Archivi del giorno: luglio 1, 2015

Quel nesso tra sovranità e democrazia

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Il titolo non lascia spazio a dubbi: l’ultimo libro di Biagio De Giovanni è un «Elogio della sovranità politica» (Editoriale Scientifica, pag. 330, € 20). E poiché, secondo l’Autore, l’attacco alla sovranità indebolisce complessivamente l’azione politica, manca poco che il libro non sia un elogio della politica tout court. Ce n’è bisogno? Certo che ce n’è bisogno. Non v’è chi non veda infatti quanto la politica non sia solo screditata, ma sempre meno efficace nella capacità di governare le cose degli uomini. Di solito si pensa che sia inefficace perché screditata, cioè corrotta e autoreferenziale. Se ci si sposta sul piano teorico, e si guarda la storia dei concetti – il libro di De Giovanni aiuta a farlo in maniera magistrale – si capisce che è piuttosto vero il contrario: è sempre più inefficace e quindi screditata, più facilmente distolta dai suoi veri compiti e piegata ad interessi personali, non avendone di più alti da servire.

Ripensare la sovranità ha dunque anche il significato di restituire alla politica la sua grandezza, il suo vero formato (almeno in idea). La sovranità è stata infatti la pietra dello scandalo del pensiero politico novecentesco. Ogni sforzo è stato fatto per ricondurla a «potente arbitrio, nemico del diritto», come scrive De Giovanni. Tutto il male, tutte le tragedie del secolo dipenderebbero cioè dalla sopravvivenza di questo arcigno residuo politico-teologico, e tutto il bene verrebbe invece dalla sua eliminazione. A questa veduta L’Autore oppone un’obiezione semplice ma decisiva: fra sovranità e democrazia vi è un nesso, rinsaldatosi storicamente dentro le forme dello Stato moderno, che si fa fatica a non considerare indissolubile. Ci si rende dunque conto che, attaccando la sovranità, si mette in pericolo la democrazia? Ebbene, il salto all’attualità è, forse, un po’ troppo brusco, (ma forse no, se si considera che il pensiero neo-costituzionalista, che oggi impazza, è tra gli obiettivi polemici del libro) – ad ogni modo: non è forse un problema, un problema di democrazia, di «potere del popolo» e non dei giudici, se, dopo l’introduzione del pareggio in bilancio in Costituzione, e dopo un paio di sentenze della Corte costituzionale, prima sulle pensioni, ora sul blocco degli stipendi pubblici, i margini di intervento per l’Esecutivo in materia di politica economica vanno palesemente restringendosi dentro il poco spazio concesso dall’attività interpretativa della Corte? E che dire poi del livello sovranazionale? Non sottrae anch’esso sovranità agli Stati? E come giudicare questo processo, se al più alto livello su cui si sposta la decisione non interviene il soccorso di una vera legittimazione politica? E a chi la si potrebbe chiedere, in mancanza di areopaghi internazionali, o in dubbio circa la loro efficacia, se non ancora agli Stati nazionali? Non è da essi e per essi che i popoli si sentono rappresentati?

Ma De Giovanni ha scritto anzitutto un libro di teoria politica. Che, per quanto aiuti a proporre simili domande, rimane attestato su un livello più alto di confronto teorico. Resta però l’intento polemico, rivolto sia verso gli uni, che paiono non avere chiara consapevolezza di ciò che all’invenzione della sovranità si è potuto storicamente legare, che verso gli altri, cioè verso quanti non nutrono vera preoccupazione per le sorti della democrazia giuridico-liberale,la sola che abbiamo finora potuto realizzare, a cui oppongono velleitariamente un’altra, dai contorni tuttavia imprecisati.

È bene allora dar conto anzitutto di questa intenzione, perché tutto il resto – la presentazione storica dell’emersione del principio di sovranità tra Bodin e Hobbes; la sua  costruzione come forza e forma di mediazione reale da Rosseau a Kant a Hegel; gli «spostamenti laterali» su terreni non propriamente politico-giuridici, con Freud e Kantorovicz, e gli equivoci connessi; il dibattito italiano, e quello tedesco, sulle forme del costituzionalismo; il falso dilemma Kelsen-Schmitt; la grande ondata decostruttiva alimentata con i pensieri di Marx, Nietzsche, Foucault, giù giù fino ai giorni nostri – tutto il resto, che pure è tanto, è però inserito in un percorso non cronologico ma concettuale che quella polemica sostiene.

Con chi dunque polemizza De Giovanni? Da una parte contro i cantori dello jus senza più fonte sovrana, il cui catalogo di diritti finisce però col «volteggiare per l’aria, più astratto di ogni giusnaturalismo del passato» ; dall’altra contro l’ondata della biopolitica, che immagina di liberare la vita da ogni sovrastruttura di regole. Agli uni e agli altri De Giovanni rimprovera fermamente di aver ridotto indebitamente la sovranità a un puro nodo di potere e arbitrarietà, e in questo modo di aver gettato alle ortiche il più potente principio di costruzione politica che la modernità aveva saputo, nei secoli, affinare. Per sostituirlo con cosa, questa è la desolata considerazione finale, non è più chiaro a nessuno.

(Il Mattino, 1 luglio 2015)

Quel misterioso secondo in più

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Se Madre Terra rallenta, toccherà aspettarla. Non è la prima volta: non sarà l’ultima: poiché i nostri orologi si regolano sulla rotazione della Terra intorno al suo asse, e poiché il nostro Pianeta impiega non ventiquattro ore esatte per compiere il suo giro, ma qualche millesimo di secondo in più, pazienta un anno, pazienta due, a un certo punto i sacerdoti internazionali delle misure astronomiche terrestri hanno imposto agli orologi atomici, e di conseguenza anche ai nostri, lo stop di un secondo, scontato coi rintocchi della scorsa mezzanotte.

Cosa però accade davvero, in quel secondo intercalato fra la fine di un giorno e l’inizio di un altro? Nulla di singolare, in realtà: chi dormiva ha continuato a dormire, e chi per qualunque ragione era sveglio avrà continuato a vegliare. I computer e tutti gli altri marchingegni che hanno un timer incorporato erano stati per dir così avvisati, e si sono messi rapidamente in pari. Solo se stanotte fosse accaduta la favola di Cenerentola, le conseguenze avrebbero potuto essere rimarchevoli: forse la fanciulla avrebbe fatto in tempo a recuperare la scarpetta in un secondo, e così non vi sarebbe stato nessun nuovo incontro col principe azzurro.

Ma, favole a parte, di solito va così: se noi rallentiamo, gli orologi continuano imperterriti a battere il tempo. Se invece rallenta la Terra, sono gli orologi a doversi adeguare. Perché? Perché in questione non è il tempo, ma un rapporto fra movimenti, quello della Terra, e quello degli orologi. E finora c’è venuto comodo di regolare il secondo sul primo, e non viceversa. Questo tempo, diceva il filosofo francese Bergson, è però interamente spazializzato: di «propriamente temporale» non ha nulla. Con esso noi stabiliamo solo che quando un certo corpo (la Terra) si trova in una certa posizione, la lancetta si trova in un certo punto del quadrante: per gli usi ordinari della vita basta e avanza. Da Einstein in poi, l’immagine scientifica del tempo si è però maledettamente complicata: non c’è più alcun tempo «assoluto, autentico e matematico» che scorra «uniformemente e indipendentemente da qualsiasi riferimento ad oggetti esterni», come credeva Newton, e come noi siamo tuttora abituati a pensare, ma anche nelle complicazioni della fisica contemporanea quello del tempo rimane un problema di misura, di relazioni fra grandezze, di rapporto fra moti e posizioni nello spazio. Certo, per la più gran parte degli uomini è divenuto misterioso quello che la fisica ci insegna, che cioè lo scorrere del tempo possa rallentare o accelerare a seconda della velocità con cui si sposta l’orologio che lo misura; ma per i filosofi, da Agostino in poi, è ancor più problematico anche solo capire cosa significhi «scorrere», in relazione al tempo: dov’è che il tempo scorre, o trascorre? Dove si raccoglie, se si raccoglie, il tempo trascorso?

Mentre i fisici facevano la loro rivoluzione, anche i filosofi contemporanei – Heidegger e Derrida, in primis – hanno provato a fare la loro, cercando di mettere in dubbio il primato del «presente», cioè l’idea che «essere» significasse sempre e soltanto «esser presente», sicché tutto quel che c’è, c’è e non può esserci se non «presentemente».  Erodere un simili primato non ha significato dire che in qualche modo anche il passato e il futuro ci sono, ma al contrario che nulla, nemmeno ciò che è ora presente, c’è mai veramente del tutto, pienamente e assolutamente.  È venuto giù il cielo, cioè quella dimensione che i filosofi hanno provato a pensare come ciò che non passa, mentre tutto passa. «Ogni cosa nel cielo intelligibile – diceva il filosofo Plotino  – è anche cielo, e lì la terra è cielo, come lo sono anche gli animali, le piante, gli uomini e il mare». Il cielo intellegibile di Plotino era appunto il presente eterno, che contiene tutto il tempo e ogni cosa che passa. Da quando non c’è più, le cose passano senza un cielo in cui possano tutte raccogliersi e radunarsi. Il nostro tempo non è ormai che un infinito spreco di tempo.

Cosa rimane, tuttavia? Rimane il desiderio di un’altra esperienza del tempo. Nella sua brevissima Storia dell’eternità, Jorge Luis Borges l’ha descritta come una sorta di piccola eternità in formato tascabile, di cui si ha improvvisa, saltuaria percezione quando le cose – le case, una calma notte, un limpido muretto – tornano quiete, silenziose, identiche a come già una volta sono state. Lì, scrive Borges, il tempo si disintegra e si rivela un’illusione.

Forse la conclusione è frettolosa: è proprio quando il tempo non va subito via, ma si ferma e indugia un poco e quasi ritorna, e così riempie di senso un attimo della nostra vita, che se ne dà vera esperienza. Basta cioè l’esile intercalare di un secondo; ma dobbiamo mettercelo noi, più che l’International Earth Rotation di Parigi.

(Il Messaggero, 1 luglio 2015)