dire più di una panzana, su questa vicenda, è stato lui. La più grande è stata lasciare intendere che tutto sarebbe andato e andrà come previsto. Non era previsto un bel niente: la mancata presenza il giorno della proclamazione, la sospensione prima della seduta del consiglio, la convocazione e il mancato insediamento, l’assenza a un mese dal voto di un Presidente o di un vice Presidente in carica. E però, se c’è una cosa di cui c’è massimamente bisogno, specie in territori che con la legalità hanno qualche problema, è la prevedibilità del corso istituzionale. Al momento, il consigliere anziano Rosetta D’Amelio ha sconvocato il consiglio, sperando che il giudice ordinario faccia presto. Sperare si può, ma sperare significa, per definizione, lavorare in condizioni di incertezza: giusto il contrario di quel che ci vuole a un’istituzione per funzionare come si deve.

(Il Mattino, 29 giugno 2015)