Le foto che vi raccontiamo sono disponibili da più di 36 ore. Non devono essere cercate, né si tratta di occultarle: sono infatti già in rete, sono a disposizione del miliardo di utenti di Facebook, e si trovano sui siti che raccontano il dramma dei migranti, i morti in mare. Non si pubblicano per umanità, per pudore, per decenza. E per il timore che possano suscitare una curiosità morbosa. Però ci sono, sono con ogni probabilità vere e raccontano ciò che accade sempre, ad ogni sbarco. Ritraggono corpi di bambini deceduti insieme a decine di persone nell’ultimo naufragio del Mediterraneo: di fronte a Zuwarah, città costiera situata un centinaio di chilometri ad ovest di Tripoli. Nonostante i rischi, nonostante i pericoli, nonostante i morti, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini continuano ad affrontare il mare aperto; a migliaia muoiono. Muoiono i bambini.
Uno giace disteso, le labbra livide, gli occhi chiusi e le braccia levate – solo i bambini piccoli riescono a dormire in quella posizione – la maglietta a maniche corte sollevata sul pancino, il pannolino con lo strappo. È morto. Intorno si vede la spuma del mare. La pelle è scura ma le mani sono bianche: la morte è bianca, fredda, gelida. La luce è la luce innaturale di un flash: la foto è scattata nell’oscurità. Il bambino è morto nel buio e nell’acqua: non ha potuto vedere né la luce né la terra dove i suoi genitori volevano condurlo.
La maglietta è arrotolata ma si capisce che sopra vi è stampato un personaggio dei cartoni, con dei bei capelli rossi. È una maglietta molto colorata. Colorata di rosso è pure la t-shirt della bambina con il pantalone rosa; colorato di blu il vestitino a pois bianchi di un’altra bambina ancora nell’acqua, con le calze bagnate. Sono morte anche loro. Anche se vestivano proprio come i nostri bambini, anche se i genitori provavano a dare allegria almeno ai loro abiti, e probabilmente a infondere loro un sorriso durante un viaggio difficile, inumano, tutto ciò non conta e non ha più importanza: sono morte. Morta è anche la bambina sul cui corpicino si frangono i flutti del mare: non si vede il volto, si vede l’onda, la schiuma che sale e copre i suoi lineamenti.
Altri ce la fanno: chi viene raggiunto in mare da un mezzo navale, chi viene soccorso in acqua prima di annegare, chi infine raggiunge terra e prova a dileguarsi prima di essere identificato. Tutti però non sono voluti né desiderati; tutti rappresentano un enorme problema che nessuno in Europa sa bene come affrontare.
Le sue dimensioni sono infatti immani. La più grave crisi umanitaria da cinquant’anni a questa parte. Un pezzo di continente assillato dalla fame e dalla guerra, un pezzo di continente in cui si sbriciolano interi ordini politici e sociali, chiede all’Unione Europea accoglienza e rifugio. Ma come si fa? Nessuno sa come si fa. Ora che i cadaveri dei migranti sono stati trasportati fin nel cuore dell’Europa, stipati in un camion e abbandonati per strada tra l’Austria e la Germania, sembra che si voglia finalmente prendere coscienza di un problema che nessuna politica nazionale può affrontare da sola, e che nemmeno l’Unione europea tutta intera sembra preparata a fronteggiare, per le sue proporzioni imponenti, colossali, epocali.
Il progetto europeo nasce in verità da un bisogno di pace e di prosperità, maturato dopo trent’anni di guerre e decine di milioni di morti. Ma non c’è pace se ai tuoi confini, lungo le tue coste, per le tue strade arrivano in migliaia e muoiono come mosche: inermi e disperati, sgominati ed esausti. E mai è bastato chiudere semplicemente le porte – alzare muri? srotolare chilometri di fili spinati? affondare i barconi, bloccare i valichi, interrompere i traffici e presidiare le molte vie del mare? – mai è bastato o può bastare tutto questo se a muoversi e lasciare le terre d’origine sono popolazioni e paesi. Tutti insieme. Tutti in una volta.
Perciò, lo voglia o no, lo possa o no, l’Unione Europea deve studiare il modo di affrontare il dramma epocale che si sta consumando da anni – anche se fingiamo di accorgercene solo ora – e lavorare ad una soluzione condivisa. Deve varare programmi, tenere vertici e riunire commissioni, ma infine assumere una chiara responsabilità al riguardo. Le risorse economiche e una politica estera comune per l’immigrazione non sono opzioni più o meno disponibili di fronte a una sfida del genere: sono una necessità vitale. Non ha alcun senso dire infatti che le risorse non sono sufficienti, o che gli interessi dei paesi membri sono diversi e non collimano fra loro. O meglio, un senso ce l’ha: vuol dire che l’Unione non esiste. Se non esiste per questo, non esiste per nient’altro.
Perciò la blusa azzurra, il pantaloncino corto, le scarpe allacciate o i piedi scalzi nella sabbia umida della notte non sono solo un problema morale per le redazioni, un tormentoso caso di coscienza o una questione di deontologia professionale. Sono il contrassegno di una tragedia storica, e un ultimo appello pieno di allarme e di angoscia all’Europa.
(Il Mattino, 30 agosto 2015)