Archivi del giorno: settembre 8, 2015

Perché servono risposte grandi

Acquisizione a schermo intero 08092015 140335.bmpÈ trascorso un mese dalla direzione nazionale del Pd convocata per discutere di Mezzogiorno. Mancano invece pochi giorni alla definizione delle misure che dovrebbero dare corpo al «masterplan» annunciato in quella circostanza dal premier. Renzi ha cominciato a parlarne: varie ipotesi sono allo studio. In attesa di conoscerne il dettaglio, si può cominciare però a ragionare sui diversi piani su cui le future decisioni del governo cadranno. Perché c’è anzitutto il piano delle misure economiche: del credito d’imposta o degli sgravi contributivi che sarebbero allo studio, con l’obiettivo di rilanciare anzitutto gli investimenti; ma c’è anche una questione più grande, che fa da cornice generale alle idee e agli strumenti in corso di definizione. E che paiono deboli e incerti anche perché cominciano a profilarsi dopo anni, se non decenni, di sostanziale rimozione del Mezzogiorno dalle politiche nazionali. Si è detto addirittura che la seconda Repubblica poteva vantare se non altro questo merito, di aver mandato finalmente in soffitta l’annosa «questione meridionale». Col magro risultato che, a distanza di vent’anni, la linea della palma di cui parlava Sciascia sta lì: casomai più su e non più giù. E i dualismi economici si sono accentuati, le distanze sono aumentate, le asimmetrie fra Nord e Sud del Paese cresciute.

Quando, poco più di un anno fa, questo giornale provò a rilanciare una sorta di manifesto per un nuovo meridionalismo, cominciò a farlo proprio a partire dai termini del discorso pubblico di cui, pensavamo, bisogna riappropriarsi. Al primo punto stava cioè la necessità di dire con forza che una questione meridionale esiste eccome: senza sconti per nessuno – classi dirigenti meridionali comprese – ma senza neppure alibi o pretesti, presi magari dalla storia o dal clima, dall’antropologia o dalla geografia, per non parlarne affatto.

La questione più grande è dunque se si possa tornare a parlare di Mezzogiorno – parlare, dico, a tutto il Paese – senza apparire vecchi o superati, e senza neppure vedere più politici frenati dal timore di perder voti per il solo fatto di aprir bocca. Dopodiché viene la consapevolezza che, però, sul piano delle misure concrete da adottare non c’è nulla che dall’oggi al domani possa di colpo cambiare le cose, e che, d’altra parte, uno sforzo straordinario è richiesto, per cominciare, cominciare almeno  a recuperare il terreno perduto.

Ma i piani su cui intervenire sono tanti. Basta guardarsi intorno, e basta capire quanto importante sia tutto questo «intorno». Gli psicologi vi diranno che conta, certo, quello che abbiamo in testa, ma conta pure quello che è intorno alla testa: significati, valori e azioni dipendono da ciò che è dentro la testa ma pure da ciò dentro cui la testa sta. I nostri quartieri, le nostre piazze e le nostre strade. È di ieri la notizia che, dopo i fatti di sangue dei giorni scorsi, le misure di sicurezza nel rione Sanità saranno aumentate, che la presenza dello Stato si farà sentire, che ci saranno più polizia e carabinieri nelle zone a rischio, che saranno inviati altri uomini e che queste misure non avranno un carattere temporaneo. Ma è evidente che non sarà la risposta repressiva, da sola, a risolvere i problemi di sicurezza e legalità che affliggono Napoli e il Mezzogiorno. Non saranno i cinquanta uomini mandati da Alfano a farlo, e probabilmente non potrebbero riuscirvi neppure se fossero in cinquecento, o in cinquemila. La repressione è sicuramente una delle leve che devono essere azionate, insieme a una azione di contrasto giudiziario che abbia carattere di certezza. Ma nessuno si illuda che arresti o condanne potranno mai bastare, se la situazione economica, sociale, urbanistica rimarrà quella che è oggi, quella che abbiamo sotto i nostri occhi. Lo Stato è fatto di polizia e tribunali, ma pure di ospedali e scuole: debbono funzionare quelli, ma ancor più devono funzionare questi. Con gli attuali indici di dispersione scolastica e di disoccupazione giovanile, indici da record, si può immaginare davvero che spariscano la delinquenza e la criminalità piccola e grande grazie ai cinquanta uomini in più? Si può anche solo ipotizzare che riqualificazione e rigenerazione del tessuto urbano facciano solo da sfondo all’azione repressiva dello Stato, o non debbono stare piuttosto al centro di ogni ipotesi di riscatto del Mezzogiorno?

Non è allora la stessa mole del problema a rappresentare una prova politica di prima grandezza? In queste ore i giornali e l’opinione pubblica europea è piena di ammirazione per la decisione della cancelliera Merkel di accogliere i rifugiati che premono alle porte dell’Unione Europea. Quel che anzitutto colpisce è per dir così la dimensione della decisione, il tentativo cioè di dare una risposta di ampiezza pari al problema da affrontare. Ecco: noi abbiamo in casa una sfida di carattere epocale, perché tale è il formato della questione meridionale. Non ha senso dunque chiedere se cinquanta uomini non siano pochi, oppure se non giungano tardivamente; ha senso però chiedere se stia o meno maturando la consapevolezza che occorrono risposte grandi, di lunga lena, di lunga durata, che si misurino con un compito storico, a cui è legato davvero il futuro del Paese, sotto e sopra la linea della palma e del caffè ristretto.

(Il Mattino, 8 settembre 2015)

Lo psicodramma sale in cattedra, ma agli studenti chi ci pensa?

che fatica riformarIl racconto era da fine del mondo. Passata la quale, però, si scopre con qualche stupore che la deportazione forzata e l’esodo biblico dei docenti assunti nella scuola non ci sono stati. Non, almeno, nelle proporzioni temute. Il Ministro dell’Istruzione Giannini ha fornito laconicamente i dati: le persone che hanno trovato posto fuori regione sono solo settemila. Di queste, la maggior parte proviene dalla Sicilia e dalla Campania, mentre le sedi di destinazione si trovano per lo più in Lazio o Lombardia. Come se non bastasse, il Ministro nota che il numero di spostamenti «lunghi» è inferiore a quello dello scorso anno, quando i precari a caccia di supplenze annuali, emigrati per lo più da Sud a Nord, è stato di circa 7700.

E questo è quanto. Resta da completare il piano di assunzioni, che a fine anno toccherà quasi quota centomila, ma alla fine il numero dei «deportati» si aggirerà intorno al quindici per cento del totale.

E l’ora x? E il timore e il tremore con il quale si è attesa la mezzanotte, la fronte imperlata di sudore, le lacrime e le mani giunte? Parliamoci chiaro: giudicata dal punto di vista di chi si trova costretto ad emigrare, ci può stare lo sconforto per un esito della propria carriera scolastica che dopo anni di precariato, in qualche caso decenni, si sperava diverso. Ma appunto: dopo anni o decenni. Non dunque all’assunzione scattata quest’anno, ma al ritardo accumulato negli anni scorsi, all’imballamento del sistema, all’intasamento delle graduatorie vanno imputate le difficoltà soggettive  in cui si trovano persone non proprio di primo pelo, o di prima nomina, che dopo anni di sacrifici devono riprogrammare la loro vita personale e familiare, per ottenere il sospirato posto fisso.

Come dobbiamo invece guardare la cosa, se la giudichiamo con un metro un po’ più oggettivo, avendo riguardo alle esigenze complessive del mondo della scuola, ai posti vacanti e agli studenti? È così negativo il fatto che a partire dal prossimo anno scolastico vi saranno in aula centomila docenti di ruolo in più, con tutto ciò che questo significa in termini di qualità e continuità della didattica? Davvero bisogna continuare a prendersela con l’impianto autoritario della legge, come recrimina il sindacato? La Giannini merita veramente di vestire i panni di un novello Minosse, che «giudica e manda secondo ch’avvinghia», e questa la sbatte da Cefalù a Cantù e quell’altra la sposta da Boscoreale in Val Camonica, e tutti e tutte manda in gironi infernali, dov’è pianto e stridore di denti?

Non pare proprio. La fine del mondo non è arrivata. Le famiglie si informano sui libri di testo, sui bus che porteranno a scuola i loro figli, sull’orario scolastico, sul nuovo preside d’istituto o sul nuovo professore di matematica. La scuola italiana non ha certo voltato pagina tutta in una notte, ma quelli che si aspettavano l’apocalisse – o forse solo braccia conserte e banchi rovesciati – devono ricredersi. E, alla luce dei numeri snocciolati dal Ministero, riesce difficile non pensare che la «buona scuola» sia stata in questi mesi il terreno di uno scontro tutto politico, di un tentativo di mettere in difficoltà la maggioranza di centrosinistra alienandogli una parte della sua tradizionale base sociale. Se così non fosse, non sarebbe mai stato possibile che il nodo dei trasferimenti divenisse la prova provata di una legge sbagliata e iniqua, quando invece si è trattato solo di un passaggio organizzativo non molto diverso da quello che ad inizio di ogni anno la scuola ha dovuto affrontare, mandando i supplenti a coprire le cattedre vacanti, lì dove si trovano (che non è sempre dove si desidera che siano). La vera differenza è che quest’anno su quelle cattedre ci vanno docenti di ruolo, ma è una differenza positiva, che torna a sicuro vantaggio degli studenti.

Insomma: una vicenda assai istruttiva. Fare le riforme in questo paese è complicato assai. Anche perché si viene intralciati, come s’è visto, da polemiche spesso pretestuose, o francamente di sapore corporativo, quando invece su ben altri terreni ci si dovrebbe misurare: sui contenuti didattici, sulle metodologie, sulla mobilità studentesca, sui contenuti dell’aggiornamento professionale, sul rapporto col territorio e le famiglie, sulle risorse e le strutture disponibili. La verità è che la riforma della scuola non è fatta dai nuovi docenti, soprattutto quando nuovi essi non sono, ma magari un po’ attempati, un po’ stanchi, a volte sfiduciati. Questo spiega la scarsa propensione di taluni a prendere una nuova strada, quando un pezzo di essa è stata già percorsa, ma non giustifica le strategie politiche o sindacali, costruite strumentalmente sopra.  E soprattutto costringe a mettersi nei panni degli studenti, quelli che la strada nuova debbono ancora provare a tracciarla. A essi cosa possiamo augurare? Di incontrare docenti con il futuro dietro le spalle, o piuttosto in grado di mostrarlo davanti a loro? E a quanti chilometri da casa si trova oggi il futuro?

(Il Mattino, 3 settembre 2015)