Archivi del mese: luglio 2015

Quella sinistra che non cambia

Acquisizione a schermo intero 31072015 143211.bmpAnticipazioni del Rapporto Svimez 2015. Capitolo 3: «il Mezzogiorno alla deriva». Seguono, nei capitoli successivi, le parole: crollo, crisi, divario, caduta, allarme. Seguono, soprattutto, numeri catastrofici: settimo anno consecutivo di diminuzione del PIL, che nel Sud è il 53% di quello del Nord, diminuzione dei consumi del 13% in sei anni, nascite ai minimi storici, una persona su tre a rischio povertà, solo un giovane su quattro con un lavoro.

Ora, lasciamo perdere i dettagli: come si prende una fotografia del genere? Che tipo di discussione deve suscitare nel Paese? Che genere di risposta bisogna aspettarsi dalla politica? Riesce difficile, infatti, evitare formule che si ripetono sempre uguali, modalità che il discorso pubblico conosce e macina stancamente, anno dopo anno, rapporto dopo rapporto. Del resto, non aveva detto lo Svimez, lo scorso anno, che il Sud sta conoscendo un fenomeno di progressiva desertificazione umana e industriale? Lo aveva già detto, e non fa che ribadirlo: è il deserto che avanza.

Ma in mezzo a questo deserto non bisogna nascondersi quel che effettivamente è cambiato, cioè il quadro politico. Dopo le elezioni regionali, e per la prima volta, il partito democratico governa il Paese in lungo e in largo: a livello centrale e a livello periferico, al Nord e al Sud, nelle regione e nelle città. Difficile dunque che possa sottrarsi alle responsabilità che è chiamato ad assumersi. Difficile fare il gioco del cerino acceso da lasciare in mano a Roma oppure a Napoli, a seconda delle necessità. Nel rapporto Svimez si legge ad esempio (ma non è un esempio tra gli altri) che la spesa in conto capitale della pubblica amministrazione è calata negli ultimi anni in tutto il Paese, ma il calo è particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che è dunque maggiormente penalizzato dal rigore dei conti pubblici: «in termini assoluti, la diminuzione del livello della spesa nel Mezzogiorno è stata di 9,9 miliardi di euro (da 25,7 miliardi del 2001 a 15,8 miliardi)». Questo dato non può non essere ricondotto ad una scelta politica: è la scelta giusta? È questa la via attraverso la quale si ritiene che il Sud potrà ricostruire la sua economia? È la via che il governo intende percorrere anche nei prossimi anni? C’è nel Pd una voce meridionalista che sia in grado di porre, a partire da questi numeri  la questione delle politiche verso il Mezzogiorno? Se si amplia lo sguardo, si trova – è ancora il rapporto a confermarlo – che la crisi ha colpito più intensamente le zone deboli dell’area euro. Di nuovo: non per una triste fatalità naturale, ma per il tipo di governance economica che l’Unione europea ha imposto ai Paesi membri, e per le asimmetrie introdotte e accentuate dalla moneta unica e dall’allargamento a est: che si fa? Si prosegue lungo la stessa rotta? Si sposa la linea di Samuel Beckett: «ho sempre tentato, ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio»? Forse però, prima di farlo, varrebbe la pena di ricordare che Beckett era il campione dell’assurdo. Che va bene a teatro, un po’ meno in politica.

Ma a proposito di assurdo: non lo è abbastanza la guerra strisciante che la minoranza del Pd conduce per logorare Renzi, per condizionare il governo? Ieri la maggioranza è andata sotto sulla questione del canone, ed è sembrato proprio che più nessuna solidarietà di partito trattenesse un nutrito gruppo di senatori piddini, interessati a dimostrare che il Senato della Repubblica sono ancora le forche caudine per le quali deve passare il premier, qualunque sia il tipo di sostegno che il nuovo gruppo di Verdini darà alla maggioranza sulle riforme costituzionali.

Questo è il punto: un punto puramente tattico, di posizionamento, la resistenza sorda contro il pericolo di marginalità politica a cui la minoranza del Pd sarebbe costretta se le riforme di Renzi passassero.

Ma questo Pd impegnato in una guerriglia interna – a bassa intensità ma a forte potere di interdizione – può reggere una sfida che fa tremare le vene e i polsi, come quella che il rapporto Svimez consegna? Si può continuare con schermaglie sfibranti, mentre metà del paese precipita in uno scenario «greco»? E non corre la sinistra il rischio di replicare una storia che ha già conosciuto con Romano Prodi, quando pure governare si poteva solo in mezzo alle resistenze di chi, dall’interno stesso della maggioranza, remava contro? La sinistra corre questo rischio: ma Renzi intende davvero correrlo? Fino a quando potrà permetterselo?

(Il Mattino, 31 luglio 2015)

Perché le intercettazioni non fanno la civiltà

Acquisizione a schermo intero 26072015 120423.bmpIn principio era il Verbo, e siccome era in principio il Verbo non fu intercettato. Oppure lo fu?  Oppure lo Spirito è la terza persona che carpisce le comunicazioni fra il Padre e il Figlio?

Forse il prologo in cielo ci allontana di molto dai problemi che abbiamo in terra, ma la materia delle intercettazioni si sta ormai complicando proprio come, un tempo, avveniva nelle più sottili disquisizioni teologiche. E nel Parlamento italiano le «quaestiones disputate» aumentano. Perché non basta certo dire che l’uno è contrario alle intercettazioni, e l’altro favorevole, che quello vuole i giornalisti in carcere, e quell’altro vuole invece i politici alla gogna (mediatica). Come sempre quando la materia è complessa, non è facile tracciare con nettezza linee di demarcazione. Giusto un grillino può pensare che qualunque intervento normativo in materia è censura, inganno, frode e raggiro. Lo pensa, il grillino, non perché abbia la sapienza giuridica per apprezzare l’attuale normativa, ma perché vede come vanno le cose oggi e ci sguazza: sui giornali finisce infatti ogni frase, mezza frase o sputo di frase che sia stato intercettato,  indipendentemente da qualunque rilevanza, pertinenza o continenza.

Ma che sono poi queste parole: solo termini da Azzeccagarbugli? In verità dovrebbero essere qualcosa di più. Dovrebbe cioè fare qualche differenza se il contenuto dell’intercettazione abbia una qualche rilevanza penale oppure no; se, pur non avendo rilevanza penale, abbia almeno pertinenza con la materia oggetto di indagine; se infine, nel pubblicarla ci si è contenuti all’essenziale, o ci si è posti perlomeno un problema – come dire? – di stile. E invece, di fatto, tutte queste distinzioni saltano, e nell’oceano di parole in cui pesca la rete delle intercettazioni viene a galla di tutto, la notizia di reato e la pura maldicenza, fatti di interesse pubblico e circostanze strettamente private: il serio e il faceto, il nobile e l’ignobile, l’educato e lo sguaiato.

Ma il cittadino deve sapere. È così: dai tempi in cui fu inventata, or non è molto, l’opinione pubblica. Solo che ormai è implicita la clausola libera-tutti: sapere ad ogni costo. Con ogni mezzo. Con ogni possibile intercettazione. E in effetti: volete che, faccio per dire, il cittadino condomino A non godrebbe come una salamandra se potesse sapere tutto del cittadino condomino B? Ma è questo un buon motivo per autorizzare ogni genere di captazione di pensieri parole e opere di B (attraverso, che so, l’intercettazione di C), e magari farci su una bella assemblea condominiale, o almeno l’affissione di un avviso nell’androne?

Ma, si dice, c’è una bella differenza fra le vicende di un condominio e fatti e circostanze di interesse pubblico. E certo che la differenza c’è: il punto però è proprio questo, che nessuno sembra apprezzarle, e che tutto allo stesso titolo (cioè: a qualunque titolo) finisce sui giornali.

E come ci finisce? Così: il giudice delle indagini preliminari, il quale ha autorizzato l’attività di intercettazione, dovrebbe poi disporre lo stralcio di quelle irrilevanti. E invece non stralcia un bel nulla: non solo perché il gossip vuole la sua parte, ma perché il magistrato vuole un po’ di pubblicità, e così tutto il materiale raccolto – pescato, come si dice, a strascico – diviene ipso facto pubblico e pubblicabile. Si può chiedere poi al giornalista di fare penitenza e astenersi, se il giudice non si è astenuto? Ovviamente no, e dunque il processo è già bello che cominciato sui giornali, a volte addirittura concluso, ancor prima di cominciare in tribunale.

Noi sappiamo così cosa pensa ad esempio Matteo Renzi di Enrico Letta: che è un incapace. Non è un giudizio politico: è una confidenza più o meno riservata, scherzosa, sbrigativa o sbruffona – vallo a sapere: quando trascrivete, non riuscite mica a trascrivere il tono con cui la cosa viene detta – confidenza che il segretario del Pd fa al generale della guardia di finanza Adinolfi. Rilevanza, pertinenza, continenza? Zero. Però Renzi si trova intercettato perché Adinolfi è intercettato, e lo è in vicende che evidentemente non riguardano la formazione del governo, o i rapporti interni al Pd, o i quozienti intellettivi dei politici italiani. Ma è chiaro che se le intercettazioni devono servire a delineare la personalità dell’intercettato, se valgono cioè criteri tanto laschi, non c’è motivo di stralciare neanche le considerazioni sulla scelta di un gelato al pistacchio, figuriamoci una cattiveria di Renzi (per quanto privata, informale, amichevole) ai danni del suo predecessore.

In tutta questa storia c’entrano assai poco, naturalmente, le intercettazioni come strumento investigativo. C’entra invece la costruzione di una sfera pubblica retta da regole di civiltà giuridica, che tutelino i diritti fondamentali: alla riservatezza delle comunicazioni, al rispetto della vita privata e familiare, al rispetto del domicilio privato, al rispetto dei dati di carattere personale.

Questa tutela è messa a rischio anche da un altro genere di attività: la registrazione nascosta, audio o video, con la quale si carpiscono informazioni, o anche solo mere opinioni. C’è capitato, per esempio, Valerio Onida, giudice della Corte Costituzionale. Una finta Margherita Hack gli ha strappato al telefono giudizi sul lavoro dei saggi, nominati nel 2013 da Napolitano, che sono stati ovviamente subito diffusi (da Giuseppe Cruciani, nel programma «La zanzara»). Che genere di giornalismo è questo? Difficile stabilirlo: cosa pensasse Onida dei saggi era o no una notizia? Per molti basta questo, indipendentemente dal modo in cui sia stata ottenuta (o provocata). Sia chiaro: l’inside journalism – il reperimento di notizie condotto sotto mentite spoglie – appartiene alla migliore tradizione della professione. Però dovrebbe sempre valere la possibilità di indicare dei limiti, per quanto ampi siano: se punto una pistola alla tempia di Onida, magari mi dice pure dell’altro, o no? È evidente però che non si può fare. Domando allora: c’è un punto oltre il quale l’inganno diviene una violenza? Non ogni registrazione nascosta, d’altra parte, è uguale: un conto è registrare per sapere, un altro per difendersi, un altro ancora per denunciare, un ultimo caso è registrare per provocare: non per scoprire un reato, ma per indurlo a commetterlo (e poi incastrare il malcapitato). Possibile che stiano tutti sullo stesso piano?

La legge che è in discussione in Parlamento, e che è chiamata a disciplinare simili aspetti, ha sicuramente un difetto: è una legge. Deve cioè essere scritta in modo da graduare, proporzionare, bilanciare, e infine consentire o non consentire. Queste distinzioni, però, se siete del partito che «il cittadino deve sapere!» (a qualunque costo, con qualunque mezzo, con qualunque intercettazione), vi riusciranno incomprensibili o ipocrite: sottigliezze teologiche, buone per imbrogliare i gonzi. E così siamo daccapo. Ma perdonatemi: non ci vuole lo spirito santo per sapere che, se la pensate così, i gonzi, purtroppo, siete voi.

(Il Mattino, 26 luglio 2015)

Il salvagente dei naufraghi

Turner - Scene

E se il Pd candidasse Antonio Bassolino al Comune di Napoli? La damnatio memoriae alla quale è stato prematuramente condannato l’ultimo leader politico che ha avuto la sinistra in Campania e nel Mezzogiorno è ormai finita da tempo. Eppure sarebbe un non piccolo paradosso se, dopo aver portato De Luca alla regione, il Pd si affidasse davvero a Bassolino per Palazzo San Giacomo.

Non è però solo questione di lancette di orologi che tornano indietro, o di nostalgia canaglia. È che il Pd non è più riuscito a conquistare, dopo la debacle del 2011, quella centralità politica e programmatica che gli consentirebbe, pur in mancanza di forti e riconosciute leadership, di proporre credibilmente un suo dirigente politico come interprete di una nuova stagione.

Così annaspa. E a poco meno di un anno dalle elezioni comunali – quando si voterà anche a Salerno, Benevento e Caserta, e in molte altre importanti città italiane, sicché il voto prenderà facilmente il significato di un test politico nazionale – a poco meno di un anno ha ancora poche idee ma confuse.

Da una parte, c’è chi chiede di non abbandonare il metodo delle primarie. Certo, non sono più un elemento costitutivo dell’identità del partito democratico, Renzi stesso ha fatto capire che è disposto a riconsiderarne l’applicazione, in certi contesti territoriali non rappresentano affatto garanzia di qualità, ma sta il fatto che proprio a causa della debolezza degli organismi di partito le primarie consentono di «esternalizzare», per dir così la scelta, e cioè di non portarne fino in fondo la responsabilità. È un’interpretazione pilatesca del ricorso alle primarie, ma è quella che rischia di prevalere, per superare vecchie e nuove impasse.

Un’altra possibilità è pescare il jolly: trovare un volto nuovo su cui investire, nella speranza che riveli insospettate doti di leadership e trovi cammin facendo quella autorevolezza che notabili e maggiorenti di partito non saranno certo disposti a riconoscergli, ex ante. Neanche questa è una strada priva di rischi, ovviamente: già nel 2011 il Pd provò a togliersi dai guai affidandosi a un’espressione della società civile, il prefetto Morcone, coi risultati che sappiamo: non solo perse le elezioni, ma non riuscì a conservare intorno a quella esperienza neppure una base da cui ripartire.

E allora: se non è l’una, e non è neppure l’altra, cos’è? Se le primarie rischiano di produrre nuovamente lo spettacolo di un partito diviso tra vecchie cordate, e lo scouting di una figura nuova appare una scommessa troppo aleatoria, che cosa resta: Antonio Bassolino?

Ovviamente vi diranno: non bisogna partire dai nomi, ma dal progetto. Senza voler essere troppo cinici e ribadire che invece no, senza un volto che aggreghi è ben difficile costruire qualunque proposta politica, rimane il fatto che proprio il progetto non c’è, o almeno non c’è ancora.

Eppure lo spazio ci sarebbe. Non solo per la quantità di problemi insoluti che la città ha dinanzi, e su cui dunque qualcuno dovrebbe pur provare a costruire una risposta, ma perché, a voler uscire da ambiguità e timidezze, c’è una grande parte della società napoletana che proprio non se la sente di farsi altri cinque anni a sostenere la parte del popolo greco. È quello che il sindaco De Magistris ha scritto invece sul suo profilo facebook: Renzi sta facendo la Troika, Napoli sarà la sua Grecia. Forse al sindaco è sfuggito come è finita la trattativa in sede europea, o forse non gli importa davvero: gli importa piuttosto di giocare anche lui la sua parte, non certo per risolvere i problemi della città ma per incarnare una certa figura retorica nella consueta chiave retorica del povero contro il ricco, del debole contro il forte, dello straccione contro il signore. Sarebbe meglio se Napoli si scegliesse invece un sindaco all’altezza delle ambizioni di una città capitale, piuttosto che di un paese periferico. Ma è naturale: finché il Pd e il centrosinistra non prendono una strada, non lanciano un’idea, non provano a ricostruire un tessuto di alleanze con le forze vive della società, non innescano nuove dinamiche di partecipazione e di selezione della classe dirigente, e  insomma non fanno nulla o quasi, De Magistris può spararsi le sue pose, e confidare sul fatto che il tempo passa, le elezioni si avvicinano, e candidature alternative non emergono. Salvo, forse, Bassolino.
(Il Mattino, 21 luglio 2015 – ed. napoletana)

Basta con l’antimafia da talk show

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Le persone oneste, a Palermo, sono più di trecento. Molte di più. Sono più di trecento le persone che vogliono la verità sulle bombe della mafia e sugli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono di più, molte di più, le persone che vogliono liberare la Sicilia e l’Italia intera dalla morsa della criminalità organizzata.

Ma ieri, a Palermo, dinanzi al palco allestito dalle Agende Rosse di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ucciso, erano poche centinaia.

Qualcosa, dunque, non va. Se si perde un pezzo di città, o addirittura la città intera di Palermo, delle due l’una: o si deve concludere che quella città è per sempre perduta alla legalità e irredimibile e irredenta, o, con uno spirito di autocritica necessario, si ammette che bisogna oramai cominciare da un’altra parte, in un altro modo. Sarebbe infatti molto miope giudicare una città intera e la sua volontà di lottare contro le mafie dal grado di partecipazione alla manifestazione di ieri,  e in generale dal grado di adesione alle iniziative che un pezzo di società civile – sempre più ristretto, sempre più involuto, sempre più autoreferenziale – organizza per tenere la propria intransigente posizione di paladini dell’antimafia. Tra l’una cosa e l’altra, tra Palermo e l’antimafia militante, bisogna stare dalla parte di Palermo.

Vi sono state polemiche, in questi giorni, sul significato delle commemorazioni. I figli di Paolo Borsellino hanno detto che avrebbero disertato le cerimonie ufficiali (poi Manfredi ha invece deciso di esserci, per rispetto al Capo dello Stato, innanzi al quale ha pronunciato parole di esemplare dignità); Lucia Borsellino ha polemizzato aspramente con una certa maniera di declinare l’impegno antimafia, dimettendosi con grande compostezza dalla giunta Crocetta (solo dopo è scoppiato lo scandalo della frase ignobile del medico Tutino, e il mistero dell’intercettazione mai agli atti da cui però sarebbe stata prelevata).

Ma non sono solo le polemiche, i veleni, le insinuazioni e le mezze verità ad allontanare i cittadini. È, piuttosto, quell’antimafia esibita come divisa o come bandiera ad avere stancato, ad aver perduto senso, ad essere percepita come una sovrastruttura inutile, che alimenta solo se stessa ma non modifica né la coscienza del paese, né le pratiche di vita quotidiane. È l’antimafia come pulpito, non come attività investigativa, o come contrasto giudiziario, o come impegno formativo, o come pungolo civile, è l’antimafia come accompagnamento sempre uguale allo spartito infinito delle inchieste, come ruminazione discorsiva continua e continuamente alimentata, a tenere lontana una fetta sempre più consistente della società dalle liturgie cerimoniali. Una messa in latino per gente che vuole ormai parlare un’altra lingua.

Una parte di quel discorso funziona forse ancora: però solo come spettacolo, come denuncia ad uso delle telecamere e a beneficio dei talk show: ci si può sedere e ascoltare, e magari frequentare pure le repliche, ma quanto alla propria, diretta partecipazione, quando questa viene richiesta come una forma di intransigente militanza non solo civile, ma anche morale e soprattutto politica, quella no: quella è un’altra cosa, quella consente per esempio a Ingroia di raccogliere pochi punti percentuali alle elezioni politiche, come è accaduto nelle scorse elezioni, ma non si va oltre. E soprattutto non cambia nulla: non il pulpito, su cui salgono sempre gli stessi professionisti, e neppure quello che c’è sotto di esso.

È accaduto ieri a Palermo, era già accaduto anche in Campania, nei mesi scorsi. Una società che rifiuta certi riti non è necessariamente formata da atei e senza Dio: magari è solo stufa del bigottismo ipocrita che si respira in alcune sacrestie.

(Il Mattino, 20 luglio 2015)

Parole ignobili ma la libertà così è a rischio

dohosuh2Una frase abietta, odiosa, spregevole ha costretto Rosario Crocetta a sospendersi dalle funzioni di Presidente della Regione Sicilia. E tutto il Paese a chiederne le dimissioni. La frase non appartiene a lui, ma al suo medico personale, Matteo Tutino, di recente arrestato, che all’amico governatore dice – senza che il governatore abbia una reazione e accenni una replica, un dubbio, un distinguo – che Lucia Borsellino, la figlia del giudice Paolo Borsellino ammazzato dalla mafia ventitré anni fa, «va fermata, fatta fuori. Come suo padre». Lucia Borsellino si è dimessa  da qualche giorno da assessore della giunta Crocetta, dopo l’arresto di Tutino; la frase incriminata risale invece, almeno secondo il settimanale L’Espresso, che l’ha divulgata, al 2013 (secondo i giornalisti che firmano il pezzo risale invece a «pochi mesi fa»). Per il procuratore capo di Palermo, infine, quella frase non è agli atti, non risulta trascritta nell’ambito del procedimento che ha portato all’arresto del primario: semplicemente non c’è, non esiste.

Fin qui la giornata di ieri, in una ridda di lanci di agenzia, dichiarazioni, comunicati, smentite, richieste di dimissioni, richieste di ispezioni, richieste di elezioni. La gravità di quelle inqualificabili parole spiega da sé come abbiano potuto mettere a rumore l’intero mondo politico, e suscitare un moto di sdegno altissimo: non spiega però perché quelle parole siano finite sul sito del settimanale. Essendo nel frattempo intervenuta la smentita della Procura, la domanda sembra essere solo perché sia uscita una notizia così falsa e infondata. E invece la domanda ci starebbe tutta, anche se quella frase si trovasse effettivamente negli atti segretati di uno dei filoni di indagine su Tutino, come l’Espresso in serata ha, in maniera inquietante, ribadito.

È evidente che è difficile ragionarci su, tanto gravi e pesanti sono quelle parole, tanto immediata e necessaria è la solidarietà a Lucia Borsellino. Però dobbiamo farlo, dobbiamo chiederci ugualmente se è questo che noi vogliamo, se è questo che noi chiediamo alla nostra democrazia, se cioè ci sentiremmo davvero più sicuri, più liberi, più garantiti, se fossero pubblicate tutte le conversazioni, rese note tutte le parole, diffuse tutte le voci che affollano una qualunque conversazione privata: fra un generale e un Presidente del Consiglio – come nel recente caso di Renzi e del generale Adinolfi – così come fra un amministratore e il suo medico, o fra chiunque si trovi a qualunque titolo sotto intercettazione, sia o no ricco o famoso, potente o influente. Di questo infatti si tratta: di una democrazia che rinuncia a porre qualunque intercapedine fra sfera privata e sfera pubblica, che cancella ogni spazio di riservatezza, che sorveglia ogni comunicazione, e che poi affida alla casualità soltanto apparente della fuga di notizie effetti dirompenti, che sconquassano letteralmente le istituzioni.

In nome di cosa? Del diritto a sapere? Ma del diritto a sapere cosa? È chiaro infatti che in questo, come anche in altri casi, non c’è nulla che rilevi da un punto di vista strettamente giuridico: Tutino non è finito agli arresti per tentato omicidio. Le squallide parole riferite – ammesso e dalla Procura non concesso che siano state effettivamente pronunciate – sono dunque pubblicate da un giornale in nome soltanto del diritto a informare e ad essere informati. Ma c’è davvero un diritto a essere informati di cosa passi per la testa di una persona, che in privato, ad amici, oppure tra le mura della propria abitazione confessi per esempio le sue debolezze, o le sue perversioni, o le sue opinioni su questo e quello? C’è un diritto a costringere un uomo a piangere in pubblico, per quello che forse altri ha detto, per un silenzio che forse ha tenuto, per una viltà che forse ha commesso? No, un diritto simile non c’è, non è contemplato dalla Costituzione e non appartiene a una cultura liberale. Non si può giustificare la pubblicazione della ignobile «petit phrase» di Tutino in base al diritto di sapere che genere di persona sia il medico, e che pensi di lui e delle sue supposte infamie Crocetta. In una società liberale, ciascuno ha invece un altro diritto: quello, fondamentale, di essere in privato la persona che vuole essere – cinica oppure beffarda, meschina oppure vile – senza dover temere che l’intrusione di una microspia la strappi ai suoi vizi privati, alle sue abitudini linguistiche e ai suoi scatti d’umore, ai suoi scherzi di cattivo gusto e alle sue espressioni di libidine.

E invece oggi viviamo in questo timore. Certo, noi pensiamo che a una simile esposizione siano condannati solo i personaggi pubblici, i potenti, e ci prendiamo così le nostre piccole, maligne vendette su di loro, per ogni bassezza che ci viene rivelata. Dimentichiamo purtroppo che prima di essere «personaggi» sono «rappresentanti», sono «eletti», e siedono in organi costituzionalmente protetti. Dimentichiamo cioè che l’offesa alla loro libertà snatura la nostra democrazia, forse irreparabilmente. Perché una cosa è certa: per come la conosciamo e l’abbiamo praticata fin qui, l’ultimo dei luoghi in cui è possibile realizzare un ordinamento democratico è una casa perfettamente di vetro, in cui tutti vedono tutto e tutti sanno tutto di tutti. Non si chiamerebbe libertà, non si chiamerebbe democrazia, si chiamerebbe terrore.

(Il Mattino e Il Messaggero, 17 luglio 2015)

La pesca a strascico del pesce rancido

imagesA sorpresa, tra le carte dell’inchiesta sulla Cpl Concordia, che mesi dopo avrebbe portato all’arresto del sindaco di Ischia, Giosi Ferrandino, spunta una telefonata fra Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi. Che spunti a sorpresa lo dice lo stesso giornale che la pubblica, il Fatto quotidiano. A sorpresa, nel senso che non si capisce cosa c’entri con quell’inchiesta il giudizio che Matteo Renzi rende sull’allora premier Enrico Letta. Non si capisce perché c’è, in realtà, molto poco da capire: infatti l’una cosa non ha assolutamente nulla a che vedere con l’altra. Però la sorpresa non finisce qui: non è sorprendente solamente che in quelle carte finiscano simili conversazioni; è sorprendente pure il fatto stesso che spuntino fuori. L’unica cosa che non si può dire davvero sorprendente è proprio il giudizio di Renzi: che non ama Letta (ricambiato) e lo considera un incapace. In breve, pensa già alla sua sostituzione. Siamo nel gennaio 2014, e di lì a poco il sindaco di Firenze prenderà effettivamente il posto del premier, ma, intercettazioni o no, le modalità piuttosto brusche in cui il passaggio di consegne avviene non lasciano dubbio ad alcuno: fra i due non corre buon sangue. Sicché le parole di Renzi al generale Adinolfi tutto sono meno che sorprendenti. Ci piace leggerle, tuttavia, per quella gioia maligna di cui spesso si alimenta la nostra maniera di seguire, da spettatori, lo spettacolo dei potenti, ma di fatto non dicono nulla che l’opinione pubblica non sapesse già. Non ci si può invece non stupire di quel che capita nel nostro paese: che intercettazioni non solo prive di qualunque rilievo penale, ma prive anche di qualunque attinenza coi fatti e le circostanze oggetto di indagine, finiscano prima nei faldoni dell’inchiesta, poi sulle prime pagine dei giornali. Succede insomma che se io indago su Tizio (in questo caso Tizio è il generale Adinolfi) posso tirare dentro chiunque abbia a che fare con Tizio, a prescindere non solo dalla rilevanza per l’indagine, a prescindere anche dal non avere l’indagine seguito alcuno, a prescindere dalla pertinenza fra i fatti oggetto d’indagine e tutto ciò che nel frattempo emerge, a prescindere da qualunque rispetto della privacy, della riservatezza o della sfera della libertà personale. A prescindere da tutto.

In questa circostanza, che ha del clamoroso, accade che la Cassazione ordini di trasferire  l’inchiesta da Napoli (dove era stata condotta dai magistrati Borrelli e Woodcock) a Modena (dove ha sede la Concordia), e che conversazioni, peraltro intercettate nell’ambito di un altro procedimento su Adinolfi (nel frattempo prosciolto da ogni accusa), vengano – oplà! – allegate agli atti trasmessi a Modena, e per questa via rese così di dominio pubblico. Si chiama strascico, perché, proprio come nella pesca a strascico, in questo modo si può tirar dentro la propria rete qualunque cosa, specie marine protette e specie non protette. Solo che la pesca a strascico è vietata; le intercettazioni a strascico invece no, e anzi sono tanto più praticate quanto più è pregiato il pesce che si vuole acchiappare.

In quelle carte c’è così finita pure un’altra conversazione, che tira in ballo Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, all’epoca dei fatti Presidente della Repubblica. A Roma comanda lui, si dicono in sostanza gli interlocutori, che pensano quindi di agire sul padre attraverso il figlio. Di nuovo: rilevanza penale? Nessuna. Pertinenza? Nessuna. Legame con inchieste in corso? Nessuno. Si tratta solo di strascico a tutto andare, col quale si buttano fuori opinioni espresse nel corso di una chiacchierata privata, non diversamente da come può capitare a chiunque di parlar male o bene di un amico, di un collega che non si sopporta, di un altro che ha fatto carriera e di un altro ancora che va a letto con tutta la città. Di opinioni così, infarcite di luoghi comuni, dicerie, confidenze, non importa se fondate o meno, sono piene le nostre conversazioni, in cui per fortuna non dobbiamo morderci la lingua. Finché almeno qualcuno non ci intercetti.

Ma c’è tuttavia in quelle carte qualcosa che l’opinione pubblica debba sapere, e che faccia notizia? Non c’è materia giudiziaria, questo è assodato; c’è almeno materia giornalistica? Chi ha pubblicato lo scambio di opinioni pensa di sì, perché evidentemente ritiene non faccia differenza se e come quelle opinioni siano espresse. Basta che i pesci siano grossi. Così, carpite o meno, dette di volata o pensate seriamente, cambia poco. E invece cambia tanto, anzi cambia tutto, perché la maggior parte delle cose che diciamo in privato non saremmo disposti a sostenerle in pubblico, se ne dovessimo difendere per davvero la veridicità.

Ma perché questa elementare distinzione fra il dire tanto per dire e il sostenere quel che si dice, e cioè l’impegno con la verità, che sta all’origine della civiltà occidentale, è venuta completamente meno, e sui giornali anche la voce più incontrollata viene riportata e fa notizia indipendentemente non solo dal suo valore di verità, ma anche dall’essere stata proferita o meno in spirito di verità? Perché ad esempio dobbiamo perdere la libertà e il diritto di dire oggi tutto il contrario di quel che pensavamo ieri: almeno al bar, almeno tra amici, almeno quando stiamo per i cavoli nostri? Non è barbarie, questa: condurre il dibattito pubblico sulla scorta di atti di indagine sottratti al loro corso, dove non hanno potuto avere alcun seguito, ma utilizzabili ancora nello spazio mediatico per menare fendenti contro l’uno o l’altro? Qualcuno ha detto che la libertà di opinione è la libertà di mentire, più fondamentale, in una democrazia liberale, persino dell’ottavo comandamento. Ma se quella libertà viene conculcata sotto l’impero delle intercettazioni, è lecito o no, di grazia, chiedersi chi comanda davvero, e con quale legittimità?

(Il Mattino, 11 luglio 2015)

Il diritto penale nel sagrato della politica

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Con la condanna inflitta ieri a Silvio Berlusconi (e a Valter Lavitola), per la prima volta si squarcia il velo di quanto avviene o può avvenire nelle aule parlamentari, o forse nei corridoi che conducono fino ad esse. L’obbligatorietà dell’azione penale ha condotto il giudizio fin là, dove non era mai giunto, e dove si credeva non sarebbe mai giunto, per via della necessaria divisione dei poteri. Alcuni esulteranno: un velo fatto di menzogna ed ipocrisia è caduto, e ora finalmente sappiamo, per bocca di un tribunale, come votano deputati e senatori, e in base a cosa decidono di dare o negare la fiducia a un governo. Per altri, la corruzione ha inferto il colpo più grande proprio alla possibilità di tenere la dialettica politica dietro una riservatezza che può nascondere anche i più inconfessabili interessi, ma rimane pur sempre un presidio di libertà. È difficile dirlo in questo momento, è difficile mostrare una preoccupazione anzitutto per l’istituto parlamentare: è difficile ma è necessario. Non si tratta, per essere indulgenti, di fare l’elogio dei maneggi, che dai tempi del senato romano costellano la vita delle assemblee: si tratta di difendere le istituzioni rappresentative come un bene più grande anche del marciume che vi si può formare dentro.

Certo, la sentenza si commenta da sola. Un ex Presidente del Consiglio che, perse le elezioni, usa la sua forza economica per spostare il voto del Senato della Repubblica italiana tramite la compravendita di suoi rappresentanti e determinare così la caduta del governo in carica non è un fatto che possa essere messo a pari delle precedenti disavventure giudiziarie del Cavaliere: è di un’altra scala. Non è in scala nemmeno con altri episodi più o meno torbidi della vita repubblicana e, forse, dell’intera vita unitaria dello Stato italiano. Poi, però, bisogna pur aggiungere che si tratta del convincimento dei giudici di primo grado, e tenere presente che con ogni probabilità, in autunno, interverrà la prescrizione, a meno che Berlusconi non decida di rinunciarvi per vedersi restituita in appello la sua piena onorabilità (sarebbe un gran gesto), ma resta la gravità dell’evidenza giudiziaria definita ieri.

Detto ciò, non ci si può esimere da un giudizio sulla seconda Repubblica.

Che non finisce il 24 gennaio 2008, quando il Senato nega la fiducia al governo Prodi determinando anche la fine della quindicesima legislatura, ma di sicuro si rivela per quel che è stata: il punto di maggiore fragilità, di maggiore friabilità mai raggiunto dalla politica italiana, il punto di massima inconsistenza delle forze politiche, sulla cui scomparsa hanno potuto prosperare le meschine avidità di uomini privi di qualunque dignità politica e morale. Ovviamente, nessuno si sogna di mettere sullo stesso piano chi, in base alla sentenza del tribunale di Napoli, corruppe, e chi rimase vittima dell’episodio della corruzione. Ma un conto è il giudizio penale, e un altro è il giudizio storico, e anche se si assume come vero e definitivo quel che ieri è stato deciso, bisogna evitare di schiacciare un aspetto sull’altro. E avere così il coraggio di dire che il centrodestra è stato un po’ meglio di quel che appare dalla sentenza di ieri, e che il centrosinistra non può illudersi di essere stato meglio di come è stato, in base ai fatti acclarati ieri.

Romano Prodi, che fu sicuramente il principale bersaglio della manovra messa in atto da Berlusconi, non può dire che, senza la compravendita dei senatori, avrebbe governato tranquillamente per tutta la durata della legislatura. Il voto contrario del senatore De Gregorio si unì al voto contrario dei mastelliani e di altre microformazioni, la cui semplice esistenza era già di per sé indice di scarsissima tenuta del quadro politico-parlamentare. In particolare, l’Udeur, il partito di Mastella, era già passato all’opposizione e il Guardiasigilli aveva già presentato le dimissioni. L’estrema debolezza dell’Unione guidata dal Professore era insomma evidente da settimane, se non addirittura dall’inizio dell’esperienza governativa, resa possibile dal convergere dei voti del centro moderato e di quelli della sinistra comunista: un quadro che definire labile e confuso è dire poco. L’Unione non è stata, per il centrosinistra, il ponte tra l’Ulivo degli anni Novanta e il Partito Democratico di oggi. O forse sì: ma nel senso che dall’uno all’altro il centrosinistra è stato portato proprio dal crollo di quel ponte. Come una volta si diceva in un linguaggio che tutti capivano: non c’erano le condizioni politiche per andare avanti, e le spallate e i colpi sotto la cintola non avrebbero mai sortito l’effetto cupamente desiderato da Berlusconi, se così non fosse stato.

Ma anche la storia del centrodestra non può essere raccontata come se la sentenza di ieri la ricapitolasse interamente. Certo, l’identificazione con la leadership di Berlusconi non consente di fare troppe distinzioni. Ma anche il Cavaliere non è sempre stato lo stesso, ed il consenso di cui ha goduto non si può considerare che sia stato solo estorto con l’inganno, con la propaganda o con la soverchiante forza economica. Il potere, anche il più brutale, deve tradursi in parola e sapersi dire. Per molto tempo Berlusconi ha saputo farlo: convincendo, non già costringendo. Il fine non giustifica i mezzi: non sempre almeno, e non in questo caso. Ma i mezzi non condannano sempre il fine, perché non vi hanno con essi un rapporto necessario. A sinistra è facile cedere oggi alla tentazione di un racconto soltanto giudiziario della seconda Repubblica. Sta al centrodestra bere fino in fondo il calice amaro della condanna e proporre un’altra lettura, con altri mezzi, da un’altra parte.

(Il Mattino, 9 luglio 2015)

Il monocolore della responsabilità

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«L’assoluta autonomia» del Presidente De Luca si traduce, con la nomina della nuova Giunta campana, in una «grande apertura alla società civile». Tra l’una e l’altra non ci sono i partiti. Vincenzo De Luca non li ama, probabilmente ricambiato. Chiunque conosca la sua storia di sindaco della città di Salerno sa che il suo largo consenso popolare non è mai stato mediato dai partiti politici. La legittimazione gli viene direttamente dal voto popolare, che non a caso raccoglie esibendo il meno possibile il simbolo del partito di appartenenza. È stato così anche con le primarie, che ha vinto nonostante pochi, nel Pd, avessero sposato una candidatura dai tratti contundenti, non solo per i problemi legati alla legge Severino.

Ora che De Luca ha potuto finalmente procedere al suo primo atto da Presidente della regione Campania, scegliendo gli otto assessori che lo affiancheranno nel governo della regione, non si è smentito. Ha formato una giunta al femminile (in questo facendo meglio persino di Matteo Renzi, che ha sempre vantato, a Roma e a Firenze, il rapporto alla pari fra uomini e donne), e ha pescato prevalentemente fra docenti universitari, alcuni dei quali con precedenti esperienze di carattere amministrativo. Ma non vi sono nomi eclatanti, o scelte dirompenti: si capisce subito che, rispetto alla promessa formulata all’indomani delle elezioni – vi farò sognare! – De Luca si è convinto che l’unico che possa far sognare davvero i cittadini campani sia lui.

Anche la distribuzione delle deleghe conferma lo stile di governo dell’uomo: De Luca ha trattenuto per sé competenze importanti – in particolare in materia di sanità, e di agricoltura – confermando che la giunta è, in sostanza, un monocolore deluchiano, con la fidatissima spalla di Fulvio Bonavitacola a fare da vice.

Una simile scelta, che accentua i tratti personali del nuovo governo della Regione, aumenta naturalmente anche le responsabilità del Presidente. De Luca non è tipo da sottrarsi. È anzi parso chiaro, nella conferenza stampa di presentazione della giunta, che proprio questo De Luca cerca: un giudizio sulla sua persona, e un rapporto diretto con l’elettorato e l’opinione pubblica, che probabilmente verrà coltivato anche attraverso una presenza assidua sugli organi di stampa – anche questa  non è una novità, rispetto agli anni da sindaco di Salerno – e con un robusto tono polemico, è facile presumere, nei confronti della politica che dovesse provare a presentargli il conto del sostegno in consiglio regionale.

Qui sta la prima, vera scommessa che De Luca intende giocarsi: non è al consenso dei partiti e delle liste che De Luca guarda, ma a quello che riuscirà a garantirsi con l’azione di governo. In realtà, la vittoria di maggio è arrivata di misura, grazie anche all’appoggio delle formazioni minori, e di pezzi di ceto politico cui programma e prospettiva politica interessano molto meno della gestione del potere. Per loro, il sogno non è ancora cominciato, e non è detto che cominci.

Una cosa però va detta subito: che nell’ansia di sbarazzarsi di vassalli, valvassori e valvassini annidati in quel che resta dei partiti – o, anche, nella stessa macchina amministrativa regionale, che dovrà abituarsi a una nuova linea di comando – De Luca non si è spinto fino al punto di emulare l’effervescente inventiva di Michele Emiliano, che in Puglia ha pensato bene di procedere alle consultazioni online e, in esito, alla nomina di tre assessori grillini. Il tema però è lo stesso, e lo si può volgere sia in positivo che in negativo: nel Mezzogiorno una classe dirigente diffusa da cui attingere non c’è, e bisogna inventarla. Emiliano lo fa carezzando la demagogia dei Cinque Stelle, De Luca invece battendo i pugni sul tavolo. Si può lamentare in tutto ciò l’assenza di una indispensabile funzione di controllo e di mediazione, che partiti ormai devertebrati non sono in grado di esercitare, e la sostituzione dei tradizionali corpi intermedi con staff di uomini legati da rapporti di fiducia di tipo personale, ma si può anche ravvisare in queste scelte un’esigenza di decisione molto più vicina a ciò che i cittadini si aspettano e su cui pensano di potere e dovere giudicare. E magari anche più funzionale alle concrete esigenze di governo del territorio.

Resta un ultimo terreno di giudizio. A Caldoro che ha iscritto tutta la sua esperienza amministrativa sotto il segno delle responsabilità della passata stagione, che ne frenavano a suo dire l’azione, De Luca ha sempre replicato che questa tiritera può valere per qualche settimana o mese: non oltre, non per un quinquennio. Ora che tocca a lui, si può star sicuri che non farà lo stesso. Ma si può stare altrettanto sicuri che non funzionerà come scusa o pretesto il nome di questo o quell’assessore, più debole perché non sostenuto dai partiti e perciò più facile da scaricare, in caso di difficoltà? Neanche questa scusa in realtà potrebbe alla lunga funzionare, visto che nel nominare la giunta e nel distribuire le deleghe De Luca ha deciso tutto da solo, «in assoluta autonomia».  Così sono davvero finiti gli alibi, e non c’è che da vedere il nuovo presidente della Campania all’opera, senza pregiudizi.

(Il Mattino, 7 luglio 2015)

Nei concorsi due lauree e due misure

Acquisizione a schermo intero 07072015 095232.bmpE intanto, nelle aule parlamentari, avanza la riforma della pubblica amministrazione. Riforma complessa, difficile, che tocca posizioni e interesse consolidati. Riforma necessaria, ineludibile, che deve consentire al Paese un profondo svecchiamento dell’organizzazione dei servizi pubblici. Riforma strampalata, però, se nel mentre si approva il disegno di legge si imbarcano emendamenti che sembrano piovuti da Marte.

Con l’ultimo passaggio parlamentare, è passato difatti un emendamento che stabilisce il «superamento del voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso». Che cosa significa codesto superamento? Che mentre finora per entrare nei ranghi della pubblica amministrazione, o partecipare alle procedure concorsuali, era sufficiente il requisito del titolo di studio, in base all’emendamento appena approvato quel requisito non conta più. O per meglio dire: conta, ma conta pure (e conta soprattutto) da quale Ateneo provenga il candidato, quale istituzione abbia cioè rilasciato il titolo.

La laurea non metterebbe cioè più i laureati su un piede di parità. Ma la domanda che evidentemente nessuno si è fatto in Parlamento è se almeno, nell’accesso al sistema universitario nazionale, gli studenti italiani siano tutti su un piede di parità. Se sì, nulla quaestio: vi saranno allora quelli che hanno scelto un Ateneo più prestigioso, il cui corso di studi è probabilmente più difficile e selettivo, e la riforma della pubblica amministrazione in corso di approvazione premierà giustamente questa scelta. Ma se così non è, e se invece gli studenti italiani scelgono anche in considerazione di altri fattori: la vicinanza geografica, ad esempio, oppure il costo delle tasse universitarie, allora altro che premio! Una riforma così congegnata lede il principio di eguaglianza e penalizza coloro che per necessità e non per scelta (in base cioè al bisogno, se si può ancora usare questa parola) devono più modestamente preferire un Ateneo di serie B.

Ma esistono, poi, gli Atenei di serie B? E come vengono classificati? In base a cosa? La questione della valutazione del sistema universitario nazionale è una questione aperta, discussa, controversa. È chiaro che un emendamento come quello approvato dal Parlamento la salta a piè pari: fa finta che non vi siano problemi da quel lato, e prepara il passo successivo: prendere una classifica qual si sia – meglio internazionale, suggerisco, dal momento che un pizzico di esterofilia non guasta mai, quando si tratta di valutazione del merito – e su quella base mandare alcuni Atenei in Champions League, e condannare gli altri all’inferno dei play off. Di classifiche in effetti ne circolano già, e curiosamente le Università del Mezzogiorno non occupano mai, o quasi mai, le prime posizioni: sarà il caldo? Sarà la pigrizia dei meridionali? Saranno tare ereditarie o forse profondi vizi antropologici? Oppure c’entrerà qualcosa il più basso livello economico, sociale e civile in cui versano larghe parti del Sud d’Italia. Com’è, come non è, una norma del genere non si propone certo di cambiare le cose, di dare una mano al Mezzogiorno e di valorizzarne le risorse umane, cercando magari di scoraggiare la fuga di cervelli. Tutt’al contrario: favorisce la fuga, anzi la invoglia. E così quella «desertificazione umana» di cui parlava l’ultimo rapporto presentato dallo Svimez qualche mese fa trova un nuovo, simpatico motivo per consolidarsi. Perché chi vuole studiare dovrebbe infatti restare quaggiù? Perché non iscriversi in qualche università del Nord meglio piazzata in classifica, che dà quindi maggiori probabilità di trovare lavoro nell’amministrazione pubblica? (O forse si tratta del solito lamento leghista, del fatto che cioè ci sono troppi impiegati statali meridionali che tolgono lavoro a quelli del Nord, per cui la manina parlamentare sta cercando di scoraggiare nuovi ingressi?).

Intendiamoci: nonostante la febbre di riforme che da anni possiede il Paese nel campo dell’istruzione, della formazione superiore e della ricerca, e spinga il legislatore a cambiare le regole in continuazione, nonostante questo alacre spirito riformatore l’università italiana continua ad avere non pochi problemi. Per alcuni, l’Italia ha pochi laureati; per altri non ne ha abbastanza di qualità. Per alcuni, si fa troppo poco per il diritto allo studio; per altri va abolito il valore legale dello studio. Per alcuni, l’attuale sistema di valutazione non funziona; per altri, il problema è se mai la sua implementazione. Si potrebbe continuare, ma per quanto lungo fosse l’elenco delle questioni intorno a cui si ragiona, non se ne troverebbe nessuna a cui risponda l’improvvido emendamento approvato ieri. Il quale prova solo a introdurre un principio di differenziazione fra le università italiane nella maniera più maldestra possibile: credendo forse di premiare il merito, in realtà premiando la lotteria della fortuna che bacia quello che può permettersi il Politecnico di Torino o Milano Bicocca, e condanna tutti gli altri che non hanno le stesse possibilità. Così è, se vi pare.

(Il Mattino, 3 luglio 2015)

Se stare dalla parte giusta è come indossare una divisa

luciaborsellino-975x310«Non capisco l’antimafia come categoria»: così dice Lucia Borsellino, nell’intervista rilasciata a «Repubblica», subito dopo avere lasciato la Giunta regionale siciliana. Dimissioni in qualche modo attese, nel senso che il disagio raccontato dalla figlia del giudice Borsellino data ormai da alcuni mesi. Ma non fa per questo meno male ascoltare dalla sua voce la richiesta di non essere coinvolta nelle commemorazioni del 19 luglio, giorno in cui il padre Paolo perse la vita, ventitré anni fa, per un vile attentato mafioso, che fu capace di scuotere le fondamenta stesse della prima Repubblica.

Lucia Borsellino lascia per dissapori, incomprensioni, per un «abbassamento di tensione anche morale» nel governo siciliano; perché si sono persi di vista gli obiettivi, aggiunge ancora. Ma al di là delle specifiche vicende che l’hanno spinta a concludere anzitempo la sua esperienza politica, c’è anche, nelle sue parole, un allarme più generale, che concerne il significato di un impegno vero, rigoroso, intransigente, per la legalità. Lucia Borsellino lo dice con parole misurate e molto sobrie, ma non per questo meno nette. L’antimafia non può essere una categoria, dice, non può essere una sovrastruttura sociale, la divisa che qualcuno indossa e con la quale esercita con lucro economico o politico una professione. A volte può bastare un cognome, Lucia Borsellino lo sa e non lo può consentire. Lo sa perché ha fatto esperienza di cosa significhi essere tirati da una parte o dall’altra in virtù del solo fatto di portare un cognome. Di certo non significa combattere la mafia: non può anzi esserne nemmeno il surrogato. Proprio non funziona, non è così che si fa e in ogni caso non è così che Lucia Borsellino vuole fare.

Se ne va, dunque, ma restano le sue parole e la sua amarezza, e con quelle bisogna fare i conti. Perché invece di andare con la memoria a Sciascia e alla ruvida polemica contro i professionisti dell’Antimafia, che viene richiamata ogni qual volta occorre dire che tutti, anche i più esperti conoscitori di cose di mafia possono sbagliarsi, è forse più sensato allineare qualche altro segnale a fianco di quello mandato da Lucia Borsellino con le sue dimissioni.

Perché di segnali ve ne sono, purtroppo. Cosa infatti si deve pensare della questione di recente sollevata dal Presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, a proposito della gestione dei beni confiscati alle mafie? Il minimo che si deve pretendere, al riguardo, è che allo Stato riesca di amministrare quei beni meglio di quanto non facciano le organizzazioni criminali. Ma va davvero così? No. E sulla materia degli incarichi agli amministratori giudiziari è un eufemismo dire che l’incertezza regna sovrana. Quel che in effetti regna è una gestione opaca, sia nella determinazione dei compensi che negli affidamenti degli incarichi, con risultati che dal punto di vista della redditività del bene lasciano molto a desiderare (altro eufemismo). Ma il rischio che l’Antimafia significhi spartirsi tra pochi la gestione dei beni che lo Stato sottrae alle mafie esiste eccome. Lo ha capito per tempo il ministro Orlando, che ha predisposto un calmiere delle tariffe, ancora però in attesa di un parere del Consiglio di Stato.

Altro, brutto segnale è giunto in queste ore. L’ex componente dell’Antimafia ed ex parlamentare, Lorenzo Diana – molto noto, come recitano le Agenzie, per il suo impegno e la sua lotta contro i clan, tanto da essere citato da Roberto Saviano nel suo «Gomorra» dalla parte giusta – è indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli per concorso esterno in associazione mafiosa, per una storia di appalti alla cooperativa Concordia. Una storia clamorosa, che forse si sgonfierà presto e che in ogni caso non autorizza nessuno a  pronunciare o anche solo insinuare giudizi di colpevolezza. Ma colpisce il commento di Diana: «Mi sembra – ha detto – di essere tra un sogno e Scherzi a parte». Questo commento può significare, purtroppo, due cose: la prima, che l’accusa è talmente improbabile che non ci si può credere; la seconda, che è talmente improbabile che un simbolo della lotta alle mafie sia inquisito che non ci si può credere.

Non è la stessa cosa, perché nel secondo caso quelle parole indicano, volenti o nolenti, proprio ciò che Lucia Borsellino dice di non poter capire: come l’Antimafia sia divenuta una sovrastruttura, cioè una copertura simbolica che abilita alcuni e solo alcuni a sostenere certe parti, accendendo un’ipoteca morale su chiunque provi a metterle in discussione.

Lorenzo Diana ha ricevuto nel 2008 il Premio Borsellino per il suo impegno. Il premio è sicuramente meritato. Sull’uso del cognome vale per tutti l’avviso della figlia Lucia.

(Il Mattino, 4 luglio 2015)

Quel nesso tra sovranità e democrazia

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Il titolo non lascia spazio a dubbi: l’ultimo libro di Biagio De Giovanni è un «Elogio della sovranità politica» (Editoriale Scientifica, pag. 330, € 20). E poiché, secondo l’Autore, l’attacco alla sovranità indebolisce complessivamente l’azione politica, manca poco che il libro non sia un elogio della politica tout court. Ce n’è bisogno? Certo che ce n’è bisogno. Non v’è chi non veda infatti quanto la politica non sia solo screditata, ma sempre meno efficace nella capacità di governare le cose degli uomini. Di solito si pensa che sia inefficace perché screditata, cioè corrotta e autoreferenziale. Se ci si sposta sul piano teorico, e si guarda la storia dei concetti – il libro di De Giovanni aiuta a farlo in maniera magistrale – si capisce che è piuttosto vero il contrario: è sempre più inefficace e quindi screditata, più facilmente distolta dai suoi veri compiti e piegata ad interessi personali, non avendone di più alti da servire.

Ripensare la sovranità ha dunque anche il significato di restituire alla politica la sua grandezza, il suo vero formato (almeno in idea). La sovranità è stata infatti la pietra dello scandalo del pensiero politico novecentesco. Ogni sforzo è stato fatto per ricondurla a «potente arbitrio, nemico del diritto», come scrive De Giovanni. Tutto il male, tutte le tragedie del secolo dipenderebbero cioè dalla sopravvivenza di questo arcigno residuo politico-teologico, e tutto il bene verrebbe invece dalla sua eliminazione. A questa veduta L’Autore oppone un’obiezione semplice ma decisiva: fra sovranità e democrazia vi è un nesso, rinsaldatosi storicamente dentro le forme dello Stato moderno, che si fa fatica a non considerare indissolubile. Ci si rende dunque conto che, attaccando la sovranità, si mette in pericolo la democrazia? Ebbene, il salto all’attualità è, forse, un po’ troppo brusco, (ma forse no, se si considera che il pensiero neo-costituzionalista, che oggi impazza, è tra gli obiettivi polemici del libro) – ad ogni modo: non è forse un problema, un problema di democrazia, di «potere del popolo» e non dei giudici, se, dopo l’introduzione del pareggio in bilancio in Costituzione, e dopo un paio di sentenze della Corte costituzionale, prima sulle pensioni, ora sul blocco degli stipendi pubblici, i margini di intervento per l’Esecutivo in materia di politica economica vanno palesemente restringendosi dentro il poco spazio concesso dall’attività interpretativa della Corte? E che dire poi del livello sovranazionale? Non sottrae anch’esso sovranità agli Stati? E come giudicare questo processo, se al più alto livello su cui si sposta la decisione non interviene il soccorso di una vera legittimazione politica? E a chi la si potrebbe chiedere, in mancanza di areopaghi internazionali, o in dubbio circa la loro efficacia, se non ancora agli Stati nazionali? Non è da essi e per essi che i popoli si sentono rappresentati?

Ma De Giovanni ha scritto anzitutto un libro di teoria politica. Che, per quanto aiuti a proporre simili domande, rimane attestato su un livello più alto di confronto teorico. Resta però l’intento polemico, rivolto sia verso gli uni, che paiono non avere chiara consapevolezza di ciò che all’invenzione della sovranità si è potuto storicamente legare, che verso gli altri, cioè verso quanti non nutrono vera preoccupazione per le sorti della democrazia giuridico-liberale,la sola che abbiamo finora potuto realizzare, a cui oppongono velleitariamente un’altra, dai contorni tuttavia imprecisati.

È bene allora dar conto anzitutto di questa intenzione, perché tutto il resto – la presentazione storica dell’emersione del principio di sovranità tra Bodin e Hobbes; la sua  costruzione come forza e forma di mediazione reale da Rosseau a Kant a Hegel; gli «spostamenti laterali» su terreni non propriamente politico-giuridici, con Freud e Kantorovicz, e gli equivoci connessi; il dibattito italiano, e quello tedesco, sulle forme del costituzionalismo; il falso dilemma Kelsen-Schmitt; la grande ondata decostruttiva alimentata con i pensieri di Marx, Nietzsche, Foucault, giù giù fino ai giorni nostri – tutto il resto, che pure è tanto, è però inserito in un percorso non cronologico ma concettuale che quella polemica sostiene.

Con chi dunque polemizza De Giovanni? Da una parte contro i cantori dello jus senza più fonte sovrana, il cui catalogo di diritti finisce però col «volteggiare per l’aria, più astratto di ogni giusnaturalismo del passato» ; dall’altra contro l’ondata della biopolitica, che immagina di liberare la vita da ogni sovrastruttura di regole. Agli uni e agli altri De Giovanni rimprovera fermamente di aver ridotto indebitamente la sovranità a un puro nodo di potere e arbitrarietà, e in questo modo di aver gettato alle ortiche il più potente principio di costruzione politica che la modernità aveva saputo, nei secoli, affinare. Per sostituirlo con cosa, questa è la desolata considerazione finale, non è più chiaro a nessuno.

(Il Mattino, 1 luglio 2015)

Quel misterioso secondo in più

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Se Madre Terra rallenta, toccherà aspettarla. Non è la prima volta: non sarà l’ultima: poiché i nostri orologi si regolano sulla rotazione della Terra intorno al suo asse, e poiché il nostro Pianeta impiega non ventiquattro ore esatte per compiere il suo giro, ma qualche millesimo di secondo in più, pazienta un anno, pazienta due, a un certo punto i sacerdoti internazionali delle misure astronomiche terrestri hanno imposto agli orologi atomici, e di conseguenza anche ai nostri, lo stop di un secondo, scontato coi rintocchi della scorsa mezzanotte.

Cosa però accade davvero, in quel secondo intercalato fra la fine di un giorno e l’inizio di un altro? Nulla di singolare, in realtà: chi dormiva ha continuato a dormire, e chi per qualunque ragione era sveglio avrà continuato a vegliare. I computer e tutti gli altri marchingegni che hanno un timer incorporato erano stati per dir così avvisati, e si sono messi rapidamente in pari. Solo se stanotte fosse accaduta la favola di Cenerentola, le conseguenze avrebbero potuto essere rimarchevoli: forse la fanciulla avrebbe fatto in tempo a recuperare la scarpetta in un secondo, e così non vi sarebbe stato nessun nuovo incontro col principe azzurro.

Ma, favole a parte, di solito va così: se noi rallentiamo, gli orologi continuano imperterriti a battere il tempo. Se invece rallenta la Terra, sono gli orologi a doversi adeguare. Perché? Perché in questione non è il tempo, ma un rapporto fra movimenti, quello della Terra, e quello degli orologi. E finora c’è venuto comodo di regolare il secondo sul primo, e non viceversa. Questo tempo, diceva il filosofo francese Bergson, è però interamente spazializzato: di «propriamente temporale» non ha nulla. Con esso noi stabiliamo solo che quando un certo corpo (la Terra) si trova in una certa posizione, la lancetta si trova in un certo punto del quadrante: per gli usi ordinari della vita basta e avanza. Da Einstein in poi, l’immagine scientifica del tempo si è però maledettamente complicata: non c’è più alcun tempo «assoluto, autentico e matematico» che scorra «uniformemente e indipendentemente da qualsiasi riferimento ad oggetti esterni», come credeva Newton, e come noi siamo tuttora abituati a pensare, ma anche nelle complicazioni della fisica contemporanea quello del tempo rimane un problema di misura, di relazioni fra grandezze, di rapporto fra moti e posizioni nello spazio. Certo, per la più gran parte degli uomini è divenuto misterioso quello che la fisica ci insegna, che cioè lo scorrere del tempo possa rallentare o accelerare a seconda della velocità con cui si sposta l’orologio che lo misura; ma per i filosofi, da Agostino in poi, è ancor più problematico anche solo capire cosa significhi «scorrere», in relazione al tempo: dov’è che il tempo scorre, o trascorre? Dove si raccoglie, se si raccoglie, il tempo trascorso?

Mentre i fisici facevano la loro rivoluzione, anche i filosofi contemporanei – Heidegger e Derrida, in primis – hanno provato a fare la loro, cercando di mettere in dubbio il primato del «presente», cioè l’idea che «essere» significasse sempre e soltanto «esser presente», sicché tutto quel che c’è, c’è e non può esserci se non «presentemente».  Erodere un simili primato non ha significato dire che in qualche modo anche il passato e il futuro ci sono, ma al contrario che nulla, nemmeno ciò che è ora presente, c’è mai veramente del tutto, pienamente e assolutamente.  È venuto giù il cielo, cioè quella dimensione che i filosofi hanno provato a pensare come ciò che non passa, mentre tutto passa. «Ogni cosa nel cielo intelligibile – diceva il filosofo Plotino  – è anche cielo, e lì la terra è cielo, come lo sono anche gli animali, le piante, gli uomini e il mare». Il cielo intellegibile di Plotino era appunto il presente eterno, che contiene tutto il tempo e ogni cosa che passa. Da quando non c’è più, le cose passano senza un cielo in cui possano tutte raccogliersi e radunarsi. Il nostro tempo non è ormai che un infinito spreco di tempo.

Cosa rimane, tuttavia? Rimane il desiderio di un’altra esperienza del tempo. Nella sua brevissima Storia dell’eternità, Jorge Luis Borges l’ha descritta come una sorta di piccola eternità in formato tascabile, di cui si ha improvvisa, saltuaria percezione quando le cose – le case, una calma notte, un limpido muretto – tornano quiete, silenziose, identiche a come già una volta sono state. Lì, scrive Borges, il tempo si disintegra e si rivela un’illusione.

Forse la conclusione è frettolosa: è proprio quando il tempo non va subito via, ma si ferma e indugia un poco e quasi ritorna, e così riempie di senso un attimo della nostra vita, che se ne dà vera esperienza. Basta cioè l’esile intercalare di un secondo; ma dobbiamo mettercelo noi, più che l’International Earth Rotation di Parigi.

(Il Messaggero, 1 luglio 2015)