Richard Posner, chi era costui? Era, anzi è, oltre che un filosofo del diritto, un giudice americano. Che il 4 settembre 2014, insieme a due suoi colleghi, ha dichiarato incostituzionali le leggi degli Stati dell’Indiana e del Wisconsin, che vietavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza superata dal pronunciamento della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che la settimana scorsa ha reso legale il matrimonio gay in tutti gli Stati Uniti d’America. Sentenza storica. Obama ha salutato il verdetto dichiarando: «quando tutti gli americani sono trattati in maniera uguale, siamo tutti più liberi». Sono parole che non solo i gay, ma chiunque si consideri progressista sente di dover far proprie. Un sondaggio Gallup conforta peraltro la decisione presa dalla Corte: dal 1996 – anno dell’ultima «legge in difesa del matrimonio» – al 2014, quindi in soli dodici anni, gli americani favorevoli al matrimonio omosessuale sono passati dal 26% al 55%.
Da noi? Da noi, il sondaggio pubblicato ieri dal Mattino ci dice che le cose non stanno proprio così. Stanno anzi all’opposto: abbiamo anche noi il nostro 55%, ma di contrari al matrimonio gay (percentuale che sale al 67% tra i cattolici praticanti, mentre scende al 42% tra i laici). Proprio perciò non è inutile andarsi a leggere la sentenza del giudice Posner: non perché lui ci è arrivato prima, ma perché offre qualche considerazione in materia che merita di essere ripresa, per capire che paese siamo.
Dunque: cosa diceva il Wisconsin? Per prima cosa, che limitare il matrimonio agli eterosessuali fa parte della tradizione, e la tradizione «costituisce una valida base per limitare i diritti civili». Secondo, che va’ a sapere quali conseguenze potrebbero discendere dall’introduzione nell’ordinamento giuridico del matrimonio gay. Meglio, dunque, esser prudenti, e non far nulla. Terzo, che una simile decisione va presa democraticamente, a maggioranza. Quarto, e ultimo, che il matrimonio gay discende da quella stessa concezione dalla quale discende pure il divorzio senza colpa (perché semplicemente ci si è stancati di stare insieme), e produce dunque gli stessi effetti di indebolimento sul matrimonio tradizionale.
Non sono sicuro, ma guardando l’insieme delle risposte date dal campione esaminato da Ipr Marketing nel sondaggio commissionato dal Mattino, mi vien fatto di pensare che gli italiani sono contrari prevalentemente per il primo motivo e, in subordine, per l’ultimo. Non si tratta cioè tanto della volontà di negare diritti agli omosessuali, su questo c’è anzi una relativa apertura (non però sull’adozione gay, su cui le resistenze sono decisamente più forti); si tratta però di difendere l’istituto familiare: peccato che da questa difesa viene come conseguenza niente affatto secondaria che quei diritti risultino conculcati.
Il giudice Posner, comunque, quei motivi li respinge tutti e quattro. Con buone ragioni, che parafraso liberamente, e che credo siano utili anche al nostro Paese. Per cominciare, la tradizione non è per niente, in quanto tale, un buon motivo per limitare alcunché. Vi sono infatti anche tradizioni cattive, o insulse: se a tradizione non vi è modo di aggiungere «razionale» o almeno «ragionevole», non è il caso di dare ad essa alcuna, speciale autorità. In secondo luogo, non vi sono evidenze empiriche a sostegno della tesi che il matrimonio gay è pericoloso per le basi della società. In terzo luogo, democrazia non vuol dire rimettere tutto al giudizio della maggioranza. Le nostre sono democrazie liberali, che proteggono o dovrebbero proteggere un certo numero di diritti fondamentali anche dalle decisioni della maggioranza. Anzi: dovrebbero in materia di diritti fondamentali difendere anzitutto le minoranze, perché le maggioranze si difendono abbastanza bene da sole. In quarto e ultimo luogo, gli effetti sul matrimonio tradizionale vi saranno pure (vedi alla voce: secolarizzazione), ma siamo daccapo al punto primo: perché sarebbe preferibile una società fondata sul matrimonio tradizionale?
Fin qui, più o meno, Richard Posner. Altro si potrebbe aggiungere, sui timori di chi crede che si darebbe la stura a tutto (perché non la poligamia?), o che si snaturerebbe e infiacchirebbe l’identità di un popolo. Forse, tra gli italiani, circolano anche questi ancor meno razionali timori. Più probabilmente, è solo l’idea che una qualche naturalità dei rapporti morali (quindi anche matrimoniali) vada comunque difesa. Metto insieme tutte queste cose (che identiche però non sono), solo per dire ciò che in esse manca. Manca, in un Paese a sfondo tradizionalista e anagraficamente invecchiato, la fiducia che la storia sia non il luogo di una irreparabile perdita di sostanza, ma quello in cui invece si acquista qualche spazio di libertà in più per l’agire umano. La fiducia nel progresso, si sarebbe detto una volta, definito dal sempre maggior grado di eguaglianza e di libertà fra gli uomini.
La maggioranza degli italiani è contro il matrimonio gay? È una sensibilità di cui il legislatore deve tener realisticamente conto. Ma una sensibilità non è uguale a una ragione, né può essere più forte di un diritto.
(Il Mattino, 30 giugno 2015)