In principio era il Verbo, e siccome era in principio il Verbo non fu intercettato. Oppure lo fu? Oppure lo Spirito è la terza persona che carpisce le comunicazioni fra il Padre e il Figlio?
Forse il prologo in cielo ci allontana di molto dai problemi che abbiamo in terra, ma la materia delle intercettazioni si sta ormai complicando proprio come, un tempo, avveniva nelle più sottili disquisizioni teologiche. E nel Parlamento italiano le «quaestiones disputate» aumentano. Perché non basta certo dire che l’uno è contrario alle intercettazioni, e l’altro favorevole, che quello vuole i giornalisti in carcere, e quell’altro vuole invece i politici alla gogna (mediatica). Come sempre quando la materia è complessa, non è facile tracciare con nettezza linee di demarcazione. Giusto un grillino può pensare che qualunque intervento normativo in materia è censura, inganno, frode e raggiro. Lo pensa, il grillino, non perché abbia la sapienza giuridica per apprezzare l’attuale normativa, ma perché vede come vanno le cose oggi e ci sguazza: sui giornali finisce infatti ogni frase, mezza frase o sputo di frase che sia stato intercettato, indipendentemente da qualunque rilevanza, pertinenza o continenza.
Ma che sono poi queste parole: solo termini da Azzeccagarbugli? In verità dovrebbero essere qualcosa di più. Dovrebbe cioè fare qualche differenza se il contenuto dell’intercettazione abbia una qualche rilevanza penale oppure no; se, pur non avendo rilevanza penale, abbia almeno pertinenza con la materia oggetto di indagine; se infine, nel pubblicarla ci si è contenuti all’essenziale, o ci si è posti perlomeno un problema – come dire? – di stile. E invece, di fatto, tutte queste distinzioni saltano, e nell’oceano di parole in cui pesca la rete delle intercettazioni viene a galla di tutto, la notizia di reato e la pura maldicenza, fatti di interesse pubblico e circostanze strettamente private: il serio e il faceto, il nobile e l’ignobile, l’educato e lo sguaiato.
Ma il cittadino deve sapere. È così: dai tempi in cui fu inventata, or non è molto, l’opinione pubblica. Solo che ormai è implicita la clausola libera-tutti: sapere ad ogni costo. Con ogni mezzo. Con ogni possibile intercettazione. E in effetti: volete che, faccio per dire, il cittadino condomino A non godrebbe come una salamandra se potesse sapere tutto del cittadino condomino B? Ma è questo un buon motivo per autorizzare ogni genere di captazione di pensieri parole e opere di B (attraverso, che so, l’intercettazione di C), e magari farci su una bella assemblea condominiale, o almeno l’affissione di un avviso nell’androne?
Ma, si dice, c’è una bella differenza fra le vicende di un condominio e fatti e circostanze di interesse pubblico. E certo che la differenza c’è: il punto però è proprio questo, che nessuno sembra apprezzarle, e che tutto allo stesso titolo (cioè: a qualunque titolo) finisce sui giornali.
E come ci finisce? Così: il giudice delle indagini preliminari, il quale ha autorizzato l’attività di intercettazione, dovrebbe poi disporre lo stralcio di quelle irrilevanti. E invece non stralcia un bel nulla: non solo perché il gossip vuole la sua parte, ma perché il magistrato vuole un po’ di pubblicità, e così tutto il materiale raccolto – pescato, come si dice, a strascico – diviene ipso facto pubblico e pubblicabile. Si può chiedere poi al giornalista di fare penitenza e astenersi, se il giudice non si è astenuto? Ovviamente no, e dunque il processo è già bello che cominciato sui giornali, a volte addirittura concluso, ancor prima di cominciare in tribunale.
Noi sappiamo così cosa pensa ad esempio Matteo Renzi di Enrico Letta: che è un incapace. Non è un giudizio politico: è una confidenza più o meno riservata, scherzosa, sbrigativa o sbruffona – vallo a sapere: quando trascrivete, non riuscite mica a trascrivere il tono con cui la cosa viene detta – confidenza che il segretario del Pd fa al generale della guardia di finanza Adinolfi. Rilevanza, pertinenza, continenza? Zero. Però Renzi si trova intercettato perché Adinolfi è intercettato, e lo è in vicende che evidentemente non riguardano la formazione del governo, o i rapporti interni al Pd, o i quozienti intellettivi dei politici italiani. Ma è chiaro che se le intercettazioni devono servire a delineare la personalità dell’intercettato, se valgono cioè criteri tanto laschi, non c’è motivo di stralciare neanche le considerazioni sulla scelta di un gelato al pistacchio, figuriamoci una cattiveria di Renzi (per quanto privata, informale, amichevole) ai danni del suo predecessore.
In tutta questa storia c’entrano assai poco, naturalmente, le intercettazioni come strumento investigativo. C’entra invece la costruzione di una sfera pubblica retta da regole di civiltà giuridica, che tutelino i diritti fondamentali: alla riservatezza delle comunicazioni, al rispetto della vita privata e familiare, al rispetto del domicilio privato, al rispetto dei dati di carattere personale.
Questa tutela è messa a rischio anche da un altro genere di attività: la registrazione nascosta, audio o video, con la quale si carpiscono informazioni, o anche solo mere opinioni. C’è capitato, per esempio, Valerio Onida, giudice della Corte Costituzionale. Una finta Margherita Hack gli ha strappato al telefono giudizi sul lavoro dei saggi, nominati nel 2013 da Napolitano, che sono stati ovviamente subito diffusi (da Giuseppe Cruciani, nel programma «La zanzara»). Che genere di giornalismo è questo? Difficile stabilirlo: cosa pensasse Onida dei saggi era o no una notizia? Per molti basta questo, indipendentemente dal modo in cui sia stata ottenuta (o provocata). Sia chiaro: l’inside journalism – il reperimento di notizie condotto sotto mentite spoglie – appartiene alla migliore tradizione della professione. Però dovrebbe sempre valere la possibilità di indicare dei limiti, per quanto ampi siano: se punto una pistola alla tempia di Onida, magari mi dice pure dell’altro, o no? È evidente però che non si può fare. Domando allora: c’è un punto oltre il quale l’inganno diviene una violenza? Non ogni registrazione nascosta, d’altra parte, è uguale: un conto è registrare per sapere, un altro per difendersi, un altro ancora per denunciare, un ultimo caso è registrare per provocare: non per scoprire un reato, ma per indurlo a commetterlo (e poi incastrare il malcapitato). Possibile che stiano tutti sullo stesso piano?
La legge che è in discussione in Parlamento, e che è chiamata a disciplinare simili aspetti, ha sicuramente un difetto: è una legge. Deve cioè essere scritta in modo da graduare, proporzionare, bilanciare, e infine consentire o non consentire. Queste distinzioni, però, se siete del partito che «il cittadino deve sapere!» (a qualunque costo, con qualunque mezzo, con qualunque intercettazione), vi riusciranno incomprensibili o ipocrite: sottigliezze teologiche, buone per imbrogliare i gonzi. E così siamo daccapo. Ma perdonatemi: non ci vuole lo spirito santo per sapere che, se la pensate così, i gonzi, purtroppo, siete voi.
(Il Mattino, 26 luglio 2015)