«Non capisco l’antimafia come categoria»: così dice Lucia Borsellino, nell’intervista rilasciata a «Repubblica», subito dopo avere lasciato la Giunta regionale siciliana. Dimissioni in qualche modo attese, nel senso che il disagio raccontato dalla figlia del giudice Borsellino data ormai da alcuni mesi. Ma non fa per questo meno male ascoltare dalla sua voce la richiesta di non essere coinvolta nelle commemorazioni del 19 luglio, giorno in cui il padre Paolo perse la vita, ventitré anni fa, per un vile attentato mafioso, che fu capace di scuotere le fondamenta stesse della prima Repubblica.
Lucia Borsellino lascia per dissapori, incomprensioni, per un «abbassamento di tensione anche morale» nel governo siciliano; perché si sono persi di vista gli obiettivi, aggiunge ancora. Ma al di là delle specifiche vicende che l’hanno spinta a concludere anzitempo la sua esperienza politica, c’è anche, nelle sue parole, un allarme più generale, che concerne il significato di un impegno vero, rigoroso, intransigente, per la legalità. Lucia Borsellino lo dice con parole misurate e molto sobrie, ma non per questo meno nette. L’antimafia non può essere una categoria, dice, non può essere una sovrastruttura sociale, la divisa che qualcuno indossa e con la quale esercita con lucro economico o politico una professione. A volte può bastare un cognome, Lucia Borsellino lo sa e non lo può consentire. Lo sa perché ha fatto esperienza di cosa significhi essere tirati da una parte o dall’altra in virtù del solo fatto di portare un cognome. Di certo non significa combattere la mafia: non può anzi esserne nemmeno il surrogato. Proprio non funziona, non è così che si fa e in ogni caso non è così che Lucia Borsellino vuole fare.
Se ne va, dunque, ma restano le sue parole e la sua amarezza, e con quelle bisogna fare i conti. Perché invece di andare con la memoria a Sciascia e alla ruvida polemica contro i professionisti dell’Antimafia, che viene richiamata ogni qual volta occorre dire che tutti, anche i più esperti conoscitori di cose di mafia possono sbagliarsi, è forse più sensato allineare qualche altro segnale a fianco di quello mandato da Lucia Borsellino con le sue dimissioni.
Perché di segnali ve ne sono, purtroppo. Cosa infatti si deve pensare della questione di recente sollevata dal Presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, a proposito della gestione dei beni confiscati alle mafie? Il minimo che si deve pretendere, al riguardo, è che allo Stato riesca di amministrare quei beni meglio di quanto non facciano le organizzazioni criminali. Ma va davvero così? No. E sulla materia degli incarichi agli amministratori giudiziari è un eufemismo dire che l’incertezza regna sovrana. Quel che in effetti regna è una gestione opaca, sia nella determinazione dei compensi che negli affidamenti degli incarichi, con risultati che dal punto di vista della redditività del bene lasciano molto a desiderare (altro eufemismo). Ma il rischio che l’Antimafia significhi spartirsi tra pochi la gestione dei beni che lo Stato sottrae alle mafie esiste eccome. Lo ha capito per tempo il ministro Orlando, che ha predisposto un calmiere delle tariffe, ancora però in attesa di un parere del Consiglio di Stato.
Altro, brutto segnale è giunto in queste ore. L’ex componente dell’Antimafia ed ex parlamentare, Lorenzo Diana – molto noto, come recitano le Agenzie, per il suo impegno e la sua lotta contro i clan, tanto da essere citato da Roberto Saviano nel suo «Gomorra» dalla parte giusta – è indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli per concorso esterno in associazione mafiosa, per una storia di appalti alla cooperativa Concordia. Una storia clamorosa, che forse si sgonfierà presto e che in ogni caso non autorizza nessuno a pronunciare o anche solo insinuare giudizi di colpevolezza. Ma colpisce il commento di Diana: «Mi sembra – ha detto – di essere tra un sogno e Scherzi a parte». Questo commento può significare, purtroppo, due cose: la prima, che l’accusa è talmente improbabile che non ci si può credere; la seconda, che è talmente improbabile che un simbolo della lotta alle mafie sia inquisito che non ci si può credere.
Non è la stessa cosa, perché nel secondo caso quelle parole indicano, volenti o nolenti, proprio ciò che Lucia Borsellino dice di non poter capire: come l’Antimafia sia divenuta una sovrastruttura, cioè una copertura simbolica che abilita alcuni e solo alcuni a sostenere certe parti, accendendo un’ipoteca morale su chiunque provi a metterle in discussione.
Lorenzo Diana ha ricevuto nel 2008 il Premio Borsellino per il suo impegno. Il premio è sicuramente meritato. Sull’uso del cognome vale per tutti l’avviso della figlia Lucia.
(Il Mattino, 4 luglio 2015)