Chi sono i musulmani d’Italia? Chi sono i cittadini stranieri provenienti da Paesi musulmani: dal Marocco, alla Tunisia all’Egitto? L’inchiesta apparsa ieri sul Corriere della Sera sembra in verità preoccuparsi molto poco del milione e mezzo di musulmani che vivono nel nostro Paese, e molto di più della «legione di mille possibili dannati» costituita dai musulmani fondamentalisti, fortemente radicalizzatisi e potenzialmente pericolosi. Una rappresentazione del mondo musulmano in Italia dovrebbe, in realtà, includere le associazioni fiorite sul nostro territorio, toccare le moschee, i luoghi di culto, i centri culturali, esaminare i rapporti con i Paesi d’origine e con le rappresentanze diplomatiche presenti in Italia, ma anche descrivere le frequentazioni ordinarie nelle scuole, sui posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo, le abitudini alimentari, i costumi familiari, l’adesione alle pratiche religiose, e raccontare infine anche dei rapporti con lo Stato italiano e delle eventuali controversie. Tutta questa parte manca: non manca solo sul Corriere, in verità; manca un po’ dappertutto. E non preoccupa tanto il fatto che di questo mondo sappiamo molto poco, quanto piuttosto che ancor meno ne vogliamo sapere.
La violenza non solo fa notizia, ha anche un suo indiscutibile fascino: si rimane incollati alla pagina, conquistati e atterriti, quando si legge la storia di una studentessa che lascia l’Italia per raggiungere il fronte della guerra, a fianco dei fanatici dell’Isis, o del cammino inverso compiuto da combattenti tornati dalla Siria (solo una decina, ci informa il Corriere, ed obiettivamente non sembra essere un numero da titolo di giornale). Resta però il fatto che non si tratta di scelte rappresentative di ciò che balza oggi in mente alla stragrande maggioranza dei giovani musulmani residenti in Italia. Chi sono costoro? Una cosa è certa: nella quasi totalità, non sono terroristi e non fabbricano bombe, anche se si presentano troppo spesso le cose a rovescio, in spregio ai numeri. Poi si fa sfoggio di acume logico, osservando che se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi, è vero pure che tutti i terroristi sono islamici. E però si dimentica che fra i due insiemi c’è una enorme sproporzione numerica. E soprattutto che non è possibile raccontare l’insieme più grande partendo dall’insieme più piccolo, molto più piccolo, che vi è contenuto.
D’accordo: bisogna tenere alta la guardia; ma questo non può significare mettersi i paraocchi, rifiutarsi di capire. Le stragi di Parigi hanno costretto la Francia a interrogarsi nuovamente sulla presenza musulmana (Oltralpe molto più massiccia che qui da noi). Lì. Però, il dibattito su assimilazione, multiculturalismo e integrazione è molto più avanti, e, certo, anche più problematico. Lì è chiaro che non ha funzionato il discorso bushiano di esportazione della democrazia, ma anche che è fallito il progetto di Al Quaida di mobilitare tutto l’Islam contro l’Occidente. Lì, soprattutto, è evidente che gli eventi terroristici non possono essere considerati esemplari del modo in cui si delinea il corso della presenza musulmana in Europa. Si cade se mai nell’eccesso opposto: per un intellettuale come Alain Finkielkraut, che denuncia una fragilità ideologica e culturale eccessiva, della Francia e dell’Unione Europea, c’è almeno un filosofo come Alain Badiou che è pronto a dargli sulla voce, che rifiuta perfino di confrontarsi e che, anzi, denuncia orripilato un dispositivo intellettuale che, sotto la difesa della democrazia, avrebbe solo un significato brutalmente reazionario. Gli intellettuali francesi sanno essere molto più spregiudicatamente autolesionisti di noi, quando vogliono.
Qui da noi, invece, sembra che si imponga la sproporzione opposta: la costruzione del nemico procede a così grandi passi, che di un’identità culturale varia per provenienza geografica, per tratti sociologici, per abitudini di vita, per motivi etnici, per orientamento religioso, si fa un’unica cosa, ricondotta sotto il denominatore comune dell’ostilità radicale verso l’Occidente. Nient’altro passa. Si crede davvero che non vi sia una possibile definizione dell’Islam compatibile con la democrazia e con la condanna dei massacri, o che il rapporto fra affermazione di sé, individuale e politica, e identità religiosa non ammetta sfumature, differenze, gradi. Lì, insomma, in Francia, forse si sta perdendo la partita dell’integrazione: qui sembra però che non la si voglia nemmeno cominciare a giocare.
(Il Mattino, 28 novembre 2015)