Il titolo non lascia spazio a dubbi: l’ultimo libro di Biagio De Giovanni è un «Elogio della sovranità politica» (Editoriale Scientifica, pag. 330, € 20). E poiché, secondo l’Autore, l’attacco alla sovranità indebolisce complessivamente l’azione politica, manca poco che il libro non sia un elogio della politica tout court. Ce n’è bisogno? Certo che ce n’è bisogno. Non v’è chi non veda infatti quanto la politica non sia solo screditata, ma sempre meno efficace nella capacità di governare le cose degli uomini. Di solito si pensa che sia inefficace perché screditata, cioè corrotta e autoreferenziale. Se ci si sposta sul piano teorico, e si guarda la storia dei concetti – il libro di De Giovanni aiuta a farlo in maniera magistrale – si capisce che è piuttosto vero il contrario: è sempre più inefficace e quindi screditata, più facilmente distolta dai suoi veri compiti e piegata ad interessi personali, non avendone di più alti da servire.
Ripensare la sovranità ha dunque anche il significato di restituire alla politica la sua grandezza, il suo vero formato (almeno in idea). La sovranità è stata infatti la pietra dello scandalo del pensiero politico novecentesco. Ogni sforzo è stato fatto per ricondurla a «potente arbitrio, nemico del diritto», come scrive De Giovanni. Tutto il male, tutte le tragedie del secolo dipenderebbero cioè dalla sopravvivenza di questo arcigno residuo politico-teologico, e tutto il bene verrebbe invece dalla sua eliminazione. A questa veduta L’Autore oppone un’obiezione semplice ma decisiva: fra sovranità e democrazia vi è un nesso, rinsaldatosi storicamente dentro le forme dello Stato moderno, che si fa fatica a non considerare indissolubile. Ci si rende dunque conto che, attaccando la sovranità, si mette in pericolo la democrazia? Ebbene, il salto all’attualità è, forse, un po’ troppo brusco, (ma forse no, se si considera che il pensiero neo-costituzionalista, che oggi impazza, è tra gli obiettivi polemici del libro) – ad ogni modo: non è forse un problema, un problema di democrazia, di «potere del popolo» e non dei giudici, se, dopo l’introduzione del pareggio in bilancio in Costituzione, e dopo un paio di sentenze della Corte costituzionale, prima sulle pensioni, ora sul blocco degli stipendi pubblici, i margini di intervento per l’Esecutivo in materia di politica economica vanno palesemente restringendosi dentro il poco spazio concesso dall’attività interpretativa della Corte? E che dire poi del livello sovranazionale? Non sottrae anch’esso sovranità agli Stati? E come giudicare questo processo, se al più alto livello su cui si sposta la decisione non interviene il soccorso di una vera legittimazione politica? E a chi la si potrebbe chiedere, in mancanza di areopaghi internazionali, o in dubbio circa la loro efficacia, se non ancora agli Stati nazionali? Non è da essi e per essi che i popoli si sentono rappresentati?
Ma De Giovanni ha scritto anzitutto un libro di teoria politica. Che, per quanto aiuti a proporre simili domande, rimane attestato su un livello più alto di confronto teorico. Resta però l’intento polemico, rivolto sia verso gli uni, che paiono non avere chiara consapevolezza di ciò che all’invenzione della sovranità si è potuto storicamente legare, che verso gli altri, cioè verso quanti non nutrono vera preoccupazione per le sorti della democrazia giuridico-liberale,la sola che abbiamo finora potuto realizzare, a cui oppongono velleitariamente un’altra, dai contorni tuttavia imprecisati.
È bene allora dar conto anzitutto di questa intenzione, perché tutto il resto – la presentazione storica dell’emersione del principio di sovranità tra Bodin e Hobbes; la sua costruzione come forza e forma di mediazione reale da Rosseau a Kant a Hegel; gli «spostamenti laterali» su terreni non propriamente politico-giuridici, con Freud e Kantorovicz, e gli equivoci connessi; il dibattito italiano, e quello tedesco, sulle forme del costituzionalismo; il falso dilemma Kelsen-Schmitt; la grande ondata decostruttiva alimentata con i pensieri di Marx, Nietzsche, Foucault, giù giù fino ai giorni nostri – tutto il resto, che pure è tanto, è però inserito in un percorso non cronologico ma concettuale che quella polemica sostiene.
Con chi dunque polemizza De Giovanni? Da una parte contro i cantori dello jus senza più fonte sovrana, il cui catalogo di diritti finisce però col «volteggiare per l’aria, più astratto di ogni giusnaturalismo del passato» ; dall’altra contro l’ondata della biopolitica, che immagina di liberare la vita da ogni sovrastruttura di regole. Agli uni e agli altri De Giovanni rimprovera fermamente di aver ridotto indebitamente la sovranità a un puro nodo di potere e arbitrarietà, e in questo modo di aver gettato alle ortiche il più potente principio di costruzione politica che la modernità aveva saputo, nei secoli, affinare. Per sostituirlo con cosa, questa è la desolata considerazione finale, non è più chiaro a nessuno.
(Il Mattino, 1 luglio 2015)