Archivi del mese: settembre 2015

Bassolino bis, avanti tutta nel vuoto del Pd

bassolinoSpiace un po’ per i nipotini, ma è ragionevole pensare che il nonno, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, avrà un po’ meno tempo per loro. Antonio Bassolino è ormai ai nastri di partenza. Tutto, naturalmente, può succedere ancora. La fase di ascolto della città, inaugurata qualche settimana fa, non si è ancora conclusa, ma è difficile ipotizzare che svanisca in una bolla di sapone il gran parlare di questi giorni sulla candidatura di Bassolino a sindaco di Napoli.

Perché d’altronde dovrebbe tirarsi indietro, se è bastato che il suo nome circolasse per mettere a subbuglio il partito democratico. Forse perché la campagna elettorale si risolverebbe in un giudizio sul passato, invece di dare indicazioni sul futuro? Oppure perché Bassolino rappresenterebbe il vecchio? Il fatto è che il vecchio diventa vecchio quando il nuovo lo sopravanza. Se il nuovo non ce la fa ad avanzare, c’è poco da fare: il vecchio ne fa un sol boccone.

La questione della candidatura di Bassolino è infatti un problema per il partito democratico, non certo per Bassolino medesimo. È il Pd che deve tirar fuori qualche nome da buttare nella corsa delle primarie. Anzi, non andrebbe detta nemmeno così, perché al partito democratico compete solo l’organizzazione della competizione: il resto lo deve fare il voto. A meno che non si raggiunga un accordo ampio su un candidato unitario. che raccolga il consenso di tutti, o quasi, nella direzione regionale del partito. Quando però i democratici cominciano la ricerca di questo nome fatidico, tutto si impantana fra veti reciproci, vecchi vizi e antiche debolezze, e il nome non salta fuori.

D’altronde, che nome cercherebbero i democratici? Bassolino corre, se corre, per vincere. Non è detto ovviamente che gli riesca, ma la sua candidatura manda in secondo piano tutto il resto: la costruzione della classe dirigente, il rinnovamento generazionale, il profilo del partito democratico, il rapporto con la regione o quello col governo nazionale. Tutte cose che vengono dopo, e che con Bassolino in campo subiscono una torsione profonda: del resto, non è stata la sua prima stagione di sindaco della città di Napoli a imporre il tema della leadership personale, poi ripropostosi anche nel Paese? Vi sono stati altri interpreti, nel centrosinistra campano, di una simile stagione? Uno in verità c’è stato, si chiama De Luca e siede a Palazzo Santa Lucia (e probabilmente non è entusiasta del ritorno di Bassolino). Ma, per il resto, non se ne sono visti.

Per il partito democratico si avvicina perciò il dilemma a cui diede forma Arturo Parisi negli anni dell’Ulivo, con nobile senso della sconfitta: meglio perdere che perdersi. Ma è davvero così? A livello nazionale,  il partito democratico, forse, non ha proprio deciso di perdere l’anima, ma di sicuro a giocare per perdere non ci pensa nemmeno: Renzi non è affatto il tipo. E a Napoli? Anche a Napoli, dopo la batosta del 2011, e senza tuttavia aver fatto molto in questi anni per dotarsi di un profilo vincente, non pare che ci sia qualcuno disposto a intestarsi una sconfitta, magari per cominciare da lì la costruzione di una nuova fase. Bassolino è dunque in campo, o lo sarà a breve, perché offre al Pd almeno una chance di rovesciare l’assioma di Parisi: meglio, molto meglio vincere, e, quanto al resto, si vedrà.

Certo, è possibile che candidando Bassolino il Pd faccia un regalo a De Magistris e ai grillini, che avrebbero un argomento in più per imbastire la retorica del cambiamento contro le vecchie nomenclature, soprattutto se o’ Sindaco facesse l’errore di formare la sua squadra guardando all’indietro e pescando nel passato. Ma il fatto è che si fa un errore ancora più grande pensando che il Pd candidi Bassolino: lui, infatti, si candida da sé, com’è nello spirito delle primarie democrat, che mettono davvero pochi paletti alle candidature. Presto perciò il dibattito si farà stucchevole, e a meno che il Pd non voglia logorarsi, come già altre volte, in inutili e sfiancanti discussioni sulle regole e i tempi e i modi della sfida elettorale, farebbe molto meglio a ragionare solo e unicamente sul punto politico che la candidatura di Bassolino pone: ce l’ha il partito democratico un candidato migliore?

Così stanno le cose: poco altro rimane da ragionare. Intanto, alla presentazione del film-documentario sul Mattino Bassolino, ovviamente, c’era. I nipotini no. E Bassolino non stava lì, nel suo palco, per fare solo da comprimario. Pochi, del resto, tra quanti si sono fermati a parlare con lui, hanno avuto l’impressione che la sua principale passione ed il suo assillo fosse ancora e soltanto scalare le Dolomiti.

(Il Mattino – ed. Napoli, 30 settembre 2015)

Il Mezzogiorno da questione a passione civile

IMG-20150930-WA0000La questione meridionale: negli ultimi anni o negli ultimi mesi? Per questo giornale, è un tema di discussione da molti anni; per la politica nazionale, si direbbe invece che lo sia solo da qualche mese.

L’affermazione andrebbe corretta, naturalmente, perché il problema del divario fra le diverse aree del Paese ha accompagnato l’intera storia nazionale, e questo giornale ha quindi dovuto occuparsene fin dalla sua fondazione.

Negli ultimi anni, però, la riflessione (e la polemica) meridionalistica ha dovuto misurarsi con un diverso ostacolo, cioè l’aggressiva retorica leghista e nordista che ha a lungo dominato il discorso pubblico. Si può considerare che il culmine sia stato raggiunto con l’immagine del «sacco del Nord» perpetrato dallo Stato nazionale con il trasferimento e la dissipazione di risorse a favore del Mezzogiorno. Nientemeno.

Anche in questo caso, però: nulla di veramente inedito. Già Gramsci ricordava come alla borghesia settentrionale del Paese appartenesse l’idea del Sud «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia». Questo regime di discorso, tuttavia, è ormai divenuto quello abituale, corrente per l’intero arco della seconda Repubblica – posto che la seconda Repubblica abbia davvero disegnato un arco, e non piuttosto un imbrogliato scarabocchio dal quale stiamo ancora provando a venir fuori. Oggi la stessa Lega Nord si è scelta, in realtà, altri capri espiatori («l’invasione» degli immigrati), e liste «Noi con Salvini» spuntano anche al Sud.

Ma di qui a dire che il Mezzogiorno sia divenuta la prima e principale preoccupazione del Paese ce ne corre. Eppure qualche buona ragione vi sarebbe, se è vero e anzi conclamato l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto Svimez. Su quei dati, su quei numeri che fan tremar le vene e i polsi si è innescato un dibattito serio. Il che non vuol dire che siano mancate punte di polemica ridicola – la Svimez non serve a nulla, come a dire: rompiamo il termometro – ma per lo meno si è raggiunta un’eco nazionale. Il premier Renzi ha convocato in pieno agosto la direzione del suo partito, e annunciato un Masterplan per il Mezzogiorno che dovrebbe vedere la luce proprio in questi giorni, magari in collegamento con la legge di stabilità che andrà alle camere dopo la metà di ottobre. Se si confronta il discorso tenuto da Renzi alla direzione del Pd con il discorso tenuto alle camere in occasione dell’insediamento del suo governo si noterà un non piccolo particolare: prima il Mezzogiorno non c’era, adesso c’è.

Così viene naturale pensare che, forse, l’impegno che questo giornale sta mettendo nel tenere desta l’attenzione sul Sud, e vigile la considerazione dell’opinione pubblica, sarà pure costretto a sfidare il soprassalto di noia che prende al solo nominare la «questione meridionale» – come se si trattasse sempre della solita lagna – ma forse a qualcosa serve, può servire. Non a caso, quando il Presidente del Consiglio è venuto in visita al Mattino, nel maggio dello scorso anno, ha ricevuto, per bene incorniciate e poste sotto vetro, le due pagine dedicate alla nuova questione meridionale che erano state pubblicate un mesetto prima. Quella sorta di manifesto, articolato in dieci domande, cominciava con queste parole: «c’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino». C’era una qualche concessione retorica nell’incipit: come se davvero se ne discutesse di più, quando invece se ne ricominciava appena a discutere. Però le questioni intorno a cui il Mattino batteva, e nei mesi successivi avrebbe continuato a battere c’erano tutte: in primo  luogo la necessità di affermare chiara e forte l’esistenza della «quistione»; in secondo luogo, la necessità di distinguere analisi storica e azione politica; terzo, la critica dei determinismi geografici e delle costanti antropologiche come chiavi univoche di spiegazione; quarto, il rifiuto dell’alibi della politica locale cattiva, o della illegalità diffusa, come pretesto per mollare il Sud al suo destino; quinto, la necessità di ripensare il ruolo e i compiti dello Stato nazionale, anche nel contesto dei nuovi vincoli europei; sesto, il rigetto di troppo sbrigative soluzioni commissariali, oppure in chiave meramente  securitaria, per problemi complessi, da affrontare con il rigore della legge ma anche con gli strumenti della democrazia; settimo, i numeri, che rendono evidente la necessità di una perequazione fra Nord e Sud, sia sul piano materiale delle infrastrutture, che sul piano finanziario delle risorse, che infine su quello morale dei diritti e del loro effettivo godimento; ottavo, la più grande attenzione a come i soldi vengono spesi, senza però che la riqualificazione della spesa significhi semplicemente rinunciare a spendere, e si dirottino altrove i soldi che dovrebbero essere diretti qui, a cominciare dai fondi europei; nono, la promozione del merito, nel preciso significato costituzionale, per cui si aiutano i meritevoli per scardinare genealogie, appartenenze, clientelismi, e favorire la mobilità sociale; decimo e ultimo punto, un deciso investimento di senso, per cui chi fa la politica la fa per sé (non illudiamoci troppo) ma per un sé migliore di com’è oggi, con un’ambizione vera e grande, e una visione strategica da affermare.

Si possono scorrere in avanti, fino ai giorni nostri, le pagine del giornale, oppure all’indietro, sino alle origini di una franca battaglia che il Mattino ha sempre condotto, senza togliersi scompostamente la camicia ma senza nemmeno rimanere tronfi e imbellettati: ebbene, quei dieci punti li si troverà in mille editoriali e articoli e commenti. Sono una cifra del giornale.

E sono anche la linea di confronto su un buon numero di questioni su ci si sono impugnate le penne. Si è cercato infatti di confondere questa nuova attenzione meridionalistica con un folcloristico sudismo neoborbonico, all’insegna del «si stava meglio quando si stava peggio», e anzi non si stava peggio affatto. Ma la discussione sulla maniera in cui si è formato lo Stato unitario tutto può essere meno che un balzo di tigre nel passato, rivoluzionario o reazionario che sia. Stessa cosa si dirà dell’enfasi posta negli ultimi anni sul capitale sociale: manca, d’accordo, ma è fuorviante un discorso che rinunci a chiedersi se sviluppo, investimento, risorse, non diano una robusta mano ad accumularlo.

Insomma: su un terreno come sull’altro, e in ogni altra discussione che ha visto il giornale impegnato a approfondire, suscitare, stimolare, si è sempre cercato, con autentica passione civile, il confronto delle idee, sfidando se necessario il senso comune consolidatosi in questi anni. Quel senso comune (ben altro dal buon senso), per cui qualunque tentativo sia pur modesto di rileggere con occhi attenti e critici le politiche nazionali – o, negli ultimi anni, le politiche europee di coesione –  suonava o come vittimismo recriminatorio, o come sbrigativa assoluzione dei propri peccati.

Ma la questione meridionale non è mai stata, per il Mattino, la rendita di posizione su cui lucrano le parole dei suoi articoli. Al contrario, per essa e con essa si è cercata una posizione scomoda ma necessaria, da cui raccontare à corps perdu – senza alcuna riserva mentale o prurito ideologico – il Mezzogiorno. E cioè, in fondo, noi stessi.

(Supplemento speciale de Il Mattino, “Il senso del Mattino”, 28 settembre 2015)

La dialettica triste del Pd

Immagine2Il rinvio dell’assemblea provinciale del Pd è stato ben camuffato dalla segreteria provinciale del partito: ci vuole prima una fase di ascolto. Di coinvolgimento, di partecipazione. Certo, come no. In realtà, qualunque cosa verrà ascoltata nel corso delle  «quattro giornate per Napoli» messe in cantiere, è già chiaro che cosa il Pd non vuol sentire: il nome di Antonio Bassolino, che da ben più di quattro giorni rimbomba in città. Con involontaria autoironia, il segretario del Pd Carpentieri ne lascia intravedere la presenza anche quando vorrebbe scacciarne persino l’ombra. Lui ha parlato di una «fase di ascolto», Bassolino, nell’intervista rilasciata a questo giornale, aveva detto: «per ora ascolto la città». Tutti ascoltano dunque, o forse origliano, cercando di capire le mosse dell’uno o dell’altro. E in questa asfissiante surplace il Pd napoletano mostra di essere sempre allo stesso punto, cioè in mezzo al guado: non essendo in grado di dire no, ma non essendo in grado neppure di dire sì. Di più: non essendo in grado di affrontare anche solo la discussione sul nome di Bassolino, per paura che finisca col sovrastare ogni altro nome, proposta, progetto. L’unica cosa che il Pd riesce a fare, in questo frangente, è prender tempo, e avviare l’ennesima caccia all’escamotage. Per ora si rinvia; poi si vedrà. Lo si è fatto con le regionali, lo si fa di nuovo adesso. E come allora il Pd non ha trainato, ma si è lasciato trainare, così rischia di andare anche questa volta, a rimorchio, nel più pilatesco dei modi.

Forse il segretario Carpentieri si augura un intervento risolutivo di Renzi, o della dirigenza nazionale. Spera che qualcuno da Roma convinca Bassolino a non candidarsi, un po’ come avrebbero dovuto convincere De Luca. Ma come nessuno è riuscito a togliere dalla testa di De Luca di correre per la Regione, e alla fine ha avuto ragione lui, vincendo le elezioni, così anche questa volta sarà difficile che qualcuno riesca a distogliere Bassolino dai suoi propositi, il giorno che decidesse davvero di puntare nuovamente su Palazzo San Giacomo.

L’unico, forse, che può riuscirci è proprio De Luca, il quale di sicuro preferirebbe non avere Bassolino come proprio dirimpettaio. Per ora però De Luca rimane al coperto (ascolta pure lui?), e lascia magari che altri facciano intendere come lui la pensa. Così ad esempio ieri Umberto De Gregorio, vicinissimo al governatore, ha condotto un lungo esercizio di dissuasione: Bassolino rappresenta il vecchio, la sua immagine è ancora compromessa con la crisi dei rifiuti, non è vincente e si rischia di fare un regalo a De Magistris, e infine non funziona col turno di ballottaggio previsto dalle elezioni comunali.

Son tutti argomenti da pesare. Il guaio è che però non c’è la bilancia per farlo. Non solo infatti il Pd rinvia ogni decisione, ma mantiene un dubbio amletico circa lo strumento per prendere una qualunque decisione. Lo strumento c’è, è previsto dallo statuto, come ricordava ieri l’onorevole Valente: sono le famose primarie Ciononostante De Gregorio può dire di essere non contro le primarie, ma contro le primarie in cui uno come Bassolino scenda in campo.

Curioso: si provava a dire la stessa cosa, per fermare la corsa di De Luca, e ora invece sono i deluchiani a tentare la stessa operazione, per cui il metodo di selezione della candidatura viene approvato o rifiutato a seconda del candidato che rischia di selezionare.

Insomma: ancora una volta non solo non si sa come finirà, ma non si sa nemmeno quando finirà. Va così, continua ad andare così, dalle parti del partito democratico napoletano.

(Il Mattino – ed. Napoli, 24 settembre 2015)

Merito e discrezionalità, ecco la misura perfetta

Immagine2Quanti soldi ci sono per la «buona università», di cui si comincia a parlare? Domanda ineducata, triviale, culturalmente in ritardo: abbiamo infatti imparato che contano, certo, le risorse, ma conta di più la maniera in cui vengono spese. Le riforme devono investire il livello ordinamentale, la governance, la valutazione: non si può ridurre tutto a una questione di voci di bilancio col segno più o col segno meno. Benissimo. Con l’ostinazione tipica dei fatti, resta però vero che i paesi più forti investono di più in ricerca e formazione, e che l’università italiana si è vista in questi anni tagliare il fondo di finanziamento con geometrica precisione. Quindi buttiamola pure via questa prima, rozza considerazione, e prendiamo però atto, almeno, che continua imperterrito il blocco delle classi e degli scatti stipendiali per i docenti universitari. Facciamo pure che questo non significhi minimamente scarsa considerazione della figura docente e dell’università pubblica, ma ragioniamo su quale attrattività abbia oggi la posizione del ricercatore universitario a confronto con il settore privato (o con la stessa posizione occupata, però, all’estero).

E diciamo del merito, e della sua valutazione. Il sistema universitario viene valutato anzitutto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione. l’ANVUR, e l’ANVUR, per esser chiari, non funziona. Non funziona per come viene formata, temo, e non funziona per come lavora. Qualunque intervento legislativo si voglia adottare nei prossimi mesi dovrà occuparsi della faccenda, e dovrà farlo a maggior ragione se vorrà fondare la propria legittimazione sulla parola d’ordine del merito. Ci mancherebbe pure che didattica e ricerca non debbano essere valutati (dico e l’una e l’altra, perché l’università non è solo didattica, certo, ma non è neppure soltanto ricerca). Del resto, lo esige la Costituzione, alla voce «capaci e meritevoli». Ciò detto, siamo però assai lontani da «un sistema di valutazione ben congegnato e implementato per migliorare la qualità della ricerca», per dirla con le parole (critiche) della Conferenza dei Rettori.

Ognuno ha, al riguardo, i suoi esempi da portare: non è un caso, perché quel che fanno i filosofi è molto distante da quello che fanno, poniamo, i medici, e le rispettive comunità di ricerca funzionano in maniera alquanto diversa. Poiché appartengo al primo gruppo, quello dei filosofi, mi pronuncio a spanne, e provocatoriamente, ma provando almeno a dare il sapore della cosa. E dunque: qualunque sistema di valutazione che non promuovesse al più alto rango Platone, Aristotele, Kant e Hegel ben difficilmente sarebbe un buon sistema. Se una qualunque classifica non li vedesse ai primi quattro posti (scegliete voi l’ordine) sarebbe sbagliata la classifica, non sbagliati loro. Questo però è quello che si sarebbe potuto verificare con le abilitazioni scientifiche nazionali, e che si può ancora verificare con la valutazione dei prodotti della ricerca. Certo, si può sostenere che non sempre il miglior ricercatore o scienziato è tagliato per l’università: vero. Ma è altrettanto vero che l’università dovrebbe preoccuparsi comunque di come tenerlo dentro, non di come lasciarlo fuori.

Voglio però dire una parola in più sul mio metodo spannometrico. Cosa esso presuppone? Che si sappia bene cosa è eccellente, per ragionare solo poi sul modo di farlo emergere e risultare. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è il contrario di un buon metodo scientifico, e che contiene un margine assai ampio di discrezionalità. Rispondo: è così. Ma è inutile, temo, ragionare di merito, valutazione, eccellenze, se si rinuncia all’esercizio discrezionale di un magistero, per il quale passa ogni vera trasmissione di sapere, creazione di scuole di ricerca, formazione di tradizioni disciplinari. Da anni siamo assediati da classifiche e punteggi e standard e mediane (con l’ingombro burocratico che comportano), che, nel migliore dei casi, confermano quel che già si sa, e nel peggiore lo capovolgono, però con l’avallo ipocrita di una presunta neutralità e obiettività della valutazione.

Questioni di filosofia, forse, che c’entrano poco con l’intero sistema universitario e ambiti di studio più omogenei dove invece domina il rigore scientifico. Non ne sarei così sicuro, e non rispolvererei antiche divisioni fra saperi scientifici e saperi umanistici. Conosco ottimi ingegneri che pensano la stessa cosa, e mi dicono di conoscere le migliori teste del loro settore molto più rigorosamente di qualunque griglia ministeriale. Il punto vero è invece il collegamento – questo sì rigoroso – fra l’esercizio di valutazione e la responsabilità e la premialità per quell’esercizio (e le compatibilità di bilancio: va da sé): ma è folle pensare di eliminare la discrezionalità senza uccidere se non la ricerca, di sicuro l’ethos del ricercatore.

Poi, certo, i problemi dell’università sono anche altri, e forse maggiori. In cima all’elenco sta il diritto allo studio; di rincalzo, le sperequazioni fra le università del nord e quelle del sud, e la necessità di adottare indici che nell’allocazione delle risorse tengano conto delle differenze territoriali, demografiche, sociali: non è la stessa cosa reperire fondi in un’area depressa e in una in piena espansione. Aggiungo poi lo svecchiamento della classe docente e la nuova sfida telematica, cioè le università a distanza, che hanno tutt’altra struttura di costi e che devono essere spinti a elevare, di parecchio, la qualità della loro offerta.

Ma una riforma dell’università, se è tale, ha da essere anche, se non soprattutto, un discorso sul sapere universitario, deve cioè portare con sé un’idea generale (universitaria, appunto) del sapere. Se qualcosa vi può essere ancora più su di essa, sarà forse una “politica” del sapere; ma allora bisogna esplicitarla, non nasconderla dietro una batteria di tabelle o dietro anonime procedure di calcolo.

(Il Mattino, 22 settembre 2014)

La carta che manca ai democrat

102296644-73096575.1910x1000Se non è un’impasse, poco ci manca. Il Pd non ha un candidato sindaco per Napoli, e non sa quando l’avrà. Ma in politica il tempo non è una variabile indipendente. E più tempo passa, più si restringono le possibilità che il Pd riesca a pescare la carta vincente. Anche perché i democratici non hanno a disposizione un mazzo intero di carte, ma tre carte soltanto.

La prima carta è un nome della società civile: un nome autorevole, prestigioso, e fuori della mischia. In verità, questa mitologia della società civile che offrirebbe alla politica le risorse di leadership che la politica non è in grado di accumulare da sé è ultimamente un po’ in ribasso, dalle parti, almeno, del Pd. Che ha oggi la guida, a livello nazionale, di un governo tutto politico, e per la prima volta da molto tempo di un governo che, piaccia o non piaccia, non trova motivi di consenso o di dissenso nel fatto che sia formato da ministri politici invece che dai cosiddetti tecnici.

Le cose, tuttavia, stanno un po’ diversamente a Napoli. Dove si mantiene un generale senso di discredito nei confronti della classe politica, al quale ha attinto e ancora abbondantemente attinge il sindaco De Magistris. Qui l’idea – se ci si pensa: alquanto balzana – che ad assumere un ruolo politico debba essere chiamato uno che con la politica non c’entra nulla consente ancora di tener per buono lo schema del candidato della società civile. Che il più delle volte finisce in realtà con l’essere, molto più ragionevolmente, solo una figura il cui curriculum non è stato usurato da troppe esperienze consiliari, o parlamentari. Ma tant’è.

L’altra carta a disposizione del Pd è la carta che i democratici non sono finora mai riusciti a calare: la carta di un nome di partito, intorno al quale fare quadrato e da sostenere in maniera unitaria. Il partito democratico napoletano non ha, allo stato, un leader riconosciuto. L’ultimo è stato Bassolino e si sa in che modo sia stato scaricato. Dopo di lui, hanno prevalso le divisioni e le lacerazioni interne, fino all’autolesionismo: fino cioè al disastro delle primarie annullate del 2011, che tutti ricordano. Pochi ricordano invece che quando Bassolino vinse le elezioni municipali era ancora soltanto un dirigente di partito. Dietro di lui si raccolsero però tutti gli altri, e soprattutto si raccolse la città, a cui le forze di sinistra seppero offrire, in quel frangente difficilissimo, una chance politica di rinnovamento. Quella era la carta: organizzazione di partito, programma, e leader. Ma, a dir bene le cose, la capacità di leadership si dimostrò sul campo. E cioè venne dopo, e venne anche grazie al fatto che un partito intero (o quasi) ci aveva creduto, e provato.

Vi sono però le condizioni per riprodurre lo stesso schema oggi, e giocare la carta di un uomo di partito, oggi? Il partito ha organizzazione, programma, capacità di fare squadra? Se sì, allora poco importa che manchi ancora il nome di grande formato: importa invece, o importerebbe, la voglia di fare una scommessa politica. Una scommessa vera, perché si tratta per il Pd di recuperare l’emorragia di voti del 2011, in uno scenario che vede in campo non solo De Magistris, ma anche i grillini, che quattro anni fa non c’erano ancora. Per riuscirvi, bisognerebbe che il Pd ritrovasse la capacità di parlare alla città, e che fosse in grado di contendere con il centrodestra sul terreno della credibile proposta di governo, a confronto della quale l’esperienza di questi anni si potesse dimostrare in tutta la sua confusione e velleitarietà. Ma la domanda rimane: riesce il Pd a costruire una roba del genere? Più tempo passa, e più si assottiglia questa possibilità.

La terza carta, infine. La terza carta è persino ovvia: è Antonio Bassolino. Naturalmente, anche questa carta presenta qualche controindicazione: come fa il Pd a candidare Bassolino, senza ammettere che non si è ancora riavuto, da quando Bassolino è uscito di scena? Di fatto però questa è una controindicazione seria solo per il Pd, non certo per Bassolino stesso. Il quale per ora «ascolta la città», come ha detto ieri nell’intervista a questo giornale. E quel che ascolta, per ora, non sembra affatto scoraggiarlo. Perché è un fatto che pezzi importanti della società napoletana – tanto fra gli strati popolari, quanto nel mondo produttivo e delle professioni – guardano a un ritorno di Bassolino come all’unico che possa stare in campo, a sinistra, con qualche possibilità di successo. Si dice: la discesa in campo di Bassolino trasformerebbe però la campagna elettorale in una sorta di «giudizio di Dio» sul bassolinismo. Questa però tutto è meno che un’obiezione. Perché anzi vorrebbe dire che Bassolino è l’unico ancora in grado di spostare i temi della discussione pubblica, e magari anche i punti dell’agenda cittadina.

Poi ci sono altre variabili, da quelle personali (Bassolino ne avrà davvero la voglia, e la forza?) a quelle politiche generali (Renzi che fa, se ne lava le mani?). Ma le carte quelle sono: il Pd ricomincia da tre, ma ancora per poco. Più passa il tempo, infatti, e più i democratici rischiano di non ritrovarsi nulla in mano.

(Il Mattino – ed. Napoli, 19 settembre 2015)

La sinistra moderna secondo Amato

coppia_funzionale12Il mondo qual è e il mondo quale deve essere. E una sinistra che non può esistere se non cerca linee di scorrimento dall’uno all’altro mondo. Giuliano Amato ha dato un’intervista al Foglio, in cui è difficile trovare risposte banali. Qualche esempio. A proposito della situazione in Medioriente: «non possiamo fronteggiare l’onda lunga della fuga dei siriani senza affrontare in modo efficace il problema siriano». A proposito dell’accoglienza e del diritto di asilo europeo: «La strada dell’asilo europeo è giusta, ma non funziona se non si rendono europee le stesse procedure di registrazione». A proposito della sinistra continentale: «non è stata capace di produrre politiche in grado di fronteggiare e di superare la crisi economica […] e ha finito per trovare rifugio nei diritti civili. Tema sacrosanto, ma una sinistra che campa di diritti civili è una sinistra che non si sa quanto possa durare». A proposito, infine, dei populismi e delle forze anti sistema: «o mutano nel tempo o rimangono passeggeri. Vale anche per l’Italia: il giorno in cui vi sarà una forza di centrodestra capace di contendere elettori al Pd sono convinto che l’anti-politica sarà riassorbita».

Ognuno di questi giudizi può essere discusso, precisato, riveduto, ma non c’è dubbio che disegnano il perimetro di una sinistra più razionale che sentimentale, che non si innamora delle proprie idee senza preoccuparsi insieme di procurare ad esse capacità di intervento nel mondo e di governo reale delle cose. Amato indica abbastanza chiaramente da quali sirene bisogna che la sinistra sappia guardarsi. A proposito dell’ordine internazionale: da un pacifismo velleitario, che non solo ripudia la guerra, ma rifiuta pure di guardare dentro la realtà geopolitica mondiale, ed è quindi impreparata a misurarsi con la crisi drammaticamente aperte alle porte del continente: vale per la Siria ma vale anche per l’Ucraina, o per la Libia. Un conto è il mondo di pace e di cooperazione, «quale deve essere», un altro è il mondo qual è, nel quale non solo ci sono le guerre, ma c’è chi, come la Russia di Putin, non perde tempo ad occupare gli spazi che gli occidentali lasciano vuoti. A proposito dei flussi migratori, la sirena dalla quale la sinistra deve guardarsi è la sirena di un umanitarismo appassionato ma ingenuo, che in nome di una indistinta e universale solidarietà (il mondo «quale deve essere»), non predispone strumenti di governo dei fenomeni, e non costruisce un quadro regolatorio efficace. Ancora: a proposito dei temi politici interni, che contribuiscono a definire l’identità, ma anche le priorità programmatiche delle forze di sinistra, la sirena è quella di un moralismo o di un giuridicismo astratto, che si costruisce anche aggressivamente intorno alla frontiera dei diritti civili, essendo ormai sempre più intimidita sul versante della cultura economica e sociale, sicché quel che perde arretrando su quest’ultimo terreno, cerca di prendersi avanzando su quell’altro terreno. Siccome la struttura economica del mondo qual è non la si riesce a riformare, insomma, si costruiscono – in una chiave surrogatoria dell’identità progressista – altri orizzonti di riforme e di cambiamento. Infine, a proposito delle nuove istanze che si affacciano nello spazio politico, la sirena ammaliante da non ascoltare è l’infantilismo della democrazia diretta. Nel mondo quale deve essere, la disintermediazione elimina ogni problema di leadership: ognuno vale uno, e il leader è solo un megafono. Nel mondo qual è, senza leadership personali non si va da nessuna parte, e le leggi ferree dell’organizzazione costringono anche i più informali dei movimenti a mettere, prima o poi, la cravatta.

Pacifismo velleitario, umanitarismo ingenuo, moralismo astratto, democraticismo estremistico: una sinistra che si tenesse alla larga da tutte queste malattie sarebbe la sinistra dal profilo riformista su cui Amato invita a ragionare. Il ragionamento può discostarsi da alcune delle soluzioni alle quali Amato pensa. Ad esempio: la critica al fallimento dell’Occidente nel confronto con il fondamentalismo islamico è comprensibile e fondata, ma nell’alternativa che si disegna ormai in maniera ineludibile – o noi, o loro – dobbiamo comunque evitare di trascinare l’intero mondo islamico, e studiare con esso le forme di un possibile «noi e loro». Ancora: è giusto denunciare i limiti della cultura economica della sinistra europea nella crisi, ma l’analisi andrebbe forse portata più a fondo, alle condotte della sinistra da Maastricht in poi. Senza dire che è giusto ridefinire certe priorità, ma la contrapposizione fra i due versanti – quello dei diritti civili, e quello dei diritti economici e sociali – può essere forse evitata, senza pensare che le richieste su un versante siano giocoforza una forma di risarcimento per quello che non si ottiene sull’altro versante.

Si può ragionare, insomma: però c’è materia per chiamare davvero le cose col loro nome, invece di nascondersi ipocritamente i problemi. Sarebbe importante che le sollecitazioni di Amato venissero accolte, anche solo per scongiurare la tentazione minoritaria (e perdente) che consiste nel tenersi strette le proprie vecchie, care idee, perché è tanto rassicurante, pagando però il prezzo di non metterle davvero in gioco, nell’attrito vero con la realtà, cioè col mondo qual è.

(Il Mattino, 18 settembre 2015)

Perché negare i luoghi comuni non la camorra

1Contestare l’espressione usata da Rosy Bindi per denunciare la presenza camorristica a Napoli tutto vuol dire meno che sminuire il fenomeno, o addirittura negarlo. Invece, il Presidente della Commissione Antimafia ha ribattuto alle critiche in questi termini. Al primo sproposito ne ha dunque aggiunto un altro: prima ha detto che la camorra é un dato costitutivo di Napoli, poi ha tacciato i suoi critici di negazionismo. Come se solo sparandola grossa si dimostrasse consapevolezza del problema. Eppure è semplice: se la camorra fosse costitutiva della città, della società napoletana, vorrebbe dire che Napoli non sarebbe Napoli se la camorra non fosse in città. Si scelgano gli esempi che si vogliono più appropriati, per una rapida istruzione sull’uso della parola: la laguna è costituiva di Venezia, nel senso che Venezia non sarebbe la stessa senza i suoi canali. Né lo sarebbe Roma senza il Colosseo, o senza la presenza della Chiesa cattolica nella sua storia.
Ma si può provare anche così: forse che Napoli sarebbe la stessa senza la lingua napoletana? Certo che no: la lingua napoletana, e la cultura che in essa si esprime, sono dunque costitutivi della città. Ecco cosa si vuol dire: togliete a Napoli la sua lingua e l’avrete resa irriconoscibile, amputandola di una parte fondamentale della sua identità.
Orbene: si vuol dire lo stesso della camorra? Che Napoli cioè perderebbe un pezzo della sua identità il giorno in cui fosse definitivamente sconfitta la camorra? Che perciò i napoletani si trovano di fronte all’aspro dilemma: o restano se stessi, e allora devono imparare a convivere con la camorra, oppure debbono inventarsi un’altra storia e un’altra identità, se vogliono liberarsi per davvero della criminalità organizzata?
Questo basta per l’uso delle parole, gli infortuni linguistici e le pezze peggiori del buco. Ma perché Rosy Bindi ha insistito, è ritornata sulle sue parole, non ha chiesto scusa e anzi ha rincarato la dose? Non è certo solo per una questione di orgoglio, o per evitare una figuraccia. Tant’è vero che a darle man forte è intervenuto pure il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Anche per lui, non devono far scandalo le parole del Presidente Bindi, ma casomai la reazione che hanno sollevato. Negare infatti che la camorra sia un elemento costitutivo della società napoletana significa «non guardare in faccia la realtà». E se non si può negare che le mafie siano elemento costitutivo della società vuol dire che chi invece lo nega è un negazionista – parola che, ricordiamolo, si usa per indicare non un mero errore, ma una deliberata e infamante disonestà intellettuale.
E invece la prima regola del confronto di idee è rispettarle tutte. Cosa che si fa – sia detto incidentalmente – ospitando sullo stesso giornale opinioni anche difformi, come il Mattino non ha mancato di fare; cosa che invece si fa meno, tacciando l’interlocutore di negazionismo.
Perché però accade questo? E soprattutto perché non è sufficiente una semplice messa a punto del vocabolario, per dirimere la questione? In fondo basterebbe replicare che per «approntare gli interventi strutturali» necessari a contrastare la camorra bisognerebbe evitare di considerarla parte del paesaggio naturale della società napoletana. Per suscitare le migliori energie politiche, morali e civili bisognerebbe cioè dire esattamente il contrario di quanto si è venuti dicendo: che nessuna legge storica o sociale, men che meno antropologica o biologica, condanna i napoletani a vivere in mezzo all’illegalità e al malaffare. C’è uno slittamento inavvertito fra il dire che la camorra fa parte della società napoletana, che è un dato sociologico, e il dire che non può non farne parte. Che è invece una legge d’essenza: un dato costitutivo, appunto.
Ma daccapo: perché si produce questo slittamento? Per difetto di logica? Possibile, ma non probabile. Più probabile è che in queste posizione si esprima una certa cultura dell’emergenza, per cui non è mai abbastanza quanto è scritto nelle leggi, quanto è previsto dalle pene, quanto è possibile agli inquirenti. Una ideologia dell’inasprimento, potremmo chiamarla, parente stretta di quel populismo penale che per principio esulta quando è elevata una pena pur che sia, quando è introdotta una nuova figura di reato, quando è prolungato un termine di custodia.
Chi d’altra parte, invece di inasprire, si potrebbe mai proporre di attenuare? In verità, si dovrebbe dire piuttosto garantire, e non solo inquisire, ma daccapo: chi può permettersi di dirlo, senza rischiare imperiose squalifiche morali?
Forse, l’unica maniera per dirlo sarebbe appunto parlare in nome di quella società sana, viva, pulita, che non accetta di essere criminalizzata in blocco.
Se invece il crimine e la camorra non fossero solo un problema serio, drammatico, ma fossero addirittura un dato costitutivo di Napoli, allora questa via sarebbe preclusa, questa parola sarebbe zittita, e non vi sarebbe altra strada che quella che passa attraverso giudici e tribunali.
E invece altre strade ci sono, o perlomeno non bisogna smettere di cercarle lì dove possono e devono essere tracciate: nella politica e nella società. Rosy Bindi forse non le conosce, e conosce solo la Napoli costituita dalla camorra. Si può dunque sostenere, senza negare alcunché, che la camorra è costitutiva solo della conoscenza che Rosy Bindi ha di Napoli.

(Il Mattino, 17 settembre 2015)

I prof, gli alunni e la tenda di Pitagora

Acquisizione a schermo intero 14092015 110627.bmpInizia l’anno scolastico, e della tenda di Pitagora non c’è quasi più traccia. Per la verità, è passato qualche migliaio d’anni, da quando Pitagora si è ritirato definitivamente dall’insegnamento, e però qualche brandello di quella tenda dietro la quale Pitagora si celava ancora resisteva. Pitagora usava la tenda per mettere una distanza netta e percepibile fra sé e i propri allievi. Che non potevano essere ammessi al suo cospetto se non dopo molte lezioni, molte istruzioni, molte regole di vita. Si diceva anzi che avesse una coscia d’oro: immaginate se invece gli studenti di oggi pensino dei loro professori che essi nascondono qualche tesoro, o qualche superpotere. Eppure allora – voglio dire: in quel tempo in cui, in Occidente, fu inventata, più o meno, la trasmissione del sapere – funzionava così. Gli allievi da una parte della tenda, il maestro dall’altra. Poi verranno l’Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele e tante altre scuola ancora, e tutte manterranno l’idea che fra il docente e l’allievo c’è (ci deve essere) una differenza, una distanza, un dislivello: come insegna anche la fisica, se non c’è differenza, non c’è lavoro e non c’è spostamento.

Ma viviamo in tempi turbinosi di «disintermediazione», e l’idea che per arrivare alla «cosa del sapere» si debba compiere il giro lungo che passa attraverso il lavoro, lo studio, la ricerca, e che lavoro studio e ricerca passino attraverso le parole di un altro, il Maestro, si è fatta alquanto impopolare. Secondo Jeremy Rifkin, questa è l’era dell’accesso. Tutto a portata di tutti. E quindi se, per sapere quanto è lungo l’Orinoco, o come si traduce la perifrastica passiva, o come si calcola la derivata seconda, ci vuole solo una buona connessione visto che la risposta si trova sicuramente in rete, perché stare a sentire in aula per un’ora intera il professore, coi cellulari spenti e senza auricolari in testa? L’unica buona ragione rimane questa, che educazione, formazione ed istruzione suppongono una certa inaccessibilità preliminare. Una tenda deve insomma essere tirata da qualche parte, e la fatica richiesta agli studenti per toglierla deve essere necessaria e non surrogabile.

Ebbene, sono appena entrati in aula non mi ricordo più quante migliaia di nuovi docenti di ruolo. È un fatto positivo: innegabilmente. C’è un piano per l’edilizia scolastica che investe un bel po’ di soldi per la ristrutturazione di scuole, palestre e asili, e questo è un altro fatto positivo: indubbiamente. La buona scuola è legge, e si vedrà alla prova dei fatti se il nuovo ruolo del dirigente scolastico, la chiamata diretta dei docenti e i comitati di valutazione faranno fare alla scuola italiana un salto in avanti.

Ma prima di tutto: edifici, docenti, dirigenti  ce la faranno a tener su la tenda? Perché senza tenda non c’è scuola, non c’è insegnamento, non c’è allievo per un maestro, né studente per un professore. Eppure i docenti che oggi entreranno in aula (si spera con qualche entusiasmo) hanno pochi mezzi per far vedere, e valere, una differenza. C’è una cattedra, addossata a una parete, che è più grande dei banchi su cui siedono gli studenti , a volte una pedana e una sedia coi braccioli riservata solo al professore. Ma già la lavagna non è più quella di una volta: se si tratta infatti di una lavagna interattiva multimediale, c’è subito il rischio che il docente non sappia sfruttarne a fondo tutte le potenzialità. E che i ragazzi facciano meglio di lui. E poi: perché non dovrebbe prodursi l’impressione che si trovano molte più cose sulla superficie di un dispositivo elettronico che nelle parole di un professore?

E soprattutto: quanta parte delle cose che il professore dirà saranno più «vere» di tutte le altre cose che i ragazzi apprendono da ogni altro lato della loro esperienza? Una parte non piccola della verità è infatti costruita con i materiali con cui è fatta la realtà, ma occorre comunque che un’altra parte sia fatta delle parole con cui la realtà viene interpretata e, magari, messa un po’ in ordine. Di qualche verità, però, deve trattarsi. Se per esempio l’ordine si fa solo lungo l’asse vecchio/nuovo, non c’è scampo per i professori e le loro aule. Vecchie, anche se riverniciate. Bisogna che i docenti provino allora in un altro modo. Che non rinuncino a dire la verità dalla distanza che è la loro. Non piatta immedesimazione, dunque, e neppure artificiosa separazione. E la buona scuola ha quindi bisogno anzitutto di docenti che sappiano muoversi da una parte e dall’altra. Non troppo lontani, ma neppure troppo vicini. Troppo lontani non verrebbero ascoltati, troppo vicini diverrebbero subito superflui.

Trovare la giusta distanza è però il problema che ogni docente deve risolvere da sé. Una mano la società deve dargliela, riconoscendogli la centralità oggi smarrita. Il ruolo professionale conquistato dopo anni di precariato dà forse qualche serenità in più, ed è un fatto positivo: certamente. Ma ora un’altra mano, aggiornamento o non aggiornamento, il docente se la deve dare da sé, perché né la legge né i sindacati gli procureranno l’autorevolezza di cui ha bisogno, agli occhi dei suoi studenti. L’unica cosa che possiamo augurarci, è che questi occhi siano vivaci e impietosi, perché, alla fin fine, la via più sicura per avere una buona scuola e avere studenti che la esigano, che entrino in aula cercando davvero di capire dov’è la tenda, e cosa c’è dietro. Se dovessero scoprire che non c’è nulla, in quelle aule ci saranno forse ancora, per tutto il tempo dell’obbligo scolastico, ma per davvero noi non li incontreremo più.

(Il Mattino, 14 settembre 2015)

Il Mezzogiorno e la tattica dello smash

085000605-50dc22ae-25b0-416d-8c76-c32bbd77b3faCose che capitano: apri la pagina sportiva del New York Times e ci trovi la gigantografia di Roberta Vinci: il completino rosso fuoco, gli occhi serrati e l’urlo di liberazione dopo la vittoria. Una veterana del tennis italiano, spiega l’articolista agli americani, si è resa protagonista di una delle sorprese più grandi nella storia del tennis: battere la superfavorita Serena Williams e volare in finale. Dove incontra l’altra italiana arrivata fin lassù, pure lei per la prima volta: Flavia Pennetta, da Brindisi. Vola in finale Roberta, e vola a New York Matteo Renzi. Che non ci pensa due volte ad assistere di persona, dalla tribuna dell’Arthur Ashe Stadium, alla prima finale tutta italiana in un torneo del Grande Slam. Da non credere.

Per una di quelle singolari coincidenze a cui non si riesce a non dare significato, non ci sono solo le due tenniste pugliesi  a esibirsi su uno dei palcoscenici più prestigiosi dello sport mondiale, c’è pure la Puglia che aveva proprio ieri il suo appuntamento più importante: la Fiera del Levante, a Bari, dove solitamente si recano i Presidenti del Consiglio in carica. E dunque: Fiera del Levante con la cerimonia di inaugurazione, o US Open con la finale femminile di tennis? Nessun dubbio amletico, Renzi è partito per l’America, e potete giurare che non ci ha pensato su più di un secondo.

Non avrebbe dovuto? Ai posteri l’ardua sentenza. Di certo, la cronaca del quotidiano newyorkese riporterà tra i presenti alla finale il nome del nostro premier, senza stupirsene minimamente, e non prenderà  nota neppure di striscio delle polemiche nostrane. Va in scena un’immagine vincente dell’Italia, per giunta assolutamente imprevista alla vigilia: è difficile considerare fuori posto la presenza del capo del governo. Chi ricorda Sandro Pertini esultare con le braccia levate al Santiago Bernabeu di Madrid, durante la finale del mondiale di calcio in Spagna, nell’82, non ha molti dubbi in proposito.

Poi c’è Renzi, certo. Il quale Renzi  è alla perenne ricerca di esempi positivi, modelli vincenti, storie esaltanti, calamitato come non mai dai trionfi e dalle imprese. Quando poi sono imprese sportive, che portano in dote anche una straordinaria popolarità, sarebbe veramente da sciocchi farsele scappare. E ancor più sciocco sarebbe non provare a innestarle nella narrazione che il premier si sforza di proporre al Paese, perché corroborano l’idea che l’Italia è ripartita, dimostrano che abbiamo i talenti per farcela, infondono fiducia al Paese. Eccetera eccetera.

Poi però c’è la coincidenza, la quale ha voluto che di mezzo ci fosse la Puglia e il suo Presidente Emiliano. Che Renzi considera forse un antagonista dentro il suo partito. Emiliano non è solo il presidente della Regione che oggi va orgogliosa delle due tenniste finaliste: è anche l’uomo che, dopo il successo alle regionali dello scorso maggio, ha provato a proporsi come il capofila di un fronte compatto di regioni meridionali a guida democratica. Questa operazione non è al momento riuscita: il fronte non si è saldato e le regioni del Mezzogiorno non parlano con una voce sola (benché la programmazione dei fondi europei, a non dir altro, suggerirebbe comunque un maggior coordinamento a livello interregionale). Ma resta il fatto che Renzi non sembra considerare l’eventualità come un’opportunità, bensì come un problema, come il tentativo di costruire alternative alla sua leadership nel Pd. Per questo, tutte le volte che può nega e continuerà a negare ad Emiliano la foto opportunity e un palcoscenico nazionale.

Certo, in questa strategia qualche rischio c’è. Anzitutto, che prevalga la solita disattenzione, la stessa che per esempio ha circondato la discussione di venerdì mattina alla Camera sul Mezzogiorno, svoltosi in un’aula parlamentare desolatamente deserta. È vero che a Montecitorio nessuno vinceva nulla, ma i deputati si contavano davvero sulle dita delle due mani: un po’ pochino, per il principale squilibrio economico e sociale del Paese. L’altro rischio è che il prevalere di dinamiche di contrapposizione, invece che di cooperazione, comprometta i frutti del lavoro che pure si è cominciato a fare, per esempio sulla fiscalità di vantaggio per le aree meridionali. Stringere un patto fra i governatori delle regioni del Sud e il governo nazionale contribuirebbe non solo a comporre un quadro istituzionale coerente con gli impegni e i progetti da realizzare, ma anche a costruire un pezzo di quella fiducia che serve al Paese, e che il premier considera giustamente essere essenziale alla ripresa del Mezzogiorno.

Però le chiacchiere stanno a zero, ha detto Renzi, e ha ragione. Il successo delle politiche del governo sul Mezzogiorno non è certo legato al nastro della Fiera del Levante. E nemmeno, va da sé, all’esito della finale di Flushing Meadows. Perciò godiamoci questo successo dello sport italiano, godiamoci la vittoria di Flavia Pennetta, brindiamo pure per la vittoria ciclistica di Fabio Aru alla Vuelta, tifiamo per Valentino Rossi, sogniamo per la rimonta della Ferrari e sosteniamo la nazionale di basket agli Europei. I mondiali di atletica leggera sono stati un disastro: non è proprio il caso di mettersi a gufare.

(Il Mattino, 13 settembre 2015)

La realtà persa sulle poltrone del talk show

Immagine 11 settembre 2015

Se fosse possibile mantenere un filo di leggerezza, si potrebbe scomodare una massima evangelica: «oportet ut scandala eveniant». E cioè: un bello scandalo è proprio quel che ci voleva. Non però per tirar su gli ascolti, o per inaugurare con il botto la nuova stagione televisiva, ma per avviare una riflessione più generale sul giornalismo televisivo. Che s’è seduto sulle poltrone e i divanetti dei talk show, e di lì si schioda sempre più faticosamente, sempre più difficilmente.

Naturalmente, la riflessione deve andare oltre l’indignazione o l’amarezza per la trasmissione di Porta a Porta dell’altra sera, quando sono stati ospiti di Bruno Vespa la figlia ed il nipote del patriarca del clan dei Casamonica, già omaggiato nei giorni scorsi a Roma di uno sfarzoso funerale. Lì dove si sono seduti nelle passate stagioni, e ancora si siederanno, le più alte cariche dello Stato, nonché personaggi celebri del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo, proprio lì erano accomodati Vera e Vittorino Casamonica, a raccontare quanto fosse grande il «re di Roma».

La trasmissione ha sollevato un’ondata robustissima di critiche. Al cui centro però non può trovarsi il semplice fatto che Vespa ha dato la parola ai familiari del boss deceduto. Il giornalismo dà la parola a chiunque abbia qualcosa da raccontare, a chiunque permetta di comprendere fatti e circostanze meritevoli di attenzione, a chiunque consenta di avvicinare e conoscere pezzi del nostro Paese, per gradevoli o sgradevoli che siano. Ci si regola in base alla notizia: se la notizia c’è, la si dà. Ed è una notizia ascoltare chi fosse Vittorio Casamonica secondo i suoi familiari. Del resto, è evidente: quale giornale non ospiterebbe un sevizio, un’inchiesta, un reportage che aiutasse a capire i mondi-di-mezzo da cui, lo si voglia o no, sono lambite anche le nostre esistenze? Quello dei Casamonica è uno di questi mondi: nei codici di comportamento, nelle abitudini di consumo, persino nei gusti musicali, e naturalmente nel coacervo di interessi e nelle dinamiche sociali intrise di violenza che lo attraversano.

Il motivo di riflessione, dunque, è un altro. E cioè non se queste cose si devono vedere, sapere, raccontare, ma come lo si possa fare. Come, e dove. Lo studio televisivo con le poltroncine sul proscenio – da molti anni signore incontrastato dell’approfondimento giornalistico nella televisione italiana  – è il mezzo, è il luogo adatto? Funziona allo scopo?

Di sicuro è funzionale ai costi. Per fare uno share di tutto rispetto, infatti, di soldi ce ne vogliono pochi. Ci vuole senz’altro un buon conduttore e una buona redazione, ma poco altro.

O meglio, quell’altro che ci vuole è l’Ospite. Il quale ospite rientra necessariamente in una di queste due categorie: o è una personalità di riconosciuta autorevolezza, o è persona  che dall’apparire in trasmissione ricava una autorevolezza, se non riconosciuta, riconoscibile dal pubblico. E dunque ci va, anzi: smania per andarci,.

Con quali effetti, però? Un effetto di omaggio. Lo ricevono il politico e l’esperto, il cantante e il cardinale, il professore ed il campione sportivo, il testimone e il «caso umano». Tutti, indistintamente. Tutti si siedono sulle stesse poltroncine, tutti sono incorniciati dalle stesse telecamere. Tutti sono nello stesso spazio: in studio. Così, per quanto ficcanti siano le domande o energico il contraddittorio, tutto si muove dentro lo stesso acquario, e su tutto prevale quell’unica logica di rappresentazione.

Un grande antropologo britannico, Tim Ingold, dice che per studiare gli uomini ci vuole osservazione, non oggettivazione. La prima entra dentro le cose e gli uomini e si fa insieme a loro; la seconda li tiene a distanza, li immobilizza ed anzi li raggela. Possiamo fare un passo ulteriore. Seduti nel salotto televisivo, intronizzati nella figura dell’Ospite, non solo gli uomini non vengono osservati, ma vengono soltanto esibiti.

Questa esibizione è in sé spudorata, ed è infatti la televisione il regno della più assoluta spudoratezza.

Ma allora la domanda è: cosa vediamo davvero di quel mondo di mezzo, che vive in una zona grigia, più o meno nascosta, una zona ambigua, torbida, sfuggente, quando non proviamo ad entrarci dentro, magari con un’inchiesta d’altri tempi, ma lo invitiamo nel salotto televisivo, lo portiamo sotto le luci dei riflettori? Quando ai Casamonica togliamo la musica che loro avevano scelto per il funerale  del capofamiglia, e ci mettiamo quella della sigla del programma?

La domanda non suoni retorica. Perché il problema di scoprire che paese l’Italia sia diventata, cosa sono i quartieri delle grande città, chi comanda nei circuiti dell’economia legale e di quella illegale, chi controlla il territorio e con quali mezzi, quali modelli sociali e culturali si impongono, cosa succede nei luoghi reali di vita delle persone esiste. Dentro tutto ciò ci sono pure i Casamonica. Ed esiste pure, aggiungiamolo, la necessità di raccontare le ginestre che sorgono in mezzo al deserto, o i pezzi di paese che cambiano, le cose nuove che si inventano e quelle vecchie che vanno a morire. Ma c’è la voglia di raccontarle davvero queste cose? E come, e da dove la Rai pensa di farlo? Forse tutta la levata di scudi più o meno moralistica di queste ore non vale la più banale richiesta che si può rivolgere al servizio pubblico, di provare a fare, insieme allo spettacolo e alle sue pur legittime esigenze, anche un’altra non piccola opera, che è opera di conoscenza.

(Il Mattino, 12 settembre 2015)

Perché servono risposte grandi

Acquisizione a schermo intero 08092015 140335.bmpÈ trascorso un mese dalla direzione nazionale del Pd convocata per discutere di Mezzogiorno. Mancano invece pochi giorni alla definizione delle misure che dovrebbero dare corpo al «masterplan» annunciato in quella circostanza dal premier. Renzi ha cominciato a parlarne: varie ipotesi sono allo studio. In attesa di conoscerne il dettaglio, si può cominciare però a ragionare sui diversi piani su cui le future decisioni del governo cadranno. Perché c’è anzitutto il piano delle misure economiche: del credito d’imposta o degli sgravi contributivi che sarebbero allo studio, con l’obiettivo di rilanciare anzitutto gli investimenti; ma c’è anche una questione più grande, che fa da cornice generale alle idee e agli strumenti in corso di definizione. E che paiono deboli e incerti anche perché cominciano a profilarsi dopo anni, se non decenni, di sostanziale rimozione del Mezzogiorno dalle politiche nazionali. Si è detto addirittura che la seconda Repubblica poteva vantare se non altro questo merito, di aver mandato finalmente in soffitta l’annosa «questione meridionale». Col magro risultato che, a distanza di vent’anni, la linea della palma di cui parlava Sciascia sta lì: casomai più su e non più giù. E i dualismi economici si sono accentuati, le distanze sono aumentate, le asimmetrie fra Nord e Sud del Paese cresciute.

Quando, poco più di un anno fa, questo giornale provò a rilanciare una sorta di manifesto per un nuovo meridionalismo, cominciò a farlo proprio a partire dai termini del discorso pubblico di cui, pensavamo, bisogna riappropriarsi. Al primo punto stava cioè la necessità di dire con forza che una questione meridionale esiste eccome: senza sconti per nessuno – classi dirigenti meridionali comprese – ma senza neppure alibi o pretesti, presi magari dalla storia o dal clima, dall’antropologia o dalla geografia, per non parlarne affatto.

La questione più grande è dunque se si possa tornare a parlare di Mezzogiorno – parlare, dico, a tutto il Paese – senza apparire vecchi o superati, e senza neppure vedere più politici frenati dal timore di perder voti per il solo fatto di aprir bocca. Dopodiché viene la consapevolezza che, però, sul piano delle misure concrete da adottare non c’è nulla che dall’oggi al domani possa di colpo cambiare le cose, e che, d’altra parte, uno sforzo straordinario è richiesto, per cominciare, cominciare almeno  a recuperare il terreno perduto.

Ma i piani su cui intervenire sono tanti. Basta guardarsi intorno, e basta capire quanto importante sia tutto questo «intorno». Gli psicologi vi diranno che conta, certo, quello che abbiamo in testa, ma conta pure quello che è intorno alla testa: significati, valori e azioni dipendono da ciò che è dentro la testa ma pure da ciò dentro cui la testa sta. I nostri quartieri, le nostre piazze e le nostre strade. È di ieri la notizia che, dopo i fatti di sangue dei giorni scorsi, le misure di sicurezza nel rione Sanità saranno aumentate, che la presenza dello Stato si farà sentire, che ci saranno più polizia e carabinieri nelle zone a rischio, che saranno inviati altri uomini e che queste misure non avranno un carattere temporaneo. Ma è evidente che non sarà la risposta repressiva, da sola, a risolvere i problemi di sicurezza e legalità che affliggono Napoli e il Mezzogiorno. Non saranno i cinquanta uomini mandati da Alfano a farlo, e probabilmente non potrebbero riuscirvi neppure se fossero in cinquecento, o in cinquemila. La repressione è sicuramente una delle leve che devono essere azionate, insieme a una azione di contrasto giudiziario che abbia carattere di certezza. Ma nessuno si illuda che arresti o condanne potranno mai bastare, se la situazione economica, sociale, urbanistica rimarrà quella che è oggi, quella che abbiamo sotto i nostri occhi. Lo Stato è fatto di polizia e tribunali, ma pure di ospedali e scuole: debbono funzionare quelli, ma ancor più devono funzionare questi. Con gli attuali indici di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile, indici da record, si può immaginare davvero che spariscano la delinquenza e la criminalità piccola e grande grazie ai cinquanta uomini in più? Si può anche solo ipotizzare che riqualificazione e rigenerazione del tessuto urbano facciano solo da sfondo all’azione repressiva dello Stato, o non debbono stare piuttosto al centro di ogni ipotesi di riscatto del Mezzogiorno?

Non è allora la stessa mole del problema a rappresentare una prova politica di prima grandezza? In queste ore i giornali e l’opinione pubblica europea è piena di ammirazione per la decisione della cancelliera Merkel di accogliere i rifugiati che premono alle porte dell’Unione Europea. Quel che anzitutto colpisce è per dir così la dimensione della decisione, il tentativo cioè di dare una risposta di ampiezza pari al problema da affrontare. Ecco: noi abbiamo in casa una sfida di carattere epocale, perché tale è il formato della questione meridionale. Non ha senso dunque chiedere se cinquanta uomini non siano pochi, oppure se non giungano tardivamente; ha senso però chiedere se stia o meno maturando la consapevolezza che occorrono risposte grandi, di lunga lena, di lunga durata, che si misurino con un compito storico, a cui è legato davvero il futuro del Paese, sotto e sopra la linea della palma e del caffè ristretto.

(Il Mattino, 8 settembre 2015)

Lo psicodramma sale in cattedra, ma agli studenti chi ci pensa?

che fatica riformarIl racconto era da fine del mondo. Passata la quale, però, si scopre con qualche stupore che la deportazione forzata e l’esodo biblico dei docenti assunti nella scuola non ci sono stati. Non, almeno, nelle proporzioni temute. Il Ministro dell’Istruzione Giannini ha fornito laconicamente i dati: le persone che hanno trovato posto fuori regione sono solo settemila. Di queste, la maggior parte proviene dalla Sicilia e dalla Campania, mentre le sedi di destinazione si trovano per lo più in Lazio o Lombardia. Come se non bastasse, il Ministro nota che il numero di spostamenti «lunghi» è inferiore a quello dello scorso anno, quando i precari a caccia di supplenze annuali, emigrati per lo più da Sud a Nord, è stato di circa 7700.

E questo è quanto. Resta da completare il piano di assunzioni, che a fine anno toccherà quasi quota centomila, ma alla fine il numero dei «deportati» si aggirerà intorno al quindici per cento del totale.

E l’ora x? E il timore e il tremore con il quale si è attesa la mezzanotte, la fronte imperlata di sudore, le lacrime e le mani giunte? Parliamoci chiaro: giudicata dal punto di vista di chi si trova costretto ad emigrare, ci può stare lo sconforto per un esito della propria carriera scolastica che dopo anni di precariato, in qualche caso decenni, si sperava diverso. Ma appunto: dopo anni o decenni. Non dunque all’assunzione scattata quest’anno, ma al ritardo accumulato negli anni scorsi, all’imballamento del sistema, all’intasamento delle graduatorie vanno imputate le difficoltà soggettive  in cui si trovano persone non proprio di primo pelo, o di prima nomina, che dopo anni di sacrifici devono riprogrammare la loro vita personale e familiare, per ottenere il sospirato posto fisso.

Come dobbiamo invece guardare la cosa, se la giudichiamo con un metro un po’ più oggettivo, avendo riguardo alle esigenze complessive del mondo della scuola, ai posti vacanti e agli studenti? È così negativo il fatto che a partire dal prossimo anno scolastico vi saranno in aula centomila docenti di ruolo in più, con tutto ciò che questo significa in termini di qualità e continuità della didattica? Davvero bisogna continuare a prendersela con l’impianto autoritario della legge, come recrimina il sindacato? La Giannini merita veramente di vestire i panni di un novello Minosse, che «giudica e manda secondo ch’avvinghia», e questa la sbatte da Cefalù a Cantù e quell’altra la sposta da Boscoreale in Val Camonica, e tutti e tutte manda in gironi infernali, dov’è pianto e stridore di denti?

Non pare proprio. La fine del mondo non è arrivata. Le famiglie si informano sui libri di testo, sui bus che porteranno a scuola i loro figli, sull’orario scolastico, sul nuovo preside d’istituto o sul nuovo professore di matematica. La scuola italiana non ha certo voltato pagina tutta in una notte, ma quelli che si aspettavano l’apocalisse – o forse solo braccia conserte e banchi rovesciati – devono ricredersi. E, alla luce dei numeri snocciolati dal Ministero, riesce difficile non pensare che la «buona scuola» sia stata in questi mesi il terreno di uno scontro tutto politico, di un tentativo di mettere in difficoltà la maggioranza di centrosinistra alienandogli una parte della sua tradizionale base sociale. Se così non fosse, non sarebbe mai stato possibile che il nodo dei trasferimenti divenisse la prova provata di una legge sbagliata e iniqua, quando invece si è trattato solo di un passaggio organizzativo non molto diverso da quello che ad inizio di ogni anno la scuola ha dovuto affrontare, mandando i supplenti a coprire le cattedre vacanti, lì dove si trovano (che non è sempre dove si desidera che siano). La vera differenza è che quest’anno su quelle cattedre ci vanno docenti di ruolo, ma è una differenza positiva, che torna a sicuro vantaggio degli studenti.

Insomma: una vicenda assai istruttiva. Fare le riforme in questo paese è complicato assai. Anche perché si viene intralciati, come s’è visto, da polemiche spesso pretestuose, o francamente di sapore corporativo, quando invece su ben altri terreni ci si dovrebbe misurare: sui contenuti didattici, sulle metodologie, sulla mobilità studentesca, sui contenuti dell’aggiornamento professionale, sul rapporto col territorio e le famiglie, sulle risorse e le strutture disponibili. La verità è che la riforma della scuola non è fatta dai nuovi docenti, soprattutto quando nuovi essi non sono, ma magari un po’ attempati, un po’ stanchi, a volte sfiduciati. Questo spiega la scarsa propensione di taluni a prendere una nuova strada, quando un pezzo di essa è stata già percorsa, ma non giustifica le strategie politiche o sindacali, costruite strumentalmente sopra.  E soprattutto costringe a mettersi nei panni degli studenti, quelli che la strada nuova debbono ancora provare a tracciarla. A essi cosa possiamo augurare? Di incontrare docenti con il futuro dietro le spalle, o piuttosto in grado di mostrarlo davanti a loro? E a quanti chilometri da casa si trova oggi il futuro?

(Il Mattino, 3 settembre 2015)