I prof, gli alunni e la tenda di Pitagora

Acquisizione a schermo intero 14092015 110627.bmpInizia l’anno scolastico, e della tenda di Pitagora non c’è quasi più traccia. Per la verità, è passato qualche migliaio d’anni, da quando Pitagora si è ritirato definitivamente dall’insegnamento, e però qualche brandello di quella tenda dietro la quale Pitagora si celava ancora resisteva. Pitagora usava la tenda per mettere una distanza netta e percepibile fra sé e i propri allievi. Che non potevano essere ammessi al suo cospetto se non dopo molte lezioni, molte istruzioni, molte regole di vita. Si diceva anzi che avesse una coscia d’oro: immaginate se invece gli studenti di oggi pensino dei loro professori che essi nascondono qualche tesoro, o qualche superpotere. Eppure allora – voglio dire: in quel tempo in cui, in Occidente, fu inventata, più o meno, la trasmissione del sapere – funzionava così. Gli allievi da una parte della tenda, il maestro dall’altra. Poi verranno l’Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele e tante altre scuola ancora, e tutte manterranno l’idea che fra il docente e l’allievo c’è (ci deve essere) una differenza, una distanza, un dislivello: come insegna anche la fisica, se non c’è differenza, non c’è lavoro e non c’è spostamento.

Ma viviamo in tempi turbinosi di «disintermediazione», e l’idea che per arrivare alla «cosa del sapere» si debba compiere il giro lungo che passa attraverso il lavoro, lo studio, la ricerca, e che lavoro studio e ricerca passino attraverso le parole di un altro, il Maestro, si è fatta alquanto impopolare. Secondo Jeremy Rifkin, questa è l’era dell’accesso. Tutto a portata di tutti. E quindi se, per sapere quanto è lungo l’Orinoco, o come si traduce la perifrastica passiva, o come si calcola la derivata seconda, ci vuole solo una buona connessione visto che la risposta si trova sicuramente in rete, perché stare a sentire in aula per un’ora intera il professore, coi cellulari spenti e senza auricolari in testa? L’unica buona ragione rimane questa, che educazione, formazione ed istruzione suppongono una certa inaccessibilità preliminare. Una tenda deve insomma essere tirata da qualche parte, e la fatica richiesta agli studenti per toglierla deve essere necessaria e non surrogabile.

Ebbene, sono appena entrati in aula non mi ricordo più quante migliaia di nuovi docenti di ruolo. È un fatto positivo: innegabilmente. C’è un piano per l’edilizia scolastica che investe un bel po’ di soldi per la ristrutturazione di scuole, palestre e asili, e questo è un altro fatto positivo: indubbiamente. La buona scuola è legge, e si vedrà alla prova dei fatti se il nuovo ruolo del dirigente scolastico, la chiamata diretta dei docenti e i comitati di valutazione faranno fare alla scuola italiana un salto in avanti.

Ma prima di tutto: edifici, docenti, dirigenti  ce la faranno a tener su la tenda? Perché senza tenda non c’è scuola, non c’è insegnamento, non c’è allievo per un maestro, né studente per un professore. Eppure i docenti che oggi entreranno in aula (si spera con qualche entusiasmo) hanno pochi mezzi per far vedere, e valere, una differenza. C’è una cattedra, addossata a una parete, che è più grande dei banchi su cui siedono gli studenti , a volte una pedana e una sedia coi braccioli riservata solo al professore. Ma già la lavagna non è più quella di una volta: se si tratta infatti di una lavagna interattiva multimediale, c’è subito il rischio che il docente non sappia sfruttarne a fondo tutte le potenzialità. E che i ragazzi facciano meglio di lui. E poi: perché non dovrebbe prodursi l’impressione che si trovano molte più cose sulla superficie di un dispositivo elettronico che nelle parole di un professore?

E soprattutto: quanta parte delle cose che il professore dirà saranno più «vere» di tutte le altre cose che i ragazzi apprendono da ogni altro lato della loro esperienza? Una parte non piccola della verità è infatti costruita con i materiali con cui è fatta la realtà, ma occorre comunque che un’altra parte sia fatta delle parole con cui la realtà viene interpretata e, magari, messa un po’ in ordine. Di qualche verità, però, deve trattarsi. Se per esempio l’ordine si fa solo lungo l’asse vecchio/nuovo, non c’è scampo per i professori e le loro aule. Vecchie, anche se riverniciate. Bisogna che i docenti provino allora in un altro modo. Che non rinuncino a dire la verità dalla distanza che è la loro. Non piatta immedesimazione, dunque, e neppure artificiosa separazione. E la buona scuola ha quindi bisogno anzitutto di docenti che sappiano muoversi da una parte e dall’altra. Non troppo lontani, ma neppure troppo vicini. Troppo lontani non verrebbero ascoltati, troppo vicini diverrebbero subito superflui.

Trovare la giusta distanza è però il problema che ogni docente deve risolvere da sé. Una mano la società deve dargliela, riconoscendogli la centralità oggi smarrita. Il ruolo professionale conquistato dopo anni di precariato dà forse qualche serenità in più, ed è un fatto positivo: certamente. Ma ora un’altra mano, aggiornamento o non aggiornamento, il docente se la deve dare da sé, perché né la legge né i sindacati gli procureranno l’autorevolezza di cui ha bisogno, agli occhi dei suoi studenti. L’unica cosa che possiamo augurarci, è che questi occhi siano vivaci e impietosi, perché, alla fin fine, la via più sicura per avere una buona scuola e avere studenti che la esigano, che entrino in aula cercando davvero di capire dov’è la tenda, e cosa c’è dietro. Se dovessero scoprire che non c’è nulla, in quelle aule ci saranno forse ancora, per tutto il tempo dell’obbligo scolastico, ma per davvero noi non li incontreremo più.

(Il Mattino, 14 settembre 2015)

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