Dice Berlusconi: alle prossime elezioni amministrative, accordi tra le forze politiche e niente primarie. Si ricomincia dunque daccapo, dai vertici, dalle riunioni riservate, dalle decisioni prese intorno al caminetto? La retorica delle primarie, che si è imposta in questi anni, sia o no giunta al capolinea, ha comunque lasciato in eredità questa immagine potente: da una parte stanno i capi-partito, i signori delle tessere, la casta insomma; dall’altra la base, i militanti, i simpatizzanti e gli elettori. Fare le primarie significava togliere ai primi e dare a questi ultimi. Far circolare aria nuova e pulita nelle smoke filled backrooms, i retrobottega pieni di fumo di cui parlava il primo uomo politico che di fatto le primarie le inventò, più di cent’anni or sono: tal Robert La Follette, dello Stato del Wisconsin, USA.
Le cose non sono andate proprio così. Non è che non circoli aria più salubre nelle stanze dei partiti italiani: è che, fra poco, non ci saranno più nemmeno le stanze. In fondo, questo non è mai stato un problema per Berlusconi, che alla crisi dei partiti rispose vent’anni fa con l’invenzione dei club. La cui missione non era certo quella di organizzare le primarie, bensì quella di attrezzare una rete organizzative efficiente e pronta all’uso. Le primarie non avrebbero mai aggiunto nulla alla forza, alla legittimazione e al carisma del Cavaliere: se mai, tolto qualcosa. E infatti, dalle parti del centrodestra, sono sempre state pensate come la maniera di scalzarlo via, non certo di incoronarlo. Così fu per Gianfranco Fini, così è stato per Raffaele Fitto, così oggi per Matteo Salvini.
Lo scenario è ovviamente di molto mutato, e Berlusconi non è più il padrone indiscusso del centrodestra. Tuttavia, di primarie, secondo il Cavaliere, è meglio che non se ne parli nemmeno questa volta. Dov’è la notizia, si dirà? Anzitutto in ciò, che il centrodestra aveva comunque provato la strada: più timidamente del centrosinistra, ma aveva cominciato a sperimentarla, in singole realtà locali. Fior di politologi avevano anzi spiegato, avendo il centrosinistra promosso le primarie a principale punto di innovazione della forma della politica, che il centrodestra non avrebbe potuto non scendere sullo stesso terreno. Ora invece Berlusconi, senza timore di apparire superato, le accantona in maniera esplicita: non servono, non fanno vincere. Il punto vero, in realtà, non è che spesso non selezionano il cavallo vincente, ma che con le primarie non si è costruito nulla: non a destra, e nemmeno, per la verità, a sinistra.
Nonostante la retorica che le ha accompagnate, le primarie non sono infatti (ancora?) entrate dentro la costituzione politica materiale del Paese, e dei partiti. Il Pd le ha elette a proprio mito fondativo, le ha addirittura considerate un tratto identitario. Poi però è accaduto che persino Matteo Renzi, che per la via delle primarie è arrivato in cima al partito democratico, e al governo, ha aperto ad una valutazione decisamente più laica e prudente della materia: se servono, si fanno; se non servono, no. Ora, è chiaro che una procedura di selezione delle candidature – ma sarebbe meglio dire una famiglia di procedure, dal momento che le primarie si possono tenere in molti modi – non possono essere adottate di volta in volta, a seconda delle circostanze o delle convenienze. Nessun partito può reggere alla fibrillazione comportata dall’incertezza cronica non solo sui nomi dei candidati, ma pure sulla maniera di sceglierli. Il caso Campania insegna. La titubanza espressa giorni fa da Renzi ha messo così crudamente allo scoperto la difficoltà che hanno i partiti, tutti, di tener fede all’impegno preso con l’opinione pubblica il bel giorno in cui decisero che avrebbero smesso di riunirsi tra di loro per selezionare i propri rappresentanti.
Perché però non ci riescono? Perché non sono più partiti veri, e perché non lo si diventa in grazia di un metodo, di un regolamento, di uno statuto o di un qualunque marchingegno elettorale. Le primarie sono state finora non un punto di forza, ma la maschera di una debolezza, cioè l’espressione di una grave crisi di rappresentanza: dunque solo un surrogato, e l’esercizio di una supplenza. Siccome i partiti non riuscivano a rappresentare più nulla, si è pensato che si poteva rinunciare del tutto alla funzione, farsi provvisoriamente da parte e trasportare di sana pianta la società civile dentro le istituzioni. Una scorciatoia, che non ha funzionato e non poteva funzionare.
La strada maestra rimane infatti la ricostruzione della sfera politica, l’allestimento di forze strutturate, reali, radicate nella vicenda nazionale, in grado di esprimere un punto di vista sul Paese, un giudizio sulla sua storia e una strategia sul suo futuro.
Ma simili partiti non ci sono. E così si ricomincia: dai vertici e dagli accordi. Berlusconi lo dice chiaro e tondo, il centrosinistra ancor no, ma di tempo per decidere gliene rimane poco, in un senso o nell’altro. E in Campania ancor meno, dato il precedente poco luminoso del 2011, in cui le primarie cittadine furono annullate, e quello delle regionali di quest’anno, in cui sono state procastinate un numero imprecisato di volte, senza che a lungo si capisse se si sarebbero tenute o no. Ma anche questa volta, per Napoli 2016, non solo non c’è il nome che mette tutti d’accordo, ma non c’è nemmeno la convinzione che il partito reggerebbe il peso di una scelta. E così le primarie tornano ad essere la maniera pilatesca di lavarsene le mani. Non l’espressione di una politica all’aria aperta, ma di una politica ancora alla canna del gas.
(Il Mattino, 24 agosto 2015)