Se Madre Terra rallenta, toccherà aspettarla. Non è la prima volta: non sarà l’ultima: poiché i nostri orologi si regolano sulla rotazione della Terra intorno al suo asse, e poiché il nostro Pianeta impiega non ventiquattro ore esatte per compiere il suo giro, ma qualche millesimo di secondo in più, pazienta un anno, pazienta due, a un certo punto i sacerdoti internazionali delle misure astronomiche terrestri hanno imposto agli orologi atomici, e di conseguenza anche ai nostri, lo stop di un secondo, scontato coi rintocchi della scorsa mezzanotte.
Cosa però accade davvero, in quel secondo intercalato fra la fine di un giorno e l’inizio di un altro? Nulla di singolare, in realtà: chi dormiva ha continuato a dormire, e chi per qualunque ragione era sveglio avrà continuato a vegliare. I computer e tutti gli altri marchingegni che hanno un timer incorporato erano stati per dir così avvisati, e si sono messi rapidamente in pari. Solo se stanotte fosse accaduta la favola di Cenerentola, le conseguenze avrebbero potuto essere rimarchevoli: forse la fanciulla avrebbe fatto in tempo a recuperare la scarpetta in un secondo, e così non vi sarebbe stato nessun nuovo incontro col principe azzurro.
Ma, favole a parte, di solito va così: se noi rallentiamo, gli orologi continuano imperterriti a battere il tempo. Se invece rallenta la Terra, sono gli orologi a doversi adeguare. Perché? Perché in questione non è il tempo, ma un rapporto fra movimenti, quello della Terra, e quello degli orologi. E finora c’è venuto comodo di regolare il secondo sul primo, e non viceversa. Questo tempo, diceva il filosofo francese Bergson, è però interamente spazializzato: di «propriamente temporale» non ha nulla. Con esso noi stabiliamo solo che quando un certo corpo (la Terra) si trova in una certa posizione, la lancetta si trova in un certo punto del quadrante: per gli usi ordinari della vita basta e avanza. Da Einstein in poi, l’immagine scientifica del tempo si è però maledettamente complicata: non c’è più alcun tempo «assoluto, autentico e matematico» che scorra «uniformemente e indipendentemente da qualsiasi riferimento ad oggetti esterni», come credeva Newton, e come noi siamo tuttora abituati a pensare, ma anche nelle complicazioni della fisica contemporanea quello del tempo rimane un problema di misura, di relazioni fra grandezze, di rapporto fra moti e posizioni nello spazio. Certo, per la più gran parte degli uomini è divenuto misterioso quello che la fisica ci insegna, che cioè lo scorrere del tempo possa rallentare o accelerare a seconda della velocità con cui si sposta l’orologio che lo misura; ma per i filosofi, da Agostino in poi, è ancor più problematico anche solo capire cosa significhi «scorrere», in relazione al tempo: dov’è che il tempo scorre, o trascorre? Dove si raccoglie, se si raccoglie, il tempo trascorso?
Mentre i fisici facevano la loro rivoluzione, anche i filosofi contemporanei – Heidegger e Derrida, in primis – hanno provato a fare la loro, cercando di mettere in dubbio il primato del «presente», cioè l’idea che «essere» significasse sempre e soltanto «esser presente», sicché tutto quel che c’è, c’è e non può esserci se non «presentemente». Erodere un simili primato non ha significato dire che in qualche modo anche il passato e il futuro ci sono, ma al contrario che nulla, nemmeno ciò che è ora presente, c’è mai veramente del tutto, pienamente e assolutamente. È venuto giù il cielo, cioè quella dimensione che i filosofi hanno provato a pensare come ciò che non passa, mentre tutto passa. «Ogni cosa nel cielo intelligibile – diceva il filosofo Plotino – è anche cielo, e lì la terra è cielo, come lo sono anche gli animali, le piante, gli uomini e il mare». Il cielo intellegibile di Plotino era appunto il presente eterno, che contiene tutto il tempo e ogni cosa che passa. Da quando non c’è più, le cose passano senza un cielo in cui possano tutte raccogliersi e radunarsi. Il nostro tempo non è ormai che un infinito spreco di tempo.
Cosa rimane, tuttavia? Rimane il desiderio di un’altra esperienza del tempo. Nella sua brevissima Storia dell’eternità, Jorge Luis Borges l’ha descritta come una sorta di piccola eternità in formato tascabile, di cui si ha improvvisa, saltuaria percezione quando le cose – le case, una calma notte, un limpido muretto – tornano quiete, silenziose, identiche a come già una volta sono state. Lì, scrive Borges, il tempo si disintegra e si rivela un’illusione.
Forse la conclusione è frettolosa: è proprio quando il tempo non va subito via, ma si ferma e indugia un poco e quasi ritorna, e così riempie di senso un attimo della nostra vita, che se ne dà vera esperienza. Basta cioè l’esile intercalare di un secondo; ma dobbiamo mettercelo noi, più che l’International Earth Rotation di Parigi.
(Il Messaggero, 1 luglio 2015)