Archivi del giorno: luglio 26, 2015

Perché le intercettazioni non fanno la civiltà

Acquisizione a schermo intero 26072015 120423.bmpIn principio era il Verbo, e siccome era in principio il Verbo non fu intercettato. Oppure lo fu?  Oppure lo Spirito è la terza persona che carpisce le comunicazioni fra il Padre e il Figlio?

Forse il prologo in cielo ci allontana di molto dai problemi che abbiamo in terra, ma la materia delle intercettazioni si sta ormai complicando proprio come, un tempo, avveniva nelle più sottili disquisizioni teologiche. E nel Parlamento italiano le «quaestiones disputate» aumentano. Perché non basta certo dire che l’uno è contrario alle intercettazioni, e l’altro favorevole, che quello vuole i giornalisti in carcere, e quell’altro vuole invece i politici alla gogna (mediatica). Come sempre quando la materia è complessa, non è facile tracciare con nettezza linee di demarcazione. Giusto un grillino può pensare che qualunque intervento normativo in materia è censura, inganno, frode e raggiro. Lo pensa, il grillino, non perché abbia la sapienza giuridica per apprezzare l’attuale normativa, ma perché vede come vanno le cose oggi e ci sguazza: sui giornali finisce infatti ogni frase, mezza frase o sputo di frase che sia stato intercettato,  indipendentemente da qualunque rilevanza, pertinenza o continenza.

Ma che sono poi queste parole: solo termini da Azzeccagarbugli? In verità dovrebbero essere qualcosa di più. Dovrebbe cioè fare qualche differenza se il contenuto dell’intercettazione abbia una qualche rilevanza penale oppure no; se, pur non avendo rilevanza penale, abbia almeno pertinenza con la materia oggetto di indagine; se infine, nel pubblicarla ci si è contenuti all’essenziale, o ci si è posti perlomeno un problema – come dire? – di stile. E invece, di fatto, tutte queste distinzioni saltano, e nell’oceano di parole in cui pesca la rete delle intercettazioni viene a galla di tutto, la notizia di reato e la pura maldicenza, fatti di interesse pubblico e circostanze strettamente private: il serio e il faceto, il nobile e l’ignobile, l’educato e lo sguaiato.

Ma il cittadino deve sapere. È così: dai tempi in cui fu inventata, or non è molto, l’opinione pubblica. Solo che ormai è implicita la clausola libera-tutti: sapere ad ogni costo. Con ogni mezzo. Con ogni possibile intercettazione. E in effetti: volete che, faccio per dire, il cittadino condomino A non godrebbe come una salamandra se potesse sapere tutto del cittadino condomino B? Ma è questo un buon motivo per autorizzare ogni genere di captazione di pensieri parole e opere di B (attraverso, che so, l’intercettazione di C), e magari farci su una bella assemblea condominiale, o almeno l’affissione di un avviso nell’androne?

Ma, si dice, c’è una bella differenza fra le vicende di un condominio e fatti e circostanze di interesse pubblico. E certo che la differenza c’è: il punto però è proprio questo, che nessuno sembra apprezzarle, e che tutto allo stesso titolo (cioè: a qualunque titolo) finisce sui giornali.

E come ci finisce? Così: il giudice delle indagini preliminari, il quale ha autorizzato l’attività di intercettazione, dovrebbe poi disporre lo stralcio di quelle irrilevanti. E invece non stralcia un bel nulla: non solo perché il gossip vuole la sua parte, ma perché il magistrato vuole un po’ di pubblicità, e così tutto il materiale raccolto – pescato, come si dice, a strascico – diviene ipso facto pubblico e pubblicabile. Si può chiedere poi al giornalista di fare penitenza e astenersi, se il giudice non si è astenuto? Ovviamente no, e dunque il processo è già bello che cominciato sui giornali, a volte addirittura concluso, ancor prima di cominciare in tribunale.

Noi sappiamo così cosa pensa ad esempio Matteo Renzi di Enrico Letta: che è un incapace. Non è un giudizio politico: è una confidenza più o meno riservata, scherzosa, sbrigativa o sbruffona – vallo a sapere: quando trascrivete, non riuscite mica a trascrivere il tono con cui la cosa viene detta – confidenza che il segretario del Pd fa al generale della guardia di finanza Adinolfi. Rilevanza, pertinenza, continenza? Zero. Però Renzi si trova intercettato perché Adinolfi è intercettato, e lo è in vicende che evidentemente non riguardano la formazione del governo, o i rapporti interni al Pd, o i quozienti intellettivi dei politici italiani. Ma è chiaro che se le intercettazioni devono servire a delineare la personalità dell’intercettato, se valgono cioè criteri tanto laschi, non c’è motivo di stralciare neanche le considerazioni sulla scelta di un gelato al pistacchio, figuriamoci una cattiveria di Renzi (per quanto privata, informale, amichevole) ai danni del suo predecessore.

In tutta questa storia c’entrano assai poco, naturalmente, le intercettazioni come strumento investigativo. C’entra invece la costruzione di una sfera pubblica retta da regole di civiltà giuridica, che tutelino i diritti fondamentali: alla riservatezza delle comunicazioni, al rispetto della vita privata e familiare, al rispetto del domicilio privato, al rispetto dei dati di carattere personale.

Questa tutela è messa a rischio anche da un altro genere di attività: la registrazione nascosta, audio o video, con la quale si carpiscono informazioni, o anche solo mere opinioni. C’è capitato, per esempio, Valerio Onida, giudice della Corte Costituzionale. Una finta Margherita Hack gli ha strappato al telefono giudizi sul lavoro dei saggi, nominati nel 2013 da Napolitano, che sono stati ovviamente subito diffusi (da Giuseppe Cruciani, nel programma «La zanzara»). Che genere di giornalismo è questo? Difficile stabilirlo: cosa pensasse Onida dei saggi era o no una notizia? Per molti basta questo, indipendentemente dal modo in cui sia stata ottenuta (o provocata). Sia chiaro: l’inside journalism – il reperimento di notizie condotto sotto mentite spoglie – appartiene alla migliore tradizione della professione. Però dovrebbe sempre valere la possibilità di indicare dei limiti, per quanto ampi siano: se punto una pistola alla tempia di Onida, magari mi dice pure dell’altro, o no? È evidente però che non si può fare. Domando allora: c’è un punto oltre il quale l’inganno diviene una violenza? Non ogni registrazione nascosta, d’altra parte, è uguale: un conto è registrare per sapere, un altro per difendersi, un altro ancora per denunciare, un ultimo caso è registrare per provocare: non per scoprire un reato, ma per indurlo a commetterlo (e poi incastrare il malcapitato). Possibile che stiano tutti sullo stesso piano?

La legge che è in discussione in Parlamento, e che è chiamata a disciplinare simili aspetti, ha sicuramente un difetto: è una legge. Deve cioè essere scritta in modo da graduare, proporzionare, bilanciare, e infine consentire o non consentire. Queste distinzioni, però, se siete del partito che «il cittadino deve sapere!» (a qualunque costo, con qualunque mezzo, con qualunque intercettazione), vi riusciranno incomprensibili o ipocrite: sottigliezze teologiche, buone per imbrogliare i gonzi. E così siamo daccapo. Ma perdonatemi: non ci vuole lo spirito santo per sapere che, se la pensate così, i gonzi, purtroppo, siete voi.

(Il Mattino, 26 luglio 2015)

Il salvagente dei naufraghi

Turner - Scene

E se il Pd candidasse Antonio Bassolino al Comune di Napoli? La damnatio memoriae alla quale è stato prematuramente condannato l’ultimo leader politico che ha avuto la sinistra in Campania e nel Mezzogiorno è ormai finita da tempo. Eppure sarebbe un non piccolo paradosso se, dopo aver portato De Luca alla regione, il Pd si affidasse davvero a Bassolino per Palazzo San Giacomo.

Non è però solo questione di lancette di orologi che tornano indietro, o di nostalgia canaglia. È che il Pd non è più riuscito a conquistare, dopo la debacle del 2011, quella centralità politica e programmatica che gli consentirebbe, pur in mancanza di forti e riconosciute leadership, di proporre credibilmente un suo dirigente politico come interprete di una nuova stagione.

Così annaspa. E a poco meno di un anno dalle elezioni comunali – quando si voterà anche a Salerno, Benevento e Caserta, e in molte altre importanti città italiane, sicché il voto prenderà facilmente il significato di un test politico nazionale – a poco meno di un anno ha ancora poche idee ma confuse.

Da una parte, c’è chi chiede di non abbandonare il metodo delle primarie. Certo, non sono più un elemento costitutivo dell’identità del partito democratico, Renzi stesso ha fatto capire che è disposto a riconsiderarne l’applicazione, in certi contesti territoriali non rappresentano affatto garanzia di qualità, ma sta il fatto che proprio a causa della debolezza degli organismi di partito le primarie consentono di «esternalizzare», per dir così la scelta, e cioè di non portarne fino in fondo la responsabilità. È un’interpretazione pilatesca del ricorso alle primarie, ma è quella che rischia di prevalere, per superare vecchie e nuove impasse.

Un’altra possibilità è pescare il jolly: trovare un volto nuovo su cui investire, nella speranza che riveli insospettate doti di leadership e trovi cammin facendo quella autorevolezza che notabili e maggiorenti di partito non saranno certo disposti a riconoscergli, ex ante. Neanche questa è una strada priva di rischi, ovviamente: già nel 2011 il Pd provò a togliersi dai guai affidandosi a un’espressione della società civile, il prefetto Morcone, coi risultati che sappiamo: non solo perse le elezioni, ma non riuscì a conservare intorno a quella esperienza neppure una base da cui ripartire.

E allora: se non è l’una, e non è neppure l’altra, cos’è? Se le primarie rischiano di produrre nuovamente lo spettacolo di un partito diviso tra vecchie cordate, e lo scouting di una figura nuova appare una scommessa troppo aleatoria, che cosa resta: Antonio Bassolino?

Ovviamente vi diranno: non bisogna partire dai nomi, ma dal progetto. Senza voler essere troppo cinici e ribadire che invece no, senza un volto che aggreghi è ben difficile costruire qualunque proposta politica, rimane il fatto che proprio il progetto non c’è, o almeno non c’è ancora.

Eppure lo spazio ci sarebbe. Non solo per la quantità di problemi insoluti che la città ha dinanzi, e su cui dunque qualcuno dovrebbe pur provare a costruire una risposta, ma perché, a voler uscire da ambiguità e timidezze, c’è una grande parte della società napoletana che proprio non se la sente di farsi altri cinque anni a sostenere la parte del popolo greco. È quello che il sindaco De Magistris ha scritto invece sul suo profilo facebook: Renzi sta facendo la Troika, Napoli sarà la sua Grecia. Forse al sindaco è sfuggito come è finita la trattativa in sede europea, o forse non gli importa davvero: gli importa piuttosto di giocare anche lui la sua parte, non certo per risolvere i problemi della città ma per incarnare una certa figura retorica nella consueta chiave retorica del povero contro il ricco, del debole contro il forte, dello straccione contro il signore. Sarebbe meglio se Napoli si scegliesse invece un sindaco all’altezza delle ambizioni di una città capitale, piuttosto che di un paese periferico. Ma è naturale: finché il Pd e il centrosinistra non prendono una strada, non lanciano un’idea, non provano a ricostruire un tessuto di alleanze con le forze vive della società, non innescano nuove dinamiche di partecipazione e di selezione della classe dirigente, e  insomma non fanno nulla o quasi, De Magistris può spararsi le sue pose, e confidare sul fatto che il tempo passa, le elezioni si avvicinano, e candidature alternative non emergono. Salvo, forse, Bassolino.
(Il Mattino, 21 luglio 2015 – ed. napoletana)