È trascorso un mese dalla direzione nazionale del Pd convocata per discutere di Mezzogiorno. Mancano invece pochi giorni alla definizione delle misure che dovrebbero dare corpo al «masterplan» annunciato in quella circostanza dal premier. Renzi ha cominciato a parlarne: varie ipotesi sono allo studio. In attesa di conoscerne il dettaglio, si può cominciare però a ragionare sui diversi piani su cui le future decisioni del governo cadranno. Perché c’è anzitutto il piano delle misure economiche: del credito d’imposta o degli sgravi contributivi che sarebbero allo studio, con l’obiettivo di rilanciare anzitutto gli investimenti; ma c’è anche una questione più grande, che fa da cornice generale alle idee e agli strumenti in corso di definizione. E che paiono deboli e incerti anche perché cominciano a profilarsi dopo anni, se non decenni, di sostanziale rimozione del Mezzogiorno dalle politiche nazionali. Si è detto addirittura che la seconda Repubblica poteva vantare se non altro questo merito, di aver mandato finalmente in soffitta l’annosa «questione meridionale». Col magro risultato che, a distanza di vent’anni, la linea della palma di cui parlava Sciascia sta lì: casomai più su e non più giù. E i dualismi economici si sono accentuati, le distanze sono aumentate, le asimmetrie fra Nord e Sud del Paese cresciute.
Quando, poco più di un anno fa, questo giornale provò a rilanciare una sorta di manifesto per un nuovo meridionalismo, cominciò a farlo proprio a partire dai termini del discorso pubblico di cui, pensavamo, bisogna riappropriarsi. Al primo punto stava cioè la necessità di dire con forza che una questione meridionale esiste eccome: senza sconti per nessuno – classi dirigenti meridionali comprese – ma senza neppure alibi o pretesti, presi magari dalla storia o dal clima, dall’antropologia o dalla geografia, per non parlarne affatto.
La questione più grande è dunque se si possa tornare a parlare di Mezzogiorno – parlare, dico, a tutto il Paese – senza apparire vecchi o superati, e senza neppure vedere più politici frenati dal timore di perder voti per il solo fatto di aprir bocca. Dopodiché viene la consapevolezza che, però, sul piano delle misure concrete da adottare non c’è nulla che dall’oggi al domani possa di colpo cambiare le cose, e che, d’altra parte, uno sforzo straordinario è richiesto, per cominciare, cominciare almeno a recuperare il terreno perduto.
Ma i piani su cui intervenire sono tanti. Basta guardarsi intorno, e basta capire quanto importante sia tutto questo «intorno». Gli psicologi vi diranno che conta, certo, quello che abbiamo in testa, ma conta pure quello che è intorno alla testa: significati, valori e azioni dipendono da ciò che è dentro la testa ma pure da ciò dentro cui la testa sta. I nostri quartieri, le nostre piazze e le nostre strade. È di ieri la notizia che, dopo i fatti di sangue dei giorni scorsi, le misure di sicurezza nel rione Sanità saranno aumentate, che la presenza dello Stato si farà sentire, che ci saranno più polizia e carabinieri nelle zone a rischio, che saranno inviati altri uomini e che queste misure non avranno un carattere temporaneo. Ma è evidente che non sarà la risposta repressiva, da sola, a risolvere i problemi di sicurezza e legalità che affliggono Napoli e il Mezzogiorno. Non saranno i cinquanta uomini mandati da Alfano a farlo, e probabilmente non potrebbero riuscirvi neppure se fossero in cinquecento, o in cinquemila. La repressione è sicuramente una delle leve che devono essere azionate, insieme a una azione di contrasto giudiziario che abbia carattere di certezza. Ma nessuno si illuda che arresti o condanne potranno mai bastare, se la situazione economica, sociale, urbanistica rimarrà quella che è oggi, quella che abbiamo sotto i nostri occhi. Lo Stato è fatto di polizia e tribunali, ma pure di ospedali e scuole: debbono funzionare quelli, ma ancor più devono funzionare questi. Con gli attuali indici di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile, indici da record, si può immaginare davvero che spariscano la delinquenza e la criminalità piccola e grande grazie ai cinquanta uomini in più? Si può anche solo ipotizzare che riqualificazione e rigenerazione del tessuto urbano facciano solo da sfondo all’azione repressiva dello Stato, o non debbono stare piuttosto al centro di ogni ipotesi di riscatto del Mezzogiorno?
Non è allora la stessa mole del problema a rappresentare una prova politica di prima grandezza? In queste ore i giornali e l’opinione pubblica europea è piena di ammirazione per la decisione della cancelliera Merkel di accogliere i rifugiati che premono alle porte dell’Unione Europea. Quel che anzitutto colpisce è per dir così la dimensione della decisione, il tentativo cioè di dare una risposta di ampiezza pari al problema da affrontare. Ecco: noi abbiamo in casa una sfida di carattere epocale, perché tale è il formato della questione meridionale. Non ha senso dunque chiedere se cinquanta uomini non siano pochi, oppure se non giungano tardivamente; ha senso però chiedere se stia o meno maturando la consapevolezza che occorrono risposte grandi, di lunga lena, di lunga durata, che si misurino con un compito storico, a cui è legato davvero il futuro del Paese, sotto e sopra la linea della palma e del caffè ristretto.
(Il Mattino, 8 settembre 2015)