Lo psicodramma sale in cattedra, ma agli studenti chi ci pensa?

che fatica riformarIl racconto era da fine del mondo. Passata la quale, però, si scopre con qualche stupore che la deportazione forzata e l’esodo biblico dei docenti assunti nella scuola non ci sono stati. Non, almeno, nelle proporzioni temute. Il Ministro dell’Istruzione Giannini ha fornito laconicamente i dati: le persone che hanno trovato posto fuori regione sono solo settemila. Di queste, la maggior parte proviene dalla Sicilia e dalla Campania, mentre le sedi di destinazione si trovano per lo più in Lazio o Lombardia. Come se non bastasse, il Ministro nota che il numero di spostamenti «lunghi» è inferiore a quello dello scorso anno, quando i precari a caccia di supplenze annuali, emigrati per lo più da Sud a Nord, è stato di circa 7700.

E questo è quanto. Resta da completare il piano di assunzioni, che a fine anno toccherà quasi quota centomila, ma alla fine il numero dei «deportati» si aggirerà intorno al quindici per cento del totale.

E l’ora x? E il timore e il tremore con il quale si è attesa la mezzanotte, la fronte imperlata di sudore, le lacrime e le mani giunte? Parliamoci chiaro: giudicata dal punto di vista di chi si trova costretto ad emigrare, ci può stare lo sconforto per un esito della propria carriera scolastica che dopo anni di precariato, in qualche caso decenni, si sperava diverso. Ma appunto: dopo anni o decenni. Non dunque all’assunzione scattata quest’anno, ma al ritardo accumulato negli anni scorsi, all’imballamento del sistema, all’intasamento delle graduatorie vanno imputate le difficoltà soggettive  in cui si trovano persone non proprio di primo pelo, o di prima nomina, che dopo anni di sacrifici devono riprogrammare la loro vita personale e familiare, per ottenere il sospirato posto fisso.

Come dobbiamo invece guardare la cosa, se la giudichiamo con un metro un po’ più oggettivo, avendo riguardo alle esigenze complessive del mondo della scuola, ai posti vacanti e agli studenti? È così negativo il fatto che a partire dal prossimo anno scolastico vi saranno in aula centomila docenti di ruolo in più, con tutto ciò che questo significa in termini di qualità e continuità della didattica? Davvero bisogna continuare a prendersela con l’impianto autoritario della legge, come recrimina il sindacato? La Giannini merita veramente di vestire i panni di un novello Minosse, che «giudica e manda secondo ch’avvinghia», e questa la sbatte da Cefalù a Cantù e quell’altra la sposta da Boscoreale in Val Camonica, e tutti e tutte manda in gironi infernali, dov’è pianto e stridore di denti?

Non pare proprio. La fine del mondo non è arrivata. Le famiglie si informano sui libri di testo, sui bus che porteranno a scuola i loro figli, sull’orario scolastico, sul nuovo preside d’istituto o sul nuovo professore di matematica. La scuola italiana non ha certo voltato pagina tutta in una notte, ma quelli che si aspettavano l’apocalisse – o forse solo braccia conserte e banchi rovesciati – devono ricredersi. E, alla luce dei numeri snocciolati dal Ministero, riesce difficile non pensare che la «buona scuola» sia stata in questi mesi il terreno di uno scontro tutto politico, di un tentativo di mettere in difficoltà la maggioranza di centrosinistra alienandogli una parte della sua tradizionale base sociale. Se così non fosse, non sarebbe mai stato possibile che il nodo dei trasferimenti divenisse la prova provata di una legge sbagliata e iniqua, quando invece si è trattato solo di un passaggio organizzativo non molto diverso da quello che ad inizio di ogni anno la scuola ha dovuto affrontare, mandando i supplenti a coprire le cattedre vacanti, lì dove si trovano (che non è sempre dove si desidera che siano). La vera differenza è che quest’anno su quelle cattedre ci vanno docenti di ruolo, ma è una differenza positiva, che torna a sicuro vantaggio degli studenti.

Insomma: una vicenda assai istruttiva. Fare le riforme in questo paese è complicato assai. Anche perché si viene intralciati, come s’è visto, da polemiche spesso pretestuose, o francamente di sapore corporativo, quando invece su ben altri terreni ci si dovrebbe misurare: sui contenuti didattici, sulle metodologie, sulla mobilità studentesca, sui contenuti dell’aggiornamento professionale, sul rapporto col territorio e le famiglie, sulle risorse e le strutture disponibili. La verità è che la riforma della scuola non è fatta dai nuovi docenti, soprattutto quando nuovi essi non sono, ma magari un po’ attempati, un po’ stanchi, a volte sfiduciati. Questo spiega la scarsa propensione di taluni a prendere una nuova strada, quando un pezzo di essa è stata già percorsa, ma non giustifica le strategie politiche o sindacali, costruite strumentalmente sopra.  E soprattutto costringe a mettersi nei panni degli studenti, quelli che la strada nuova debbono ancora provare a tracciarla. A essi cosa possiamo augurare? Di incontrare docenti con il futuro dietro le spalle, o piuttosto in grado di mostrarlo davanti a loro? E a quanti chilometri da casa si trova oggi il futuro?

(Il Mattino, 3 settembre 2015)

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