Archivi del mese: ottobre 2015

Eccesso di legittima difesa

Bruno BrindisiL’attacco di Vincenzo De Luca a Rosi Bindi non è passato inosservato: non poteva. Le parole che ha usato sono andate oltre il segno. Per rinfacciare al Presidente della Commissione Antimafia «l’atto infame» – così lo ha definito – che la Bindi compì, diramando nell’immediata vigilia del voto regionale la lista degli impresentabili, e includendovi anche De Luca, il governatore campano non ha esitato a definire a sua volta la Bindi «impresentabile», infilando però la spregiativa aggiunta: «da tutti i punti di vista». E, come non bastasse, al giornalista che chiedeva cosa rimproverasse alla Bindi, De Luca ha risposto che le rimprovera nientemeno che di esistere. Decisamente troppo: le reazioni del mondo politico non si sono fatte attendere. D’altra parte, chi ha già avuto modo di confrontarsi con il linguaggio «netto deciso e forte» (sono gli eufemismi di Lilli Gruber, in trasmissione), non troverà molti motivi per meravigliarsi di una simile aggressione verbale. In cui De Luca incappa, al di là delle intenzioni esplicite dell’altra sera, per il solo fatto che ricorre spesso a espressioni assai colorite (altro eufemismo). Finché rimanevano confinate in una dimensione provinciale, potevano essere derubricate a folclore; ora che trovano un palcoscenico nazionale e provengono da una più alta carica, non più. Il personaggio inventato da Crozza, che lo imita ormai tutte le settimane, nasce così.

Dopo però che De Luca avrà porto le sue scuse, come ci auguriamo, non sarà inutile che faccia pure qualche riflessione meno estemporanea sull’incidente occorsogli. La scorsa settimana c’è stato il congresso dell’Associazione nazionale magistrati, e si è capito che questa non è più la stagione di uno scontro frontale fra politica e magistratura. Le riforme istituzionali: anche loro hanno fatto un tratto del cammino che dovrà portare all’approvazione definitiva del Parlamento, e presumibilmente al referendum del prossimo anno. Pure le polemiche nel Pd perdono forza, o almeno consistenza. In questo quadro, le parole di De Luca suonano davvero fuori posto: rinfocolano un conflitto fra le istituzioni su cui nessuno, proprio nessuno può seguire il governatore campano.

Ciò è tanto vero, che ad accorrere in difesa della Bindi non sono scesi solo Cuperlo o Miguel Gotor, uomini della minoranza Pd, ma anche un ministro di peso come Maria Elena Boschi. Certo, le parole di De Luca erano viziate da un tratto maschilista inaccettabile, così come è frutto di maleducazione istituzionale riferirsi al Presidente di un importante commissione del Parlamento chiamandola «signora Rosaria Bindi», con la stessa derisione, nello sminuire i titoli o nel cambiare i nomi, che usava Totò nello storpiarli. Ma di nuovo: non ne va solo di galateo istituzionale o di solidarietà femminile: si vuol anche dire a De Luca che le cose a Roma non vanno come a Salerno, e che il grugno che esibisce sporgendo in avanti la mascella può funzionare quando si domina incontrastati la scena politica locale, funziona meno quando si deve tenere un dialogo con il livello di governo nazionale, o con il Parlamento. Che invece De Luca continua a dipingere con disprezzo come la «casta», soffiando su umori antipolitici che prima o poi, a un uomo che è al potere da una trentina d’anni, è possibile che gli presentino il conto.

Ciò detto, è vero pure che, in realtà, De Luca ha parlato per fatto personale: non ci sta a passare per camorrista solo perché l’Antimafia lo definisce impresentabile a causa di una vicenda vecchia di quindici e passa anni, su cui ha rifiutato la prescrizione, o per una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, «il più sfessato di tutti i reati» (anche in questo caso il copyright è suo, di De Luca: non di Crozza). Per questo, oltre che per complessione caratteriale, reagisce a muso duro, ribatte colpo su colpo, e forse dà pure qualche colpo in più. Il ragionamento politico che però ieri ha cercato di far passare, mentre veniva incalzato sull’applicazione della legge Severino, sulle sue sorti in caso di sospensione, sugli impresentabili nelle sue liste, merita di essere giudicato per quel che è: un ragionamento tutto politico. Per vincere in Campania il Pd da solo non basta. Dunque bisogna cercare accordo con segmenti di ceto politico moderato, che è quel che lui ha fatto. Le denunce vanno presentate all’autorità giudiziaria, e vanno circostanziate, ma stanno, devono stare su un altro piano. Le solleciti Saviano o chiunque altro: su questo De Luca ha ragione. Poi ci si può domandare se in questo modo, pagando questo prezzo politico, De Luca sarà in grado di produrre comunque la necessaria (e promessa) discontinuità degli atti di governo, ma questa è la materia su cui gli elettori giudicano e giudicheranno, più che la ragione di un veto pregiudiziale, o morale, nei confronti dell’esperienza amministrativa appena avviata.

E invece De Luca viene messo all’angolo, finisce sulla difensiva, è incalzato su un terreno sul quale lui rifiuta di stare. Perciò reagisce in malo modo. Lui, nato e cresciuto nel vecchio partito comunista, disposto forse a passare per un uomo di potere, ma non certo per un uomo di malaffare.

(Il Mattino, 29 ottobre 2015)

Ma quelle inchieste hanno segnato una stagione politica

osteria-del-tempo-persoNon c’è due senza tre. O quattro, o non importa più quante siano le assoluzioni con cui si sta concludendo l’offensiva giudiziaria che qualche anno fa mise sotto scacco la politica campana per via della crisi dei rifiuti. E relegò ai margini della vita politica Antonio Bassolino, che ieri ha collezionato un’altra sentenza a lui favorevole. Ora di lui si parla come di un possibile candidato a Palazzo San Giacomo, e tutti sono costretti a misurarsi sulle sue intenzioni, dal momento che gode ancora di un’ampia popolarità, ma di mezzo, fra la fine della sua esperienza come Presidente della Regione Campania e la stagione che forse si aprirà il prossimo anno, con le elezioni comunali, si srotola la lunga fila dei procedimenti giudiziari risoltisi in un nulla di fatto. Certo, quelle inchieste trovavano ampio spazio ed eco sui giornali, ma come poteva essere diversamente? I giornali avranno pure le loro colpe, ma se tu metti sotto inchiesta il principale protagonista politico del Mezzogiorno (questo era Bassolino, all’epoca dei fatti), è inevitabile che si sollevi una grande burrasca mediatica. E infatti la burrasca c’è stata, e con la burrasca gli effetti politici delle iniziative della magistratura.Qual era il loro fondamento? Erano forse improvvide, frettolose, approssimative? La valutazione deve ovviamente farsi sulle carte processuali, e attenersi solo a quelle. Non è possibile generalizzare mettendo insieme procedimenti diversi, neanche quando riguardino lo stesso soggetto. Sta di fatto che la cosa colpisce: c’era un colpevole, mille volte colpevole, e ora non c’è più. Avevamo un capro espiatorio e ora non possiamo più prendercela con lui (se ne cercheranno forse altri?). Alla luce però di questo esito, così diverso da quello che l’opinione pubblica si attendeva quando fioccavano i provvedimenti dei magistrati, si ha tutto il diritto – anzi: il dovere – di chiedersi cosa conti davvero: il giudizio di colpevolezza che ha tenuto di fatto banco per anni, o la ritrovata innocenza di queste ore? Purtroppo – prestate pure le migliori intenzioni a tutti i protagonisti della vicenda – si rimane con la sgradevole sensazione che conta di gran lunga di più il primo. Le lancette non tornano indietro,  il tempo passa, il mondo va avanti per conto suo senza aspettare le future assoluzioni e fare prima un passo avanti e poi un passo indietro non riporta affatto le cose là dov’erano, soprattutto quando tra un passo e l’altro trascorrono poco meno di due lustri.

C’è un’altra sgradevole sensazione che si accompagna alla prima, ed è che tutta questa vicenda non solo ha falsato, o almeno pesantemente condizionato il corso politico della Regione (e quello del Comune, perché dal ciclone delle inchieste è stato investita anche la giunta Iervolino), ma ha pure sequestrato la nostra opinione sulla gestione dei rifiuti e gli errori commessi, come se contassero solo le sentenze, là dove appunto si aspetta che parlino le sentenze, e non invece il giudizio politico su quei fatti. Una vicenda di carattere amministrativo viene portata su un altro piano, di carattere penale, e tenuta lì per anni, finché un bel giorno si scopre che sul piano amministrativo doveva stare e su quel piano soltanto essere se mai giudicata.

Vi sono almeno due spinte culturali rilevanti, di carattere generale, che si possono descrivere a partire da questa vicenda. La prima riguarda la sempre maggiore estensione dell’attività giurisdizionale. È una tendenza forse inevitabile, dovuta alla crescente complessità della vita sociale e alle insufficienze del mero piano normativo, che non riesce più ad essere abbastanza stretto da aderire da vicino ai fatti, e non permette quindi al magistrato di lasciar parlare solo la legge, di scomparire dietro la sua applicazione. La legge da sola non parla, e il magistrato interpreta. Non può non andare così; e però, proprio perché va così, nelle procure e nei tribunali su su fino all’Alta Corte, occorre immaginare qualche nuovo punto di equilibrio, qualche ancoraggio in più dell’attività giurisdizionale (e magari qualche esuberanza e qualche ansia giustizialista in meno).

L’altra spinta punta a chiedere una penalizzazione sempre crescente, come se l’unica sanzione che i cittadini esigano che venga irrogata fosse quella penale, anzi carceraria, e nessuna squalifica di ordine morale, o sociale, o politico, soddisfacesse il bisogno di giustizia (o forse si tratta di qualche forma di sotterraneo risentimento nei confronti dell’uomo pubblico?). La legge penale però ha ancora le sue regole, e speso si finisce così con un pugno di mosche in mano. Il che procura pure un effetto di retroazione altrettanto sgradevole,, per cui la frustrazione per la mancata punizione si traduce in nuove richieste di rigore, di pene, di manette.

Non si può dire, a conclusione di questa storia: chi ha avuto, ha avuto. Troppo poco. Gli anni della presidenza Bassolino alla Regione Campania tornano ad essere offerti ad una valutazione di carattere ormai storico-politico, sulla mancata risoluzione di certi problemi e sulle sue cause. Ma alle forze politiche tocca oggi provare a dire, o a fare, qualcosa di più.

(Il Mattino, 28 ottobre 2015)

Se la Chiesa surclassa la democrazia

ImmagineCome da vocabolario: la Chiesa cattolica è la comunità di credenti che riconosce il primato di Pietro. C’è il primato petrino e c’è la comunità, e nella sua lunga storia i termini di questa relazione non hanno pesato sempre allo stesso modo. Però hanno funzionato e funzionano tuttora. La vitalità che la Chiesa di Francesco sta dimostrando è indubbia. E non si tratta del fatto che il Pontefice gode di buona stampa, o che piace al mondo perché non gli va contro, come il suo predecessore Benedetto XVI: tutte queste sono rappresentazioni decisamente approssimative, che colgono movimenti di superficie e non guardano ai mutamenti più profondi che il cattolicesimo viene affrontando. Proprio questo, anzi, colpisce: la capacità di affrontare questi mutamenti impegnando una visione complessiva di sé, del proprio mandato, della propria tradizione morale e religiosa.

Questo era infatti il Sinodo: una riflessione sulla famiglia, istituzione fondamentale per la morale cattolica (e per molte società umane), condotta senza rete, senza preventivi ripari, senza percorsi preconfezionati. Al termine, conta ovviamente se siano state raggiunte posizione sufficientemente progressiste, abbastanza moderate o troppo conservatrici: a proposito della comunione ai divorziati – da valutare con discernimento, caso per caso – o delle unioni omosessuali  – distinte fermissimamente dal matrimonio –. Ma conta anche l’ampiezza del confronto, e diciamo pure: la franchezza dello scontro. E infine pure la capacità di chiudere il Sinodo votando un documento finale i sintesi, capace di misurarsi (e di votare) su tutti i punti controversi.

La sintesi, per la verità, è affidata a Bergoglio, perché la Chiesa mantiene indeffettibilmente l’autorità pontificia. Il Sinodo si limita, secondo il diritto della Chiesa, a mettere a disposizione del Papa le vedute dei suoi vescovi sui problemi sui quali sono stati convocati per un consulto. Ma di un consulto vero si è trattato, e di una Chiesa percorsa dalla discussione in ogni sua fibra. Forse questa così larga disponibilità a dibattere dipende da tempi problematici per la coscienza religiosa, tempi in cui il senso trascendente della vita è lontano dalle pratiche quotidiane degli uomini, sicché dietro ciascuno dei temi che la Chiesa è chiamata ad istruire si intravede una sorta di smarrimento metafisico: forse è questo, che ha spinto i padri sinodali a non accontentarsi di sterili dispute verbali, portandoli a reclamare in gioco l’umanità stessa dell’uomo. O forse è la formula di governo della Chiesa, che offre comunque un ancoraggio ultimo nelle parole del successore di Pietro, e permette così alle parole penultime di tutti gli altri pastori una libertà di movimento persino maggiore. Forse si tratta dell’una e dell’altra cosa insieme: la profondità metafisica minacciata e l’altezza gerarchica preservata creano un campo di tensione che rende vive e vitali, drammaticamente vitali, le dispute teologiche, pastorali, ecclesiali.

Dall’altra parte ci sono le democrazie occidentali. Non hanno così tanti anni, quanti ne ha la Chiesa di Roma, eppure paiono già stanche, sfiduciate, infiacchite, disilluse, disincantate. Consegnate a pratiche routinarie, svuotate sempre di più dalla partecipazione popolare, incapace di appassionare e percorse perfino dal dubbio di non contare veramente poi molto, e di non decidere gran che. Non è un caso che tanta parte dell’intellettualità europea reagisce in modo fiacco alle difficoltà che l’Unione attraversa: non si tratta forse di un progetto politico di grandissima ambizione? Eppure, nonostante il carattere inedito della costruzione comunitaria, c’è molta poca traccia di questa ambizione nelle prese di posizione pubbliche, nei discorsi istituzionali delle massime cariche politiche o anche solo nella saggistica corrente. E neppure la prospettiva di un naufragio del processo di integrazione (che non è affatto scongiurata solo perché compare qua e là qualche timido segnale di ripresa economica) riesce davvero a mobilitare l’opinione pubblica, ad accendere animi, a suscitare energie. Davvero la misura dell’umano si rimpicciolisce e diviene fin troppo umana, come pensava Friedrich Nietzsche, quando perde una sponda trascendente, o quando smette di combattere contro minacce di negazione radicale, che le democrazie da sole non sono in grado di evocare (benché abbiano saputo combatterle, quando si sono presentate, nel corso del ‘900)?

È lecito coltivare questo dubbio. Se non altro perché così c’è perlomeno una sfida da vincere: scacciare il sospetto che l’uomo, da solo, nella dimensione piatta e orizzontale delle sue banali e ordinarie relazioni sociali, in un contesto piattamente e stancamente democratico – che l’uomo, dicevo, quest’uomo qui non è poi quella gran cosa che credeva scioccamente di essere, finché la democrazia non l’aveva conquistata.  E, forse, questa è una sfida che vale la pena di vivere: da sinceri, anche se un po’ ammaccati, democratici.

(Il Mattino, 26 ottobre 2015)

Se la politica resta appesa ai tribunali

downloadLa legge Severino ha superato il vaglio della Corte costituzionale. Non è ancora finita, perché pendono altri ricorsi, ma la questione sollevata dal Tar Campania – la prima ad essere giudicata dalla Corte – è stata rigettata. Come si ricorderà, il ricorso del sindaco di Napoli De Magistris si fondava sull’applicazione retroattiva della norma, ma la Corte, ha respinto il ricorso, negando il carattere penale della misura di sospensione applicata al sindaco. Se non si tratta di una legge penale e di una misura afflittiva, non è incostituzionale l’irretroattività. Per De Magistris non cambia però quasi nulla: lo aspetta infatti un’assoluzione o una prescrizione. Nell’uno e nell’altro caso, sarà superata la condanna in primo grado già inflittagli, e così non scatterà alcuna sospensione. Ma la decisione della Corte mette in qualche allarme il governatore della Regione, Vincenzo De Luca.

Anche De Luca ha infatti una condanna in primo grado, per abuso d’ufficio, e anche lui è stato sospeso, salvo poi la sospensione essere stata a sua volta sospesa dal Tribunale di Napoli, con ricorso alla Suprema Corte. Il ricorso di De Luca ha tre frecce al suo arco: con la sentenza di ieri, la prima freccia non è andata a bersaglio. Restano altre due. Resta anzitutto il motivo della diversità di trattamento che la legge Severino prevede per i parlamentari (per la cui decadenza dalle Camere ci vuole una condanna definitiva) e per gli amministratori locali (colpiti da sospensione anche in caso di sentenza di colpevolezza di primo grado: che è il caso appunto di De Luca). Resta poi la questione dell’eccesso di delega. il governo – è la tesi degli avvocati di De Luca – aggiunse nella legge, tra i reati che portano alla sospensione, anche l’abuso d’ufficio (che è di nuovo il caso di De Luca), andando oltre quanto previsto nella delega del Parlamento.

Difficile fare previsione sul futuro pronunciamento della Corte, e proprio questa difficoltà è il principale problema che attende la Campania nelle prossime settimane, o mesi. È chiaro infatti che la vicenda regionale cambierebbe profondamente, qualora De Luca fosse di nuovo sospeso, e gli effetti politici andrebbero probabilmente anche più in là di quelli meramente amministrativi. Ma fin d’ora questa incertezza si trasmette, lo si voglia o no, sul governo della Regione. Nel corso della campagna elettorale, De Luca fu molto netto nel presentare le sue ragioni e, insieme, i torti della legge e del legislatore nazionale. Non poteva fare diversamente: ne andava del voto, e nessuna ombra doveva allungarsi sulla pienezza del suo futuro governo. Oggi però non si può essere altrettanto netti: la sentenza spunta almeno una delle frecce all’arco del governatore.

E ributta la palla nel campo della politica, dove i giocatori non riescono a giocare la partita, sciogliendo davvero i nodi che la riguardano. La legge Severino è infatti stata introdotta per irrobustire l’argine contro la cattiva politica: un argine che dovrebbe essere costruito anzitutto da quegli stessi organismi politici, i partiti, che sono responsabili della selezione delle candidature e della qualità della classe dirigente.

E invece si vuole che i casi della politica siano regolati azionando di volta in volta i giudici di questo o quel tribunale, di questa o quella Corte. Se fra qualche mese la Campania dovesse precipitare in una sorta di limbo amministrativo, con la sospensione del suo governatore, questa volta non sarebbe però – è bene dirlo con chiarezza – per un’invasione di campo della magistratura, o per l’ennesimo conflitto fra le toghe e i politici (che pure in questi anni non ci siamo fatti mancare), ma per avere la politica cercato di assicurare il decoro delle istituzioni solo con il puntello della legge, dove dovrebbe invece bastare la capacità di selezionare con serietà e rigore i propri rappresentanti.

De Luca ha sempre protestato che, nel suo caso, rischia di finire sotto la tagliola della legge per un «reato linguistico»: tale sarebbe l’abuso che gli viene contestato. Ora, importa poco se sia davvero così (importerà, e come, in tribunale); quel che però di sicuro conta, è che la politica non si può neppure permettere di soppesare la circostanza. E non può non perché non possa entrare nel merito di una vicenda giudiziaria, ma perché non ha la credibilità per farlo. Ce ne sono ancora troppi, di episodi di corruzione e di malaffare, perché si possa derubricare a inezia questa o quella vicenda. Così si rimane appesi a una legge: a volte a un avviso di garanzia, altre volte a una condanna non definitiva. A volte a gravi episodi corruttivi, altre volte a vicende bagatellari, in un caso e nell’altro senza avere la forza di rivendicare alcunché, ma sempre solo quella di demandare ad altri il compito di togliere le castagne del fuoco. Col risultato che le stesse decisioni della magistratura diventano una parte del gioco politico, del calcolo delle azioni e delle reazioni, tra astratti furori moralistici e sordide lotte di potere, in una spirale che si sarebbe dovuta arrestare all’alba della seconda Repubblica, e che invece c’è il rischio di portarsi dietro pure nella terza.

(Il Mattino, 21 ottobre 2015)

Erri, l’assoluzione e le parole sbagliate

Acquisizione a schermo intero 20102015 153225.bmpLe parole pronunciate da Erri De Luca prima della sentenza meritano un commento, ed è una fortuna – anzi: una gran bella notizia – che lo scrittore napoletano sia stato assolto dall’accusa di istigazione al sabotaggio: la vicenda processuale finisce in un nulla di fatto, e rimane la possibilità di discutere delle parole. Poiché le parole sono importanti – come De Luca non manca di sottolineare – non sarà una discussione inutile.

De Luca ha detto ieri due cose: la prima è che c’è la Costituzione, la quale all’articolo 21 afferma il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Persino a De Luca è tuttavia chiaro che oltre alla Costituzione c’è il codice penale, ma per lo scrittore l’articolo che lo doveva riguardare è di dubbia costituzionalità. Pure, egli non ha voluto che fosse dai suoi avvocati sollevato formalmente  il dubbio: la Costituzione – ha detto – «si difende al piano terra della società», l’eventuale ricorso avrebbe portato la discussione in una camera di consiglio in cui non si sarebbe sentita la voce del popolo. E sia.

La seconda cosa che ha poi detto concerne il verbo incriminato: sabotare. De Luca ha orogogliosamente ribadito il suo pensiero: la TAV va «intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua». E ha rivendicato la parola «nel suo significato più efficace e ampio», ricorrendo al quale ha ritenuto di avere tutto il diritto di esprimere il suo «sostegno verbale a un’azione simbolica». Qui però casca l’asino (cascava pure prima, ma qui casca di più).

Nonostante la puntigliosa difesa delle parole, De Luca, infatti, le cambia un po’. Un’astuzia che non gli fa onore. Nell’appassionata difesa non violenta di ieri, per la quale ha pensato bene di scomodare persino Mandela e Gandhi, ha infatti furbescamente derubricato il sabotaggio da lui appoggiato verbalmente ad «azione simbolica»: una cosuccia dimostrativa, insomma. In passato, De Luca ha fermamente sostenuto tutt’altro, che cioè quando è minacciata la nostra salute «qualunque forma di lotta» è lecita: mica solo la lotta simbolica. D’altra parte, il sabotaggio simbolico, condotto con azioni simboliche, magari da grandi uomini simbolici come lui, non avrebbe bisogno di accampare la legittima difesa, cosa che invece De Luca fa, come se si trattasse di opporre eroicamente violenza (di inermi cittadini) a violenza (dei poteri dello Stato). Bisognerà allora che De Luca dia una nuova intervista – siamo certi che le occasioni non gli mancheranno – in cui chiarire se il sabotaggio che sostiene verbalmente è un sabotaggio simbolico o un sabotaggio reale, o forse simbolico in tribunale e reale in Val di Susa.

Ma il significato della parola che ha inteso usare è quello «più efficace ed ampio». La qual cosa deve significare: prendete il vocabolario, notate pure che una stessa parola ha accezioni diverse, alcune proprie altre meno proprie, e lasciate a me di prendere quello che più mi aggrada: quello ampio. Il che ci sta. Non però fino al punto di fare come Humpty Dumpty, quel bizzarro personaggio delle storie di Alice che cambiava i significati alle parole come gli pareva e piaceva. Neanche uno scrittore se lo può permettere. Nemmeno uno scrittore assurto a simbolo. I significati, infatti, sono pubblici, e lo stesso vocabolario (come la lingua) è un’istituzione sociale. E dunque: se capita che il codice chiami sabotaggio un certo tipo di azioni, e provi a darne una definizione stretta – proprio per sottrarre al capriccio l’incriminazione di una condotta – appellarsi ai significati più ampi e parlare di azioni simboliche quando si finisce sotto processo è un po’ ciurlare nel manico, si sia o no scrittori. Se De Luca sosteneva azioni simboliche, come oggi dice, chiedeva evidentemente ai sabotatori di non essere preso troppo alla lettera: solo che non aveva l’onestà intellettuale di dire la cosa così, con questa chiarezza. Lui ha buttato lì la parola sabotaggio, nel significato ampio, e pazienza se altri l’hanno intesa o la intendono in un’accezione più stretta. Lui dice oggi che se ne viene simboleggiando, e pazienza se altri lo prendono in parola. Questa sarà anche libertà di parola, ma somiglia anche ad un piccolo imbroglio.

Basta: De Luca andava assolto perché il fatto non sussiste, e perché non si fa una gran figura a inseguire in tribunale simili peripezie verbali. Ma la discussione sulle parole vale per smascherare le pose dello scrittore, che avrebbe benissimo potuto (e certo ancora potrebbe) mostrare tutta la sua solidarietà ai manifestanti della Val di Susa senza sentire conculcata la libertà di parola: sua e di nessun altro. E le tirate sulla Costituzione possono pure esserci risparmiate, tanto più che dell’articolo del codice penale che fa inorridire De Luca i giuristi discutono da gran tempo, senza aver bisogno di testimoni attempati che dimostrino quanto sia difficile inquadrare le condotte sotto la fattispecie in questione. E anche questa idea che le questioni costituzionali siano roba da legulei, che non c’entrano nulla col parlar franco di uno scrittore o con le pratiche di resistenza di un popolo, beh: suona come uno spaventoso passo indietro sul piano della civiltà giuridica, anche se forse piace agli inventori di simboli.

Insomma, dica De Luca quel che vuole, scandisca pure forte le sue parole contrarie, ma lasci perdere tutto il resto: la libertà la Costituzione e i poteri dello Stato, che stanno decisamente su un altro piano. Lo Stato, quello Stato violento che lui combatte, lo ha mandato assolto.

(Il Mattino, 20 ottobre 2015)

Il Mezzogiorno resta un allarme solo mediatico

Immagine 17 ottobre 2015

La legge di stabilità presentata dal governo Renzi, con a fianco, a far da spalla, il ministro del Tesoro Padoan, richiede una riflessione particolare, per quel che riguarda il Mezzogiorno. Lo ha spiegato bene ieri Isaia Sales su questo giornale: nelle scorse settimane e mesi, si era infatti creata un’attenzione nuova e crescente sui problemi dell’economia meridionale. La direzione nazionale del Pd aveva fatto un primo punto ad agosto, e in quella circostanza era stato annunciato per l’autunno un Masterplan, che avrebbe dovuto fornire il quadrante di controllo della politica del governo italiano per il Sud. Si è cominciato a ragionare su una serie di misure – dalla decontribuzione riservata alle imprese che operano nel Mezzogiorno, al credito di imposta, a una riduzione dell’Ires fin dal prossimo anno – che, se adottate, avrebbero sicuramente dimostrato una chiara volontà di rovesciare il mantra ripetuto insistentemente negli ultimi decenni, che cioè solo se cresce l’Italia cresce anche il Sud. No, si sarebbe trattato, si doveva trattare del contrario: di puntare con decisione alla crescita del Sud per far crescere il Paese.

Queste misure non hanno però trovato posto nella legge, e si tratta di capire perché.

Prima, però, è giusto dire che vi è, nel quadro delle misure prospettate dal governo, il sostegno a progetti specifici: si tratti però della bonifica di Bagnoli o del completamento della Salerno-Reggio Calabria o della rimozione delle ecoballe nella Terra dei Fuochi  (che non sta nella legge di stabilità; è bene quindi non distrarsi troppo, nelle prossime settimane…), parliamo in ogni caso di interventi attesi, su cui si ragiona magari da anni, quando non da decenni, i quali vengono meritoriamente ripresi, avviati o sostenuti, ma che tuttavia non disegnano un nuovo indirizzo di politica meridionalistica. Vuol dire che lo scarto o la discontinuità che ci si attendeva da questa legge non si è prodotto. Nella legge di stabilità non viene formulato, e con ogni probabilità nemmeno avvicinato, l’obiettivo strategico di riduzione del divario fra il Nord e il Sud del Paese. Formularlo non significa ovviamente conseguirlo, ma vuol dire che si ha però piena contezza che di questo si tratta: non di più e non di meno. Il governo ha costruito una manovra moderatamente espansiva, con il taglio delle tasse sulla casa e alcune misure di carattere sociale, e anche il Mezzogiorno, come il resto del Paese, dovrebbe trarre vantaggio di questa moderata espansione. Ma appunto: proprio come il resto del Paese, difficile sperare di più. Questo segno più, insomma, in mezzo ai tanti segni positivi segnalati da Matteo Renzi nelle slide illustrate alla stampa, non c’era.

Ora, che cosa ci voleva per introdurvelo, cosa è mancato?

Forza politica, anzitutto, e poi robustezza amministrativa. Sicuramente, infatti, non giova al Sud l’inefficienza o l’inerzia delle Amministrazioni locali. L’ultimo esempio è di queste ore: si arriva al dunque, e succede che per ritardi progettuali, per mancanza di rendicontazione o per altro, Bruxelles non rifinanzi progetti come la linea 6 della Metropolitana di Napoli. Si comincia, non si finisce. Si aprono buchi, non li si richiude. Il peso che, nello stanziamento delle risorse, hanno i poteri locali è – com’è ovvio – inversamente proporzionale alla capacità di fare squadra. Se a Bruxelles Comune e Regione vanno, come sono andati, in ordine sparso, il risultato è quello che si è visto: i soldi se ne vanno, le opere restano a metà, il danno alla città è enorme.

Quello che succede a Bruxelles succede pure a Roma. Se nella stretta finale non c’è una voce in grado di offrire una visione d’insieme, un’idea strategica di sviluppo che tenga cuciti con un unico filo rivendicazioni e prospettive, risorse e idee, interessi e programmi, l’appostamento di bilancio finisce col dipendere da una trattativa contingente, fatta di strappi o favori, pressioni o concessioni che non discendono più da una politica condivisa.

Perché dunque, a fronte di una nuova vivacità mediatica del tema meridionalistico, è mancato un segno forte in questa direzione? Forse perché si è trattato, per l’appunto, di mera vivacità mediatica, non sostenuta da buone prove delle pubbliche amministrazioni, e neppure da un cambio di passo della classe politica meridionale. La strada per pesare di più non l’ha trovata Emiliano, nella affannosa ricerca di un posizionamento politico a colpi di polemica con Renzi, ma non l’ha trovata ancora neppure De Luca, perché non può bastare nemmeno ingraziarsi Renzi solo per prendere quel che passa il convento. Non siamo nei tempi grami del leghismo imperante, che tacitava ogni discussione, perché appunto la discussione si è aperta. Che almeno questo filo non venga, dunque, lasciato cadere: se non altro perché c’è un Masterplan che ci aspetta.

(Il Mattino, 17 ottobre 2015)

Riformare i candidati

i-colori-dell-autunno-2014-legambiente-valtriversa-704x318Parlando alla Camera, Renzi ha indicato una data «ragionevole» per il referendum sulle riforme costituzionali: l’autunno del prossimo anno. Ma, intanto, nella prossima primavera si voterà per le elezioni municipali in molte città italiane, e in particolare nelle prime tre grandi città del Paese: Roma, Milano, Napoli. Domanda: non sarebbe ragionevole votare insieme per l’una cosa e per l’altra, per le riforme costituzionali e per le elezione dei sindaci? Risposta: dipende. Dipende dal punto di vista dal quale si osserva la cosa. Dal punto di vista del premier, molto probabilmente sì. Significherebbe infatti mettere le comunali nella scia delle riforme, nella speranza che un voto trascini l’altro, così che le difficoltà del partito democratico nelle grandi città sarebbero bastantemente celate dalla più grande partita del cambiamento costituzionale.

In verità, la sequenza già indicata in Parlamento un senso ce l’ha: se infatti le cose al Pd dovessero andar male in primavera, Renzi si potrebbe prendere la rivincita in autunno. Ma il fatto è che nell’ultima settimana la situazione romana è precipitata, Marino si è dimesso e la sfida non si  gioca solo su Napoli e Milano, e sulle altre città minori. Ora ne va anche della Capitale: sarebbe dunque difficile circoscrivere una eventuale sconfitta in una dimensione puramente locale. Il desiderio inconfessabile di giocarsi tutto in un unico round comincia a prendere forma.

È complicato. Lo è sotto il profilo dei tempi, poiché le riforme non sono ancora all’approvazione definitiva, e lo è dal punto di vista politico, perché un simile accorpamento tra questioni amministrative e questioni costituzionali susciterebbe più di uno strepito. Ma il solo fatto che la cosa venga prospettata è indice delle difficoltà in cui si dibatte il Pd. Difficoltà che, forse, vanno anche al di là della scelta dei nomi e del profilo dei candidati: l’impressione è infatti che Renzi non trovi nel suo partito un serbatoio nel quale attingere per sfornare quella famosa classe dirigente, che è famosa proprio come la famosa invasione degli orsi in Sicilia, «nel tempo dei tempi»: una roba fantastica, insomma, perché al momento non se ne hanno notizie certe.

Così bisogna provarle tutte. Nelle prossime settimane, il partito democratico deve trovare i candidati giusti, e in molti casi, prima ancora dei candidati, dovrà chiarirsi le idee quanto al metodo di selezione. La retorica delle primarie «elemento identitario» del partito, inscenando la quale il Pd è nato, è decisamente in ribasso, perché nessuno sa bene cosa ne uscirebbe fuori. Un conto è fare le primarie confermative, alla Prodi, un altro è fare primarie competitive, in cui però sia in gioco di fatto il governo del Paese, come è stato con Renzi, un altro, tutt’altro conto ancora è farle là dove conta solo il notabilato locale, dove tutto si decide in base al «chi sta con chi», e dove la ragione sociale del partito si è – a dir poco – parecchio appannata.  A leggere l’intervista del vicesegretario del Pd, Guerini, su questo giornale, pare che questo appannamento sia a Napoli un po’ più vero che altrove, forse perché a Napoli alle difficoltà del partito si somma la volontà di fermare Bassolino: la sua candidatura è, infatti, per il solo fatto di stare in campo, una bocciatura per il resto del partito. Come che sia, a Napoli nessuno sa (e Guerini non chiarisce) quale progetto abbia il Pd sulla città. Dopo le dimissioni di Marino, in verità, non è chiaro neppure a Roma, posto che prima invece lo fosse, mentre a Milano la cosa sarebbe diversa, se non fosse che la mancata ricandidatura di Pisapia spalanca un buco che non è facile colmare. Improvvisamente (ma non troppo),ci si accorge che del Pd che, a livello nazionale, veleggia sopra il 35% nei sondaggi, in giro, nei territori, ce n’è pochino, e non solo perché calano gli iscritti o si chiudono i circoli. In una situazione del genere, è probabile peraltro che la minoranza interna troverà nuovi motivi per polemizzare, anche se la debolezza dei partiti politici è un dato cronico, quasi consustanziale al percorso dell’intera seconda Repubblica.

Proprio perciò non sarebbe male – dal punto di vista del premier, almeno – usare il battesimo referendario della terza Repubblica, il prossimo anno, per fare un’operazione di ricambio profondo anche nelle città. Per dire: noi siamo quelli del sì alle riforme, e coprire così, con il proprio investimento personale, tutte le magagne piccole e grandi del Pd.

Poi, certo, non è mica detto che arrivi il sì largo e rotondo che Renzi si aspetta dal referendum. Ma la partita politica avrebbe un significato chiaro, e verrebbe giocata su un terreno sul quale Renzi potrebbe muoversi con disinvoltura, tanto più che l’avversario più temibile sembra oggi essere, in attesa che il centrodestra si ristrutturi, il movimento Cinque Stelle. Come dire: una scelta di sistema, di qua o di là, riforme o rivoluzione. Il tutto lo si farebbe poi senza pagare dazio alle debolezze politiche locali, senza dover subire candidature più o meno discutibili, o semplicemente improvvisate, senza – infine – dar fiato e spazio ai propri avversari interni.

Insomma, una sfida vera e grande, all’altezza delle ambizioni del presidente del Consiglio. Che poi ci siano le condizioni per arrivarvi, politiche e parlamentari, è un altro paio di maniche. Ma questo non vuol dire che non si possa accarezzare l’idea. Sempre meglio accarezzare idee in autunno che prendere sberle elettorali in primavera.

(Il Mattino, 15 ottobre 2015)

Il disastro è finito, ma il futuro è un’incognita

37479-AMBRA-DEFLe dimissioni di Ignazio Marino mettono la parola fine ad una vicenda che sfiorava ormai i limiti del grottesco, o meglio: li superava abbondantemente. Dopo la Panda in zone a traffico limitato, i viaggi negli States nei momenti e per le ragioni meno indicate, la resa dei conti per Marino è arrivata con gli scontrini, la vera cifra derisoria di questa seconda Repubblica: inezie, a confronto di qualunque altro episodio di malaffare che sia finito in questi mesi sui giornali, ma inezie gestite nel peggiore dei modi possibili. Che si tratti comunque di un disastro politico è fuor di dubbio, e per il partito democratico sarà dura circoscriverlo nei termini di una vicenda personale, che coinvolga solo ed esclusivamente la persona del sindaco. Il risultato, in ogni caso, è diverso da quello che si immaginava anche solo poche settimane fa: ad andare al voto, nella primavera del prossimo anno, saranno le tre principali città italiane, Roma, Milano, Napoli (insieme ad altri capoluoghi minori). Il turno amministrativo si colorerà così, inevitabilmente, di un significato politico. Con una complicazione fino a non molto tempo fa imprevista: in nessuna di queste città il Pd partirà con i favori del pronostico. E in nessuna ha già un candidato in pectore. La storia non si fa con i «se», ma formularne qualcuno può servire a vedere da quali spiagge il PD si è allontanato, senza avere  alcun porto sicuro in cui approdare.

E dunque: se Giuliano Pisapia, a Milano, avesse scelto di ricandidarsi, per la Lega e Forza Italia sarebbe oggi molto più dura;se, a Napoli, il PD avesse usato questi anni di opposizione a De Magistris per costruire un progetto politico chiaro, oggi non faticherebbe così tanto a trovare un candidato, e non dovrebbe tornare a Bassolino per essere competitivo; se, infine, a Roma, Marino non avesse dato una così straordinaria prova di dilettantismo, senza riuscire a portare risultati immediatamente tangibili sul piano dell’amministrazione, forse avrebbe potuto volgere in positivo la sua conclamata distanza dalla città. E invece: Pisapia non si ricandida, a Napoli non si sa a che santo votarsi, e pure a Roma, con le precipitose dimissioni di Marino, adesso si rischia di brutto.

Difficile capire come il PD si tirerà fuori da una simile situazione: di sicuro a Renzi non basterà starsene a Palazzo Chigi per non avvertire i contraccolpi del voto di primavera. Ma, su un altro piano, è impressionante constatare la distanza che separa questa stagione da quella dei primi anni Novanta, quando i sindaci costruirono non il fronte più problematico, bensì quello più avanzato del rinnovamento della politica nazionale. Oggi si torna a parlare di Bassolino, a Roma qualcuno fa il nome di Veltroni o di Rutelli, e a Milano questo non succede solo perché dopo i fasti socialisti la città non è mai andata al centrosinistra. In breve: trascorsi vent’anni, il valore che le esperienze municipali riescono ad assumere sembra essere di tutt’altro segno. A Napoli, una democrazia confusa, mescolata a istanze di partecipazione e a velleità antagoniste a volte generose, altre volte e più spessoinconcludenti, lontane da ipotesi concrete di rilancio della città. A Roma, una democrazia incapace, impotente, imbelle, con un unico vessillo in piedi, quello morale, prima che finisse nel ridicolo pure quello; a Milano la democrazia incompiuta, che mostra una certa stanchezza di sé e delle sue stesse ambizioni, quasi che la politica non fosse più il teatro sul quale valesse la pena misurarsi. Tutte e tre le esperienze specchio delle città che in esse esprimono: a Napoli, una borghesia storicamente impreparata ad assumersi un ruolo dirigente; a Roma, un involgarimento dei costumi civili contro cui è franato miseramente l’argine che l’amministrazione capitolina aveva creduto di poter costruire; a Milano una società civile che sembra sempre più attratta da dinamiche internazionali e globali, e sempre meno preoccupata della dimensione municipale e dei suoi riflessi possibili in sede nazionale. In tutti i casi, segnali di scollamento che non possono non preoccupare, e sui quali – siamo al dunque – le risposte possibili sono due: o il grillismo come epilogo conseguente di questa stagione di libera improvvisazione e drastico azzeramento della politica,oppure il suo riscatto, la sua rivalutazione, la sua ripresa, in termini non solo di progetto, ma anche di uomini, di forze e di competenze specifiche. Con risorse che, però, bisogna confessare amaramente, nelle file dei partiti ancora non si riescono a vedere.

(Il Mattino, 9 ottobre 2015)

Perché il Pd non deve oltrepassare il punto di non ritorno

mazzo-controllo-deck-buildingSe un candidato unitario non lo si trova, ha detto ieri De Luca, «primarie senza angosce, e parola al popolo». E però il Pd dall’angoscia si sente già quasi afferrato. Anche solo per la ragione illustrata ieri dal governatore. Il voto di Napoli è infatti il voto «più carico di valore politico-simbolico in Italia». Si può discutere se sia davvero così, in generale, ma certo questa volta un eventuale bis di De Magistris, o addirittura una vittoria grillina nella prima città del Mezzogiorno, la terza città italiana, sarebbe un vero terremoto. Meglio dunque che centrodestra e centrosinistra si attrezzino. E meglio che il Pd lo faccia senza angosce, certo. Ha la guida della Regione, ha una responsabilità di sistema, di fatto sostiene in questo momento, a livello centrale e locale, l’asse principale della vita politica e istituzionale del Paese e prova a legittimarsi anzitutto come argine ai populismi di destra e di sinistra: ha dunque il dovere di presentare una proposta politica credibile, autorevole, chiara.

Dov’è, allora, questa proposta? Per De Luca, una proposta del genere ha da essere quella di un candidato unitario, in grado di unire anche una coalizione più larga intorno al suo nome, in grado pure di parlare alla città; in grado, infine, di governare. Fin qui, tutto ok. Ma se tutte queste condizioni non saranno soddisfatte, ha aggiunto, si andrà allora alle primarie – le famose primarie «senza angosce» –, e lui allora userà, ha promesso, parole di verità «dure» e «ineludibili». Ora, se questo non è un altolà quasi minaccioso a Bassolino non si capisce cos’altro sia. E però è difficile che non sia contemporaneamente anche l’inizio di un cammino parecchio angoscioso, e di un nuovo faticosissimo calvario per i democratici campani. Che sperimenteranno un’altra volta la contraddizione capitale, quella che li costringe ogni volta a attorcigliarsi fino all’autolesionismo intorno alla competizione elettorale. Più che una contraddizione, una vera e propria maledizione: l’uomo che raccoglie più consensi, il candidato più popolare, è anche quello guardato con i maggiori sospetti, da parte almeno di un pezzo del Pd che ne vorrebbe impedire, o frenare, il cammino. È stato così nelle primarie regionali di quest’anno, quando è toccato proprio a De Luca, dato per favorito, urtarsi contro chi gli voleva impedire la corsa, per via delle vicende giudiziarie che lo riguardavano. E poco è mancato che lo sgambetto non riuscisse. Ma in fondo fu così anche nelle comunali del 2011, quando il favorito era Cozzolino, che vinse le primarie salvo poi vedersele annullate per brogli. Com’è finita lo si sa. Quanto invece alle prossime comunali, con Bassolino ai nastri di partenza da una parte e le parole «dure e ineludibili» di De Luca dall’altra, il rischio che il Pd si infili in qualcosa di più di una cavalleresca competizione elettorale c’è tutto. E per una ragione molto semplice: perché i duellanti sono di gran lunga più forti del partito che dovrebbe organizzare il duello, allestire l’arena e preparare la competizione. È così da un numero ormai imprecisato di anni: da quando Bassolino faceva il sindaco a Napoli e De Luca a Salerno: una vicenda che dura da qualche lustro. Ma adesso accade di nuovo: quanto più si approssima il momento della scelta, quanto più si serrano i ranghi e si avvicina la conta, tanto più il partito democratico si assottiglia, si fa quasi da parte, rimpicciolisce fin quasi a scomparire. Si parla male dei contenitori, cioè dei partiti politici, perché si vogliono i contenuti, o almeno così si dice. Poi però si vede che quando i contenitori non ci sono, oppure non ce la fanno a contenere alcunché, i cozzi e gli urti che si producono fra le personalità più ingombranti – che siano leader o cacicchi, capobastone o capi carismatici – mettono a repentaglio tutto il resto. Le primarie, quando non siano meramente confermative, favoriscono questo processo: dove esiste un partito strutturato, esiste anche la possibilità di riassorbire le tensioni del voto. Le primarie diventano cioè un fattore di mobilitazione e, potenzialmente almeno, un valore aggiunto per il vincitore chiamato poi alla sfida elettorale. Dove tutto questo fatica ad esistere, il rischio della guerra per bande, di pura interdizione dell’una parte contro l’altra, cresce a dismisura.

Così il Pd ha dinanzi una doppia, anzi tripla sfida. L’ultima e la più lontana è quella delle elezioni municipali, in primavera; penultima quella delle primarie, quando saranno; ma la prima, e la più vicina in ordine di tempo è quella cominciata già in queste settimane, e in cui i democratici devono riuscire a non oltrepassare il punto, superato il quale la contesa interna finisce col lasciare solo macerie sul terreno, e rovinare irrimediabilmente le partite successive. È già successo, può succedere ancora.

(Il Mattino – ed. Napoli, 6 ottobre 2015)

Assoluzione di Fitto, il dovere di riflettere

Acquisizione a schermo intero 01102015 192458.bmpForse qualche riflessione occorre, dopo che la Corte d’Appello ha mandato assolto «perché il fatto non sussiste» Raffaele Fitto, ex governatore della Regione Puglia, poi europarlamentare e, da ultimo, leader della formazione dei Conservatori e Riformisti, staccatisi da Forza Italia.  L’assoluzione arriva a distanza di ben nove anni dall’ordinanza di custodia cautelare che avrebbe portato Fitto in carcere, se la Camera non avesse respinto la richiesta della Procura. Fitto era stato accusato di corruzione, ed era stato condannato in primo grado, nel 2013, a quattro anni di reclusione e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per una presunta tangente di 500.000 euro versata dall’imprenditore della sanità Gianpaolo Angelucci. Sotto prescrizione cadono invece gli altri reati contestati, l’associazione a delinquere, l’abuso d’ufficio e l’illecito finanziamento ai partiti. Di fronte a una sentenza simile, che ribalta l’esito del processo di primo grado, il procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, ha diramato una nota per dire che la decisione presa dalla Corte di Appello ha «confermato la fondatezza dell’ipotesi accusatoria». Confermato. La fondatezza.

Ora, è evidente che, in generale, non basta un’assoluzione per giudicare manifestamente infondata l’ipotesi sulla base della quale la pubblica accusa ha proceduto, ma ancor meno si può ritenere il contrario, che cioè basti la prescrizione a darla invece per confermata. Un bel tacer ogni dotto parlare vince, avrebbe detto il poeta Metastasio, ma forse la circostanza induce molto poco a fare della poesia.

L’accusa investiva infatti Raffaele Fitto e il governo della Puglia (lasciato un anno prima, nel 2005) per una vicenda non piccola, che toccava uno dei capitoli centrali delle politiche regionali, la sanità. Non diversamente, del resto, è andata in Campania ad Antonio Bassolino. Anche nel suo caso al centro delle inchieste c’era un pezzo fondamentale del governo regionale, la gestione del ciclo dei rifiuti. E anche nel suo caso, a sette anni dall’emergenza, i fatti hanno preso a non sussistere più. Ora che di Bassolino si torna a parlare come di un possibile candidato alla poltrona di primo cittadino, viene da chiedersi quante scorie di quelle vicenda rimarranno comunque nel dibattito pubblico in conseguenza non di un apprezzamento politico, ma di un’iniziativa giudiziaria. Tutti sanno d’altronde che, purtroppo, l’assoluzione che arriva dopo l’accusa non ripristina affatto, agli occhi dei più,  lo status quo ante. Le parole del procuratore Volpe sono una conferma lampante di ciò.

E dunque qualche riflessione occorre. Sanità e rifiuti sono le voci più importanti su cui si dà prova di buon governo o di cattivo governo di una regione. Ma non è la stessa cosa se i cittadini arrivano a pronunciare il loro giudizio, nell’urna, mentre pendono inchieste, accuse e condanne, che poi si risolvono in un nulla di fatto, oppure quando nulla di questa nera nuvolaglia ingombra l’orizzonte. È chiaro, infatti, che il corso politico degli eventi risente dei procedimenti giudiziari, e quando, a distanza di anni – di molti, troppi anni –  si deve prendere atto che l’ipotesi accusatoria può forse continuare ad apparire fondata agli occhi di qualche magistrato, ma è in realtà franata in secondo grado, è inevitabile domandarsi se non vi sia da rifletterci su. Perché in gioco non è solo il destino individuale delle persone, che pure non è certo un particolare trascurabile; in gioco sono aspetti cardinali di una democrazia liberale: l’equilibrio fra i poteri e il rispetto delle forme della rappresentanza democratica.

La ragione per cui questi interrogativi vengono sollevati in queste occasioni, quando il problema dei tempi del processo riguarda il sistema della giustizia nel suo complesso sta tutta qui: la casta non c’entra per nulla. E non basta neppure osservare che fa parte della normale dinamica processuale che una sentenza d’appello capovolga il giudizio di primo grado. Se così non fosse, si potrebbe infatti concludere perfino che è inutile prevedere un secondo grado di merito. Ma non basta, perché il nodo dei tempi di svolgimento del processo resta, e resta pure una cultura, che si fa fatica a contrastare, per cui è sufficiente un’accusa per anticipare di fatto una condanna, salvo poi ricredersi quando le risultanze processuali danno esiti diversi, a così tanta distanza dai fatti che nessuno se ne ricorda più. O magari non ricredersi nemmeno, ma ribadire che l’accusa stava in piedi comunque, assoluzione o non assoluzione.

Che dire? Qualche riflessione occorre davvero.

(Il Mattino, 1 ottobre 2015)