E intanto, nelle aule parlamentari, avanza la riforma della pubblica amministrazione. Riforma complessa, difficile, che tocca posizioni e interesse consolidati. Riforma necessaria, ineludibile, che deve consentire al Paese un profondo svecchiamento dell’organizzazione dei servizi pubblici. Riforma strampalata, però, se nel mentre si approva il disegno di legge si imbarcano emendamenti che sembrano piovuti da Marte.
Con l’ultimo passaggio parlamentare, è passato difatti un emendamento che stabilisce il «superamento del voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso». Che cosa significa codesto superamento? Che mentre finora per entrare nei ranghi della pubblica amministrazione, o partecipare alle procedure concorsuali, era sufficiente il requisito del titolo di studio, in base all’emendamento appena approvato quel requisito non conta più. O per meglio dire: conta, ma conta pure (e conta soprattutto) da quale Ateneo provenga il candidato, quale istituzione abbia cioè rilasciato il titolo.
La laurea non metterebbe cioè più i laureati su un piede di parità. Ma la domanda che evidentemente nessuno si è fatto in Parlamento è se almeno, nell’accesso al sistema universitario nazionale, gli studenti italiani siano tutti su un piede di parità. Se sì, nulla quaestio: vi saranno allora quelli che hanno scelto un Ateneo più prestigioso, il cui corso di studi è probabilmente più difficile e selettivo, e la riforma della pubblica amministrazione in corso di approvazione premierà giustamente questa scelta. Ma se così non è, e se invece gli studenti italiani scelgono anche in considerazione di altri fattori: la vicinanza geografica, ad esempio, oppure il costo delle tasse universitarie, allora altro che premio! Una riforma così congegnata lede il principio di eguaglianza e penalizza coloro che per necessità e non per scelta (in base cioè al bisogno, se si può ancora usare questa parola) devono più modestamente preferire un Ateneo di serie B.
Ma esistono, poi, gli Atenei di serie B? E come vengono classificati? In base a cosa? La questione della valutazione del sistema universitario nazionale è una questione aperta, discussa, controversa. È chiaro che un emendamento come quello approvato dal Parlamento la salta a piè pari: fa finta che non vi siano problemi da quel lato, e prepara il passo successivo: prendere una classifica qual si sia – meglio internazionale, suggerisco, dal momento che un pizzico di esterofilia non guasta mai, quando si tratta di valutazione del merito – e su quella base mandare alcuni Atenei in Champions League, e condannare gli altri all’inferno dei play off. Di classifiche in effetti ne circolano già, e curiosamente le Università del Mezzogiorno non occupano mai, o quasi mai, le prime posizioni: sarà il caldo? Sarà la pigrizia dei meridionali? Saranno tare ereditarie o forse profondi vizi antropologici? Oppure c’entrerà qualcosa il più basso livello economico, sociale e civile in cui versano larghe parti del Sud d’Italia. Com’è, come non è, una norma del genere non si propone certo di cambiare le cose, di dare una mano al Mezzogiorno e di valorizzarne le risorse umane, cercando magari di scoraggiare la fuga di cervelli. Tutt’al contrario: favorisce la fuga, anzi la invoglia. E così quella «desertificazione umana» di cui parlava l’ultimo rapporto presentato dallo Svimez qualche mese fa trova un nuovo, simpatico motivo per consolidarsi. Perché chi vuole studiare dovrebbe infatti restare quaggiù? Perché non iscriversi in qualche università del Nord meglio piazzata in classifica, che dà quindi maggiori probabilità di trovare lavoro nell’amministrazione pubblica? (O forse si tratta del solito lamento leghista, del fatto che cioè ci sono troppi impiegati statali meridionali che tolgono lavoro a quelli del Nord, per cui la manina parlamentare sta cercando di scoraggiare nuovi ingressi?).
Intendiamoci: nonostante la febbre di riforme che da anni possiede il Paese nel campo dell’istruzione, della formazione superiore e della ricerca, e spinga il legislatore a cambiare le regole in continuazione, nonostante questo alacre spirito riformatore l’università italiana continua ad avere non pochi problemi. Per alcuni, l’Italia ha pochi laureati; per altri non ne ha abbastanza di qualità. Per alcuni, si fa troppo poco per il diritto allo studio; per altri va abolito il valore legale dello studio. Per alcuni, l’attuale sistema di valutazione non funziona; per altri, il problema è se mai la sua implementazione. Si potrebbe continuare, ma per quanto lungo fosse l’elenco delle questioni intorno a cui si ragiona, non se ne troverebbe nessuna a cui risponda l’improvvido emendamento approvato ieri. Il quale prova solo a introdurre un principio di differenziazione fra le università italiane nella maniera più maldestra possibile: credendo forse di premiare il merito, in realtà premiando la lotteria della fortuna che bacia quello che può permettersi il Politecnico di Torino o Milano Bicocca, e condanna tutti gli altri che non hanno le stesse possibilità. Così è, se vi pare.
(Il Mattino, 3 luglio 2015)
Quando ci si chiede come mai il caffé è più buono a Napoli si recita spesso la cantilena: sarà l’aria, sarà l’acqua, sarà la macchinetta… sarà il caffé?
Comunque è scritto: …profondi vizi antropologici… e il più basso livello economico, sociale e civile in cui versano larghe parti del Sud d’Italia.