Archivi del mese: novembre 2015

Islamofobia italiana

scacchi-4-christian-and-muslim-playing-chessChi sono i musulmani d’Italia? Chi sono i cittadini stranieri provenienti da Paesi musulmani: dal Marocco, alla Tunisia all’Egitto? L’inchiesta apparsa ieri sul Corriere della Sera sembra in verità preoccuparsi molto poco del milione e mezzo di musulmani che vivono nel nostro Paese, e molto di più della «legione di mille possibili dannati» costituita dai musulmani fondamentalisti, fortemente radicalizzatisi e potenzialmente pericolosi. Una rappresentazione del mondo musulmano in Italia dovrebbe, in realtà, includere le associazioni fiorite sul nostro territorio, toccare le moschee, i luoghi di culto, i centri culturali, esaminare i rapporti con i Paesi d’origine e con le rappresentanze diplomatiche presenti in Italia, ma anche descrivere le frequentazioni ordinarie nelle scuole, sui posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo, le abitudini alimentari, i costumi familiari, l’adesione alle pratiche religiose, e raccontare infine anche dei rapporti con lo Stato italiano e delle eventuali controversie. Tutta questa parte manca: non manca solo sul Corriere, in verità; manca un po’ dappertutto. E non preoccupa tanto il fatto che di questo mondo sappiamo molto poco, quanto piuttosto che ancor meno ne vogliamo sapere.

La violenza non solo fa notizia, ha anche un suo indiscutibile fascino: si rimane incollati alla pagina, conquistati e atterriti, quando si legge la storia di una studentessa che lascia l’Italia per raggiungere il fronte della guerra, a fianco dei fanatici dell’Isis, o del cammino inverso compiuto da combattenti tornati dalla Siria (solo una decina, ci informa il Corriere, ed obiettivamente non sembra essere un numero da titolo di giornale). Resta però il fatto che non si tratta di scelte rappresentative di ciò che balza oggi in mente alla stragrande maggioranza dei giovani musulmani residenti in Italia. Chi sono costoro? Una cosa è certa: nella quasi totalità, non sono terroristi e non fabbricano bombe, anche se si presentano troppo spesso le cose a rovescio, in spregio ai numeri. Poi si fa sfoggio di acume logico, osservando che se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi, è vero pure che tutti i terroristi sono islamici. E però si dimentica che fra i due insiemi c’è una enorme sproporzione numerica. E soprattutto che non è possibile raccontare l’insieme più grande partendo dall’insieme più piccolo, molto più piccolo, che vi è contenuto.

D’accordo: bisogna tenere alta la guardia; ma questo non può significare mettersi i paraocchi, rifiutarsi di capire. Le stragi di Parigi hanno costretto la Francia a interrogarsi nuovamente sulla presenza musulmana  (Oltralpe molto più massiccia che qui da noi). Lì. Però, il dibattito su assimilazione, multiculturalismo e integrazione è molto più avanti, e, certo, anche più problematico. Lì è chiaro che non ha funzionato il discorso bushiano di esportazione della democrazia, ma anche che è fallito il progetto di Al Quaida di mobilitare tutto l’Islam contro l’Occidente. Lì, soprattutto, è evidente che gli eventi terroristici non possono essere considerati esemplari del modo in cui si delinea il corso della presenza musulmana in Europa. Si cade se mai nell’eccesso opposto: per un intellettuale come Alain Finkielkraut, che denuncia una fragilità ideologica e culturale eccessiva, della Francia e dell’Unione Europea, c’è almeno un filosofo come Alain Badiou che è pronto a dargli sulla voce, che rifiuta perfino di confrontarsi e che, anzi, denuncia orripilato un dispositivo intellettuale che, sotto la difesa della democrazia, avrebbe solo un significato brutalmente reazionario. Gli intellettuali francesi sanno essere molto più spregiudicatamente autolesionisti di noi, quando vogliono.

Qui da noi, invece, sembra che si imponga la sproporzione opposta: la costruzione del nemico procede a così grandi passi, che di un’identità culturale varia per provenienza geografica, per tratti sociologici, per abitudini di vita, per motivi etnici, per orientamento religioso, si fa un’unica cosa, ricondotta sotto il denominatore comune dell’ostilità radicale verso l’Occidente. Nient’altro passa. Si crede davvero che non vi sia una possibile definizione dell’Islam compatibile con la democrazia e con la condanna dei massacri, o che il rapporto fra affermazione di sé, individuale e politica, e identità religiosa non ammetta sfumature, differenze, gradi. Lì, insomma, in Francia, forse si sta perdendo la partita dell’integrazione: qui sembra però che non la si voglia nemmeno cominciare a giocare.

(Il Mattino, 28 novembre 2015)

Primarie, il rischio di un gioco a perdere

ROKES 1

Antonio Bassolino si candida. Il primo tweet con il quale aveva annunciato la corsa verso Palazzo San Giacomo non diceva altro. Veniva però subito dopo la decisione del partito democratico di indire le primarie. Come mai allora «fonti del Nazareno» hanno fatto subito sapere che Bassolino non è il candidato del Pd? Chiunque volesse oggi correre alle primarie potrebbe certamente farlo, nei termini naturalmente del regolamento che il partito dovrà approvare. E altrettanto certamente nessuno potrebbe essere il candidato ufficiale del Pd: proprio perché di primarie si tratta, cioè di una scelta tra candidati di uno stesso partito. Perché allora le imprecisate fonti del Nazareno si sono affrettate a precisare l’imprecisabile, e a togliere un bollino che non c’è, non è nemmeno previsto?

È probabile che a Roma siano arrivate, frettolose e confuse, le sollecitazioni di una segreteria regionale sempre più in affanno. Che ha già subito la vicenda De Luca, e che ora si prepara a subire pure la vicenda Bassolino. Con De Luca segue arrancando; con Bassolino invece contrasta, ma arranca lo stesso. Così l’altro giorno, al Nazareno, evidentemente mal consigliati, hanno steccato la prima. La dirigenza campana non vuole Bassolino, e chiede a Roma di prendere le distanze, di mettere uno stop. Lo stop arriva, ma in maniera decisamente maldestra, impropria, e soprattutto autolesionista. Per due buoni motivi.

Il primo. Le voci o le fonti romane hanno dato l’impressione che Renzi, o la sua segreteria, non intende semplicemente stare a guardare, ma mette i piedi nel piatto, e pretende di scegliere, o almeno di esprimere il proprio gradimento su questo o quel candidato. La cosa non è solo formalmente discutibile, e dopo la caduta di Marino anche inopportuna, ma pure controproducente dal punto di vista politico, perché proprio non conviene a Renzi, o a chi per lui, giocare alle comunali una partita in cui, oltre a De Magistris e ai Cinque Stelle e al centrodestra, Il Pd rischi di trovarsi contro pure Bassolino. Cosa infatti è successo, o può succedere? Bastava leggere il secondo tweet di Bassolino, che queste cose le ha capite benissimo: mi candido, ha scritto, a sindaco di Napoli. Che in pratica vuol dire: io ho diligentemente aspettato la decisione del Pd sulle primarie, ma se il Pd gioca contro di me, io posso pure giocare contro il Pd. E se il Pd porrà regole che ostacoleranno la mia corsa – limitando fortemente la partecipazione – non è detto che io non prosegua con una lista civica, saltando a piè pari il confronto delle primarie e rivolgendomi direttamente alla città.

Mentre così a Napoli si pensava di aver messo uno stop a Bassolino, a Roma devono essersi accorti che è piuttosto il Pd a rischiare la battuta d’arresto: le dichiarazioni venute successivamente hanno dunque ridimensionato la portata della prima presa di posizione, e le primarie sono tornate ad essere, molto più ecumenicamente, il luogo in cui i cittadini scelgono il futuro candidato sindaco.

Secondo motivo. Se la prima cosa che il Pd ha da dire, dopo aver detto sì alle primarie, è no a Bassolino, vuol dire che del resto – di idee, programmi, progetti – non gliene importa gran che. O almeno è questo che la mossa improvvida dell’altra sera ha dato ad intendere. Certo, non bisogna essere ingenui: con le primarie si sceglie anzitutto un candidato (o una candidata). Ma dov’è l’interesse dei democratici a far precipitare tutto in uno scontro sul nome di Bassolino? Non c’è. Eppure, è bastato un twit per mandare in confusione la segreteria regionale, spingere Roma a un confronto che non dice nulla alla città ma parla solo di posizionamenti politici e lotte di potere, e indurre tutti gli altri a chiedersi se valgono ancora le antiche mappe e le partite di risiko di una volta, con i bassoliniani da una parte, i miglioristi da un’altra, e gli ex democristiani da un’altra parte ancora. Non c’è bisogno di Sun Tzu e dell’arte della guerra per capire che primarie fatte così sono per il Pd un gioco a perdere.

In realtà, i democrats campani hanno la possibilità di prendere la cosa in tutt’altro modo: accettando la sfida. Dire che Bassolino non c’entra col Pd è come dire che i pomodori non c’entrano con la pizza. Semplicemente: non si può dire. Quel che invece si può fare, o che un partito con un po’ più di fiducia nei propri mezzi dovrebbe fare, e spingere per una corsa vera, costruire un progetto politico credibile, intorno a nuove idee e una nuova classe dirigente, e poi misurarsi. Le battaglie politiche vanno combattute, non scongiurate con tardivi esorcismi romani. In condizioni di normale fisiologia politica, nelle primarie c’è chi vince e c’è chi perde, ma non succede che a perdere sia il partito che le organizza. A Napoli il Pd è già riuscito una volta nell’impresa, nel 2011. In maniera certo meno traumatica, ma persino più deludente, rischia di riuscirci un’altra volta.

(Il Mattino, 23 novembre 2015)

Se la politica si nasconde tra le regole

ouverture-la-regle-du-jeuLa decisione del partito democratico, di tenere le primarie per la scelta del candidato sindaco, è una decisione saggia, oltre che obbligata e lievemente tardiva. Questa volta no, ma prima o poi i dirigenti del Pd si accorgeranno che non può funzionare un sistema che dilapida risorse politiche di credibilità e fiducia non in competizioni elettorali, ma nella decisione intorno al se, al come, e al quando di siffatte competizioni. Rispetto alla precedente esperienza delle primarie per le elezioni regionali, quando la decisione fu a lungo rinviata, il Pd campano questa volta ha fatto meglio, ed è riuscito a dare con buon anticipo la data delle primarie: il 7 febbraio. Scelta saggia, si diceva, e d’altra parte obbligata, per il paradosso che ogni volta si rinnova, che prima ancora di avere certezze sullo svolgimento delle primarie vi sono già candidati in campo che le chiedono a gran voce. Contendibile, infatti, non è solo la carica, ma pure il metodo. Quando però i candidati sono autorevoli, e hanno concrete chance di vittoria, non tenere oppure tenere le primarie diviene una decisione ad hominem, presa pro o contro quel tal candidato. Che, nel caso di Napoli, risponde al nome di Antonio Bassolino. Il quale non fa più mistero di avere intenzione di scendere nuovamente in campo.

Presa una decisione, ne incombe però subito un’altra. Le primarie sì, d’accordo: ma come? Il vertice del partito ha preso tempo, per ragionarci su: confrontarsi, discutere, come si dice in questi casi. Le considerazioni del capoverso precedente possono perciò essere prontamente richiamate qui, un’altra volta: un conto è infatti discutere sulle modalità a bocce ferme, quando un velo di ignoranza copre ancora il nome dei candidati, un altro è farlo quando i nomi circolano già, gli schieramenti vanno profilandosi, e qualunque decisione venga presa vale non tanto per il merito, quanto per il modo in cui taglia la strada, oppure agevola, la corsa del candidato (o dei candidati) già in lizza. Cioè daccapo di Antonio Bassolino.

Lui infatti vuole primarie aperte, e le vuole perché le primarie sono un fatto di democrazia, perché il partito democratico ha bisogno di immettere energie nuove, perché anche Renzi, a suo tempo, fece una battaglia per favorire la partecipazione la più larga possibile – per tutti questi motivi Bassolino vuole primarie aperte, ma soprattutto perché ha più ostilità dentro il partito, fra i maggiorenti locali, che fuori. Sia o no in contraddizione con la sua storia politica passata, Bassolino oggi si presenta come un candidato esterno al Pd, che scende in campo in virtù della sua storia personale, piuttosto che in forza di un rapporto organico con i gruppi dirigenti del Pd. E dunque: più le primarie pescano fuori dal circuito degli iscritti, dell’elettorato mobilitato dai capi corrente, meglio è per lui.

Se allora ci si volge dalle parti del Pd, non meraviglierà che lì, da quelle parti, le primarie le preferirebbero invece chiuse, o almeno socchiuse: riservate agli iscritti, oppure vincolate a una qualche forma di registrazione precedente, o almeno a una sorta di dichiarazione di intenti. Perché però chiuderle o socchiuderle? Per impedire l’afflusso al seggio di elettori di altri partiti o schieramenti, per scoraggiare brogli e rendere il processo più trasparente, per riservare agli iscritti qualche diritto in più rispetto ai semplici simpatizzanti e così salvaguardare l’organizzazione di partito – per tutti questi motivi e perché in questo modo si rende la vita più difficile a Bassolino.

Poi naturalmente ci sono le sfumature: un conto è potersi pre-iscrivere fino al giorno precedente il voto, un altro è chiudere questa fase preliminare settimane prima; un conto è organizzare le iscrizioni in una sede di partito,  un altro è farlo in un luogo meno connotato; un conto è chiedere un contributo volontario, un altro è prevedere un contributo obbligatorio, e magari fissarlo pure alto. Tutte queste diverse opzioni incidono sulla partecipazione, invogliano oppure respingono, e dunque parlano – almeno sulla carta – a favore dell’uno piuttosto che dell’altro.

La cosa, tuttavia, rimane sorprendente, e appassionerà gli scienziati della politica a lungo: sarà che le primarie sono per taluni il mito fondativo del Pd, e come i miti antichi ha mille possibili varianti,  fatto sta che un pezzo della lotta politica nel Pd continua ad essere assorbito da questioni procedurali (che, come si è detto, tanto procedurali non sono), il che ovviamente toglie forza e, alla lunga, credibilità. Soprattutto, non dà al Pd una voce verso la città, che non può certo appassionarsi ai requisiti di partecipazione più vincolanti o meno vincolanti, e lo costringe ogni volta, non si sa per quanto tempo ancora, a consumarsi in una macerazione tutta intestina.

(Il Mattino, 21 novembre – edizione napoletana

 

 

Houellebecq e l’imbecillità “degli altri”

michel_houellebecq_gq_2014_511xUna «spaccatura abissale» si è venuta a creare tra «i cittadini e coloro che dovrebbero rappresentarli»: dovrebbero, perché di fatto non li rappresentano, anche se non è affatto chiaro, temo, il significato della rappresentanza democratica a chi scrive queste cose. Chi scrive è Michel Houellebecq, che sulle pagine del Corriere di ieri ha affibbiato la patente di imbecillità all’intero classe politica francese, a cominciare da quel «ritardato congenito» che risponde al nome di François Hollande, Monsieur le Président. Houellebecq se lo può permettere, non solo perché è uno dei più grandi, e uno dei più discussi, scrittori francesi contemporanei, ma anche perché ha dato quest’anno alle stampe un romanzo, Sottomissione, in cui descrive una Francia ormai politicamente, intellettualmente e perfino sessualmente esausta e infiacchita, e immagina che in un simile  scenario, in un futuro non troppo lontano, possa salire all’Eliseo un leader musulmano moderato. Tutte le paure francesi hanno trovato ricetto nelle pagine di Houellebecq, tutto l’orgoglio gallico se ne è dovuto risentire. E  così il libro ha fatto discutere: molto. In verità ogni libro di Houellebecq fa discutere, e anche l’articolo di ieri fa discutere e va discusso.

Perché, dunque, imbecilli, i politici francesi? Perché hanno fatto l’opposto di quel che dovevano fare, per fronteggiare la minaccia islamista: hanno tolto le frontiere e favorito così l’immigrazione, e invece dovevano preservarle, presidiarle e difenderle, e hanno bombardato (oggi in Siria, ma ieri in Iraq e in Libia, per dire dei principali focolai di crisi), e invece non dovevano bombardare. Cosa che il popolo francese sa benissimo, ha sempre saputo, e che solo una manica di imbecilli si è ostinata per decenni a non capire.

Ora, l’ingenuità dilettantesca di un simile giudizio si spiega forse per la verve letteraria che lo scrittore sa mettere nel suo giro di frase: figuriamoci, infatti, se non è parlar chiaro dare a qualcuno dell’imbecille. E siccome il parlar chiaro riesce più vivace e persuasivo di qualunque estenuante distinzione intellettuale o ragionamento politico, voilà: politiche dell’immigrazione e politica estera divengono solo più il parto di gente manifestamente incapace (che, sia detto per inciso, non si capisce bene perché la popolazione – che per Houellebecq «non ha fallito in nulla» – continua tuttavia a votare). Ovviamente qualunque analista meno brillante di Houellebecq proverebbe piuttosto a spiegare, condivida o no il giudizio, perché la Francia abbia preso questa strada. Il grande scrittore con vista privilegiata sulle miserie umane no, se la sbriga regalando a tutti il titolo di imbecille, si inventa una democrazia diretta che non si capisce come farebbe fronte al frangente in cui si trova oggi la Francia e ci lascia in difetto di qualsiasi spiegazione.

Ma questo, in fondo, è il meno. Il più è se davvero l’egoismo nazionale in salsa populista di Houellebecq sia la soluzione. Lo scrittore sembra infatti pensare che basti eliminare la classe politica, accompagnare gli immigrati alla porta e promettere di non immischiarsi più di Medioriente e questioni affini, per ottenere la pace nel mondo, o almeno la sicurezza dei francesi. Orbene, bisogna ignorare quasi tutto della storia del mondo, a far data dalle guerre persiane almeno, per coltivare simili illusioni. Le quali ovviamente piacciono alla gente che ama star tranquilla, e che immagina non si debba pagare alcun prezzo per la propria tranquillità, sol che non si turbi quella altrui.

Purtroppo però il corso delle vicende umane dimostra esattamente il contrario: non a caso di Svizzere chiuse nelle proprie valli, in Europa, ce n’è una sola, e anche quella non è poi così fuori dagli affari umani come si potrebbe credere. Ma è l’intero movimento di civiltà da Oriente a Occidente, l’inquietudine che ebbe in origine il nome di Europa a contraddire questa visione.

Basta osservare un paio di cose. Anzitutto un dato: imbecilli o no, gli europei si sono sempre – dicesi sempre – immischiati nelle storie del vicino Oriente (e l’Oriente del promontorio europeo, quando a sua volta ha potuto). Ho detto gli europei per comodità, ma la cosa valse anche per i macedoni di Alessandro Magno o per i romani. Si può anche inscrivere tutto questo al colonialismo, all’imperialismo o all’eurocentrismo dei popoli europei, e si avrebbe anche ragione. Ma di sicuro una visione strategica e una filosofia della storia non si sostituiscono con la facilità con cui si dà dell’imbecille a qualcuno.

In secondo luogo, non si è mai visto, nelle cose della politica, che un atteggiamento di rinuncia o di disimpegno non venga inteso per un segnale di debolezza, o di paura. Chi glielo spiega, all’Isis, che se ne possono star di là, se ci lasciano in pace di qua? Facciamo anche noi opera di immaginazione politica, come Houellebecq nel suo libro: perché un Califfato che negli anni si fosse costruito sull’odio verso l’Occidente, e avesse conquistato l’intero mondo musulmano con questa bandiera, preso il Medioriente e la sponda africana del Mediterraneo dovrebbe finirla là, e starsene quieto nei suoi confini? Glielo dirà Houellebecq, che ognuno se ne stia a casa sua?

Ma il messaggio dello scrittore francese ha il suo fascino, perché l’impiego della forza a difesa della pace, così come l’integrazione fra popoli e culture diverse continuano ad avere, per molti, un suono ipocrita. E invece, altro che parlar franco: la vera ipocrisia è di chi crede che basti davvero non buttare le bombe per avere la pace, o rinchiudersi in una società ottusamente omogenea per avere una vita tranquilla. Poi ci aggiungi il facile risentimento verso i politici incapaci, la fandonia della democrazia diretta e il gioco è fatto: puoi dare dell’imbecille a chiunque. Dare, o anche prenderti.

(Il Mattino, 20 novembre 2015)

Il conflitto utile e il male minore

poli184«La Francia è in guerra. Gli atti compiuti venerdì sera a Parigi e nei pressi dello Stadio di Francia sono atti di guerra. Sono commessi da un’armata jihadista che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà, perché la Francia è la patria dei diritti dell’uomo». Così ha parlato François Hollande ieri, dinanzi al Parlamento francese, chiedendo anche una revisione costituzionale (sui poteri del Presidente e lo stato d’assedio) che ha anzitutto un significato politico: poiché la revisione costituzionale richiede il voto dei tre quinti dell’Assemblea, su di essa deve convergere anche il centro-destra.

Ma la guerra, sul fronte esterno, è un’altra cosa. Un conto è essere in guerra, un altro è farla. Per fare la guerra, non basta l’intensificazione dei bombardamenti che avviene in queste ore, o l’approssimarsi della portaerei Charles de Gaulle alle coste del Mediterraneo orientale, ci vuole un intervento militare a terra, che spazzi via l’autoproclamatosi Stato Islamico e mandi all’inferno il Califfo Al Baghdadi.

La domanda è se sia chiara la visione che sostiene questa strategia. Chi la respinge per motivi etici e umanitari oggi non è ascoltato, ma in realtà non è mai stato ascoltato perché mai il corso della politica e quello della guerra si sono separati nella storia umana. Se accettiamo di misurarci sul terreno della politica, non possiamo quindi limitarci a chiedere se sia morale questa guerra, ma dobbiamo domandarci se sia utile.

Sul versante interno, la Francia di Hollande sembra voler prendere la strada che fu già seguita dall’America col Patrioct Act dopo l’11 settembre: la strada delle misure eccezionali. Maggiore sicurezza significa maggiori poteri ai corpi di polizia, maggiori ingerenze degli apparati dei servizi segreti. Maggiori poteri significano quindi minori diritti, minori libertà, minore privacy. Fin dove ci si può spingere? Soprattutto: fin dove serve spingersi? Vogliamo davvero che le nostre libertà scivolino via, in nome dell’emergenza? Siamo sicuri che non basti una severa, ferma applicazione delle regole del diritto – l’unico terreno sul quale, tra l’altro, esiste una dimensione europea davvero comune, costruita intorno alla Corte di giustizia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo – e occorra invece una loro sospensione, o una loro compressione? E se questa sospensione o questa compressione vogliamo che riguardi non noi, ma solo quella fetta di popolazione di cui sospettiamo (perché musulmana, perché immigrata, o magari semplicemente perché povera), siamo sicuri che così non ne alimenteremo il risentimento di tutti costoro, finendo in questo modo con l’ingrossare le file del nemico? Si può anche non esitare dinanzi a questo interrogativo: importante è sapere che occorre affrontarlo. E naturalmente essere poi conseguenti, in un senso o nell’altro.

Sul versante esterno, certo non possiamo cavarcela dicendo che la guerra è un affare dei francesi, perché così non è. Hollande si è rivolto ai partner europei, e ha fatto bene. Non è solo poco dignitoso augurarsi che altri facciano il lavoro sporco per noi: è insensato. Non è insensato invece interrogarsi su chi sia il nemico – e chi gli alleati. Se il maggior nemico è l’ISIS, o IS, di Al Baghdadi, possiamo permetterci di non rivolgere la parola al leader siriano Assad, che l’ISIS ce l’ha di fronte, e di contro? Non è necessario accettare la logica del male minore? E possiamo pretendere di disegnare da soli, senza il concorso delle altre potenze regionali e della Russia, la mappa del vicino Oriente? Perché di questo si tratta e così è sempre stato, da quelle parti: nel bene e nel male, in quelle contrade gli europei prima, gli americani poi hanno voluto o dovuto ridisegnare la geografia, secondo le linee di interesse e le forze presenti sul terreno. Non si può sperare che questa dimensione cruda e realistica dei rapporti di forza scompaia d’incanto, e condurre una guerra solo in nome di un astratto imperativo morale, o di un altrettanto astratto furore bellicista. Non funziona l’uno, non funziona l’altro. Anche in questo caso abbiamo un esempio recente: dalla caduta di Saddam Hussein e del regime baʿthista sono trascorsi poco più di dieci anni. La guerra, allora, fu fatta: coi bombardamenti, i carri armati e tutto quanto. Nello schema di quella guerra, la fine del dittatore, la statua di Saddam nella polvere, la liberazione di un popolo, doveva  preludere all’esportazione della democrazia in tutta l’area mediorientale. Essendo Saddam Hussein il principale mandante del terrorismo mondiale, si pensava che la sua sconfitta avrebbe significato anche la fine, o perlomeno il contenimento, della minaccia terroristica. Non è andata affatto così. A distanza di dieci anni, una nuova potenza statale è sorta, compromettendo l’integrità territoriale siriana e irachena. Adesso sogna di estendere il suo dominio dal Medioriente all’intera fascia mediterranea africana. È inoltre in grado, come dimostrano i fatti di Parigi, di seminare terrore ovunque. Sembra dunque che, ben lungi dall’aver imposto la pax americana nella regione, sia stato scoperchiato un vaso di Pandora, che ora non si sa come richiudere. Con un’altra guerra: sia pure. Ma con chi si intende farla? Chi è disposto a fare cosa? Chi, tra i paesi formalmente nostri alleati dell’area – Turchia da una parte, Arabia saudita dall’altra –  è davvero pronto a farla, o a supportarla? E per avere, dopo la guerra, quale Medioriente? Queste domande non possono essere eluse. La retorica pacifista non arriva a porle, ma quella bellicista le scansa con altrettanta, irresponsabile superficialità.

(Il Mattino, 17 novembre 2015)

Voi, nei Panni del Presidente

Maschera

Stai per cominciare a leggere, caro lettore, la cronaca di un fatto mai accaduto. Rilassati, Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisioni accesa e tu devi disporti a diventare il Presidente della regione Campania, dopo avere vissuto mesi intensissimi, a colpi di polemiche, primarie mille volte rinviate e poi infine celebrate, colpi bassi e carte bollate, sentenze che ti inseguono e la strada stretta e impervia fra ineleggibilità e incandidabilità che la legge Severino ti ha lasciato: di lì sei passato, respingendo sdegnato accuse infamanti – tipo Gomorra nelle liste – fino all’ultimo assalto della Commissione antimafia, che ti ha bollato come impresentabile. Però ora sei stato eletto, hai dribblato la cerimonia di insediamento, hai nominato la giunta.

Un bel giorno, nell’ufficio o al telefono del tuo più stretto collaboratore si fa vedere o sentire qualcuno, che mostra di conoscere sin troppo bene la tua vicenda giudiziaria. Sa che sei in attesa di un giudizio sulla sospensione degli effetti della legge Severino, da cui può venire tanto la possibilità di rimanere alla guida della Regione, quanto una sospensione per diciotto mesi: in politica, un’eternità. Questa persona non dice di sapere come stanno le cose: dice di poterle determinare, quelle cose. E mentre fa capire di avere questa influenza sul giudice, perché del giudice è il marito, ti chiede un importante incarico in qualche azienda sanitaria campana. La nomina, si capisce,  dipende da te. Ebbene, non è mai accaduto che il tuo più stretto collaboratore sia venuto da te per riferirti della vicenda, ma se fosse venuto tu cosa avresti fatto, caro lettore? Avresti avuto diverse possibilità. Una possibilità è denunciare subito il fatto alla magistratura. Un’altra è prendere tempo. Un’altra ancora è concludere l’affare: nomina in cambio di sentenza. Quest’ultima è di sicuro la scelta più drastica, ma è anche quella che comporta la più turpe violazione della legge. Sotto la pressione enorme in cui ti trovi, comunque, non è semplice scegliere. Avresti anche un’altra scelta, altrettanto netta, ma di segno opposto: metterlo alla porta, e non perdere un minuto di più. Oppure, si diceva, andare dal magistrato. È la cosa più giusta, la più lineare: denunci la cosa e tagli di netto ogni relazione pericolosa. Ma forse temi la canea mediatica che si potrebbe scatenare. Magari l’uomo che denunci dirà che sei stato tu ad avvicinarlo e a cercare un modo per influenzare il giudizio, e sui giornali la vicenda potrebbe durare a lungo. Sei vulnerabile, i tuoi modi piacciono ai cittadini campani ma molto meno a certi editorialisti, forse non hai nemmeno tutta questa fiducia nella magistratura e non vedi chiaro in fondo a questa storia. Prendi allora in considerazione l’ipotesi rimanente: dire al tuo collaboratore di prendere tempo, di rimandare, di rassicurare ma insieme di rinviare, e intanto cercare di capirci meglio. Naturalmente tutto questo, caro lettore, non è mai avvenuto.

Il tempo passa. Viene settembre. Il caso pende ora dinanzi alla Corte costituzionale ma il nodo non è ancora sciolto. L’uomo che diceva, o millantava, di poter orientare la decisione del giudice non ha ricevuto alcun incarico. Perciò si fa sotto di nuovo, telefona, dice che se lui non diverrà manager, la regione avrà un altro Presidente. Ora però mettiti in altri panni, caro lettore, e in questa storia mai accaduta immagina di essere un magistrato. Sulla tua scrivania arrivano le intercettazioni da cui puoi capire cosa bolle in pentola: qualcuno chiede con insistenza una nomina, sostenendo di aver fatto la sua parte e di aspettarsi la dovuta ricompensa. Che però non arriva, che non è ancora arrivata. Che cosa fai, caro lettore? Quella nomina interessa la sanità campana, e il presidente della regione sta annunciando una piccola rivoluzione: azzeramento della struttura tecnica dell’azienda sanitaria regionale, e nuove nomine. Cosa fai, dunque? Anche a te tocca scegliere. Forse, se hai una radicata cultura della prova, se consideri che il «pactum sceleris», l’accordo delittuoso, risalterà in tutta la sua evidenza quando la nomina sarà sopravvenuta, aspetti di verificare se il presidente della regione procederà, dunque, alla nomina. Tu non sai ancora se egli sia vittima, oppure correo, o magari l’una e l’altra cosa insieme. Non sai, non hai nelle intercettazioni nulla che ti permetta di dare il patto per concluso. Ti manca la prova regina, il colpo del ko. Però sai anche che puoi procedere in altro modo.

Puoi rinunciare a verificare se l’uomo che vendeva (o millantava di vendere) sentenze avrebbe avuto davvero l’utile richiesto. Puoi dare tutto in pasto all’opinione pubblica, e lasciare che la vicenda rimbalzi dal piano processuale a quello mediatico. La prova regina si allontana definitivamente, ma l’eco è garantita. Ma può darsi anche che in questa storia mai esistita tu ritieni di avere già in mano quello che ti serve per procedere. E agisci secondo uno schema consolidato: intercettazione, perquisizione, avviso di garanzia. In fondo, ora che, secondo l’ordinamento vigente, l’acquiescenza alla pressione corruttrice basta a configurare il reato, puoi ritenere del tutto legittimo muoverti subito – certo per l’urgenza del momento e il grande agitarsi di mediatori, faccendieri e factotum – senza dover aspettare che dalle intenzioni si passi ai fatti, dalle promesse alla loro realizzazione. La recente giurisprudenza, e pure un certo clima nel paese, è con te. Anche così la cosa deflagrerà sui giornali, e dentro ci finiranno tutti: quelli che hanno agito, quelli che hanno promesso di agire, quelli che hanno detto che altri avrebbero agito. Dentro – s’intende – il gran polverone di storie vere, meno vere, probabili o mai accadute che da quel momento in poi i giornali non potranno non raccontare. Tu cosa faresti, caro lettore? Ora che hai finito, quel che è certo è che aprirai la porta, e accenderai la tv.

(Il Mattino, 14 novembre 2015)

Le spiegazioni che non sono ancora arrivate

ImmagineL’inchiesta della Procura di Roma che ha portato all’avviso di garanzia per Vincenzo De Luca non contiene al momento un coinvolgimento diretto del Presidente della regione Campania. De Luca è stato minacciato – questa l’ipotesi degli inquirenti – perché su di lui pendeva la decisione di un collegio giudicante che poteva essergli sfavorevole, in merito alla sospensione della legge Severino. Intorno a questa decisione si sono mossi, a quanto si apprende, il marito della giudice – che oggi sappiamo viveva da separato in casa sotto lo stesso tetto – e il più stretto collaboratore di De Luca, Nello Mastursi. I due parlano, vengono intercettati, scatta l’inchiesta. Ora, è chiaro che è necessità da tutti avvertita, e per primo da De Luca stesso, che su questa vicenda sia fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Un avviso di garanzia non significa in alcun modo un principio di colpevolezza, e per questo bisogna che siano fugati presto tutti i dubbi sulla vicenda.

L’opinione pubblica ha però il dovere di chiedersi se, nelle scorse giornate, il comportamento tenuto dal governatore sia stato all’altezza della situazione. Una tempesta stava per scatenarsi, De Luca sapeva che si sarebbe scatenata, e però ha preferito fingere di non sapere e costruire una spiegazione di comodo per le precipitose dimissioni del capo della sua segreteria. Quando ha già sul tavolo un avviso di garanzia che gli precisa i termini dell’indagine in corso, quando sa già in quali traversìe sia finito il suo braccio destro, quando la notizia delle perquisizioni nella casa e nell’ufficio di Mastursi è già di dominio pubblico, De Luca dà credito a una versione per dir così ufficiale, che le dimissioni del suo uomo più fidato siano dipese solo da un cumulo di impegni eccessivi. Non sappiamo, e De Luca ha anzitutto il dovere di chiarire, se questa bugia sia stata concordata, accettata o da lui imposta a Mastursi. Certo è che quando il Presidente ribadisce con forza che si aspetta che sull’intera vicenda sia fatta chiarezza il prima possibile, dimentica di dire che la nota della Regione e le sue ironie sulle ricostruzioni fantasiose dei giornali – che invece erano vere, mentre la nota mentiva  – non hanno certo contribuito a chiarire come stessero le cose. È sembrato al contrario che De Luca, finché ha potuto, abbia cercato di nascondere alla pubblica opinione cosa stesse accadendo nelle stanze più vicine alla sua. Il minimo che si possa dire è che non è stato un segnale di forza. Se De Luca non ha nulla da nascondere, poteva però dirlo fin dal primo momento, senza contribuire ad accreditare versioni ufficiali che non potevano non essere travolte nel giro di pochissime ore. Un errore, una trovata nemmeno troppo furba, una mossa infelice che rischia però di incrinare il rapporto di fiducia con i cittadini campani.

C’è poi un’altra domanda alla quale il Presidente è tenuto a dare risposta. Nello Mastursi ha attraversato la più gran parte di questi anni a fianco di Vincenzo De Luca. Ne è divenuto l’ombra. È giusto sapere allora una cosa: se De Luca abbia ancora in lui la più grande fiducia, la stessa che ha avuto in tutti questi anni, o se invece cominci a pensare di aver fatto male a fidarsi di lui. Qui è in gioco una responsabilità politica, naturalmente, e non altro che questa: quella che concerne gli uomini che De Luca ha scelto perché lo affiancassero nelle responsabilità politiche e istituzionali connesse al suo ruolo di Presidente. Grazie al rapporto politico con De Luca, Mastursi è anche divenuto uno dei più importanti dirigenti del partito democratico campano, ruolo che ha ora dovuto lasciare per evitare che l’inchiesta che lo riguarda danneggiasse non solo l’istituzione ma anche il partito. Ne va dunque, nella sua delicatissima vicenda, non solo della sua storia personale, ma di un pezzo non piccolo della storia politica salernitana, poi campana, e del perno intorno alla quale essa ruota da qualche decennio: cioè ancora una volta di Vincenzo De Luca.

In tutto ciò, ripetiamolo, non si tratta affatto di sospendere le garanzie che l’ordinamento pone a tutela di chiunque venga raggiunto da un provvedimento giudiziario. Quelle garanzie rimangono intatte, intatta la presunzione di innocenza, e intatto il diritto di De Luca di protestarla con forza. «Keep calm», ripete giustamente il governatore De Luca ai suoi collaboratori e alla stampa: manteniamo la calma. Nessuna conclusione affrettata, nessun processo mediatico, nessuna speculazione politica. Ma la chiarezza  che De Luca chiede venga fatta il prima possibile, deve osservarla anche lui – anzi: lui prima di ogni altro, nella situazione in cui si trova – rinunciando alle spiegazioni reticenti, o addirittura false, e rispondendo – non certo in una conferenza stampa dove parla solo lui e non sono ammesse domande – dinanzi all’opinione pubblica in maniera non omissiva né sferzante delle sue scelte, dei suoi uomini, dei loro comportamenti.

(Il Mattino, 12 novembre 2015)

Papa e Apple, le fedi che parlano ai giovani

Parlando a Firenze, ieri Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati agli imperfetti». Parlando ieri a Milano, all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, Tim Cook, il numero uno della Apple, ha detto: «Siamo qui per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato». E l’una e l’altra parola – la parola sull’imperfezione e quella sul perfezionamento – sono risuonate ricche di significato, ed eloquenti, cioè capaci di parlare davvero alla platea che ascoltava. Papa Francesco ha parlato di umiltà, di disinteresse, di beatitudine: i tratti di un messaggio che danno ancora senso, secondo il Pontefice, alla vita cristiana, e che recuperano il loro valore solo se la Chiesa – ha spiegato Francesco – fa opera di pulizia al suo interno. Tim Cook ha toccato le questioni ambientali – il cambiamento climatico, l’uso delle energie rinnovabili –, poi la lotta alle discriminazioni, infine il tema della privacy, cruciale per un’azienda come la Apple, che maneggia una mole impressionante di profili e dati personali. Sono temi che fanno, tutti insieme, il catalogo del nuovo millennio, come si potrebbe dire con qualche enfasi. Senza impegnare invece un millennio intero, sono sicuramente temi che si agitano nell’opinione pubblica, fra le nuove generazioni, in molti mondi in cui non arrivano più, o arrivano stanche e vuote di significato, le parole della politica.

È un fatto: queste parole provengono da fedi che ancora alimentano moltitudini di uomini, la fede religiosa e la fede tecnologica. Non stanno sullo stesso piano, non hanno lo stesso contenuto, ma sono vissute entrambe come fedi, nel senso almeno che riscuotono fiducia, che si mantiene ancora la loro capacità di parlare del futuro dell’umanità. La fede nella politica e nella storia è invece molto più appannata, e anzi indietreggia sempre più. Cosa può cambiare il corso del mondo? Un tempo si sarebbe messo nel novero delle forze che fanno la storia anche la politica. Oggi, invece, pochi sono disposti a scommettere, o a investire sulla forza dei partiti politici e degli Stati nazionali (o delle comunità di Stati). E cosa può cambiare il cuore dell’uomo? Finite o quasi le grandi divise ideologiche, sembra che non rimanga altro che la fede religiosa in un qualche Dio trascendente.

È notevole peraltro che tanto il Papa di Roma quanto il capo dell’azienda di Cupertino mostrino di voler guardare a un «bene più alto» declinando anzitutto i temi della sostenibilità ambientale. Di nuovo: la conversione «verde» degli stili di vita, dei comportamenti individuali e collettivi, è avvertita come più urgente, e dunque come più vicina alle esigenze degli uomini di oggi, rispetto ai discorsi marcati da un forte contenuto sociale e politico. Il Papa ha pubblicato un’enciclica sull’ambiente che certo non trascura di parlare dell’ingiustizia o della povertà, ma che raggiunge con la forza della novità i fedeli quando parla della cura della casa comune, dell’inquinamento o dello spreco delle risorse ambientali. E Tim Cook, dal canto suo, pur realizzando con la sua azienda enormi profitti, riesce credibile ed entusiasma un pubblico giovanile quando si mostra preoccupato del futuro del pianeta. Come se, di nuovo, riserve di futuro fossero depositate solo nel grembo della Terra. E quindi non nelle città, non nei profani palazzi della politica, ma nei vecchi e nuovi templi della religione e della tecnologia.

Poco più di cent’anni fa, Friedrich Nietzsche scriveva che la fede nella verità, il fuoco accesso da Platone due millenni e mezzo orsono, si era ormai estinto, e che «l’ospite inquietante» dei secoli avvenire sarebbe stato il nichilismo. Questa diagnosi non è affatto estranea al nostro tempo. Se il filosofo diceva che nichilismo significa che manca la risposta al perché, manca il senso, non vuol dire però che non cresca, proprio su questa mancanza di senso, una impellente necessità di credere. Ad alimentarla non è più il progetto dispiegatosi con la modernità – fatto di diritti, libertà, emancipazione, uguaglianza – ma un altro impasto, legato contemporaneamente alla madre natura e a Dio Padre. Quel che una volta c’era di mezzo – il tempo della storia – prosegue con molto affanno, forse in attesa di rimettersi in moto sotto l’urto di altre potenze che solo ora si affacciano, o forse tornano ad affacciarsi, sulla scena del mondo. Ma prima  che questo accada, leader spirituali rimangono il Pontefice della Chiesa di Roma e il leader del marchio più carismatico in circolazione. Si può dire magari, con qualche cinismo che, lo vogliano o no, uno riempie di spiritualità la realtà del capitalismo, l’altra finisce col nascondere sotto lo spirito, un buon numero di affari. Però funzionano, mentre tutto il resto stenta parecchio a funzionare.

(Il Mattino, 11 novembre 2015)

Nel castello ideologico di Tronti non c’è posto per la democrazia

ImmagineUna condanna senza appello nei confronti dell’homo democraticus: l’ultimo libro di Tronti (Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, pp. 316, € 20), costruito come una sorta di confessione intellettuale per frammenti, è un libro duramente polemico:  «nessun intimismo, nessun redire in se ipsum, nessun autobiografismo».

Al suo centro sta la convinzione che oggetto di critica debba essere oggi non il capitalismo, ma «la declinazione borghese della modernità». Se però quella borghese – con i diritti soggettivi, la democrazia rappresentativa, il mito del progresso e tutto il resto – è solo una «declinazione» della modernità, vuol dire che un’altra sua versione dev’essere possibile. Se così non fosse, la critica trontiana potrebbe senz’altro essere ascritta a un pensiero schiettamente reazionario («non mi piace l’età dell’illuminismo, e non vorrei ripeterla»). Che cosa però sarebbe moderno, una volta rimosse l’abusiva occupazione borghese della modernità, è impossibile dire: Tronti non offre alcun indizio. A meno che non si possa dir tale un unico, fugacissimo cenno alla «concrescita», diversa dalla più abusata «decrescita», felice o infelice che sia. Troppo poco, per distinguersi davvero.

Ma il cuore del problema non è qui: di economia, infatti, il libro non parla. Il cuore è nella «servitù volontaria» della maggioranza, farcita di un insopportabile buon senso democratico, che smussa ogni spigolo, scansa ogni contraddizione, evita ogni acredine. Così, la «grande politica» deve fuggire i luoghi in cui è regina l’opinione dei molti – la tv, i giornali, ma anche i parlamenti – per ritrovarsi nell’amicizia «stellare» di pochi spiriti liberi. Cioè nel pensiero, e gran parte del saggio trontiano è infatti dedicata ad abitare una sorta di castello intellettuale tetragono ai tempi moderni, costruito con una scrittura sempre categorica, lapidaria, battente, tra lunghe citazioni e brevi, folgoranti frasi dal sapore quasi aforistico. Dove si incontrano Hölderlin e Nietzsche, Walter Benjamin e Aby Warburg, il pensiero novecentesco della crisi e il profetismo biblico.

Tutti i frammenti raccolti stanno insieme sotto una libertà dello spirito che è opposizione al mondo. E che solo chi ha attraversato il Novecento da comunista può esperire veramente, secondo l’Autore. Che i comunisti siano recentemente costretti al tono apocalittico (Vattimo) o profetico (Tronti) dovrebbe parlare perciò contro il cattivo tempo presente, non contro di loro. Qui sta peraltro il punto di coerenza del libro: il comunismo non è riciclato ipocritamente come la brutta crisalide da cui doveva un giorno finalmente uscire la farfalla del pensiero democratico e progressista.

Cosa però ne viene, da una simile complessione di idee? Ad esempio: che ieri la Rivoluzione d’Ottobre somigliava a una rivoluzione conservatrice e, oggi, Obama rappresenta solo «un passo indietro». Che la civilizzazione borghese è stata «barbarie», e il presente è, oggi, un cupo «universo concentrazionario». Che tra il nobile slancio rivoluzionario russo di ieri e il volgare spirito pratico americano di oggi, «la libertà sta nel primo, non nel secondo».

In tanta radicalità di giudizio è impossibile ogni accomodamento pratico. Pure, Tronti lo trova: «si può fare, opportunamente, oggi, critica della democrazia politica, accettando, difendendo, sviluppando, riformando, i sistemi politici democratici».

Difficile però farsene convinti, entro le coordinate del saggio trontiano. Forse, per vincere, il comunismo avrebbe davvero dovuto produrre un uomo nuovo, come Tronti dice. Ci è riuscita invece la democrazia, la società dell’intrattenimento, il mercato dell’opinione. Ma politica non può essere scegliersi nel pensiero altri uomini rispetto agli uomini che abbiamo. Se non altro perché sono anche gli uomini che noi stessi siamo.

(Il Messaggero, 8 novembre 2015)

Stato-Mafia, Mannino assolto smentito il teorema dei pm

tribunale-3L’assoluzione di Calogero Mannino dall’accusa di violenza o minaccia a corpi dello Stato assesta un duro colpo all’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Il cui filone principale pende ancora a Palermo. Per l’accusa, Mannino era «l’istigatore e ispiratore principale del contatto tra Mori, De Donno, e Cosa nostra perché si riuscisse a evitare in qualche modo che la mafia lo ammazzasse». Questa era, secondo i pm, il fine umano, troppo umano del potente uomo politico democristiano, nell’ambito di un più ampio tentativo, perseguito da uomini dello Stato e da settori delle forze dell’ordine, di raggiungere una sorta di «intesa cordiale» con la mafia. Ma per il giudice le cose non stanno affatto così: Mannino non ha dato alcun impulso scellerato a strategie di appeasement nei confronti dei boss mafiosi.

Normale dialettica giudiziaria? In certo senso sì, se almeno si conviene che è ben possibile che i processi non si concludano immancabilmente con una condanna, e può dunque accadere che un giudice dia sonoramente torto a un pubblico ministero. Ma la rilevanza di questa vicenda – il cui svolgimento ha coinvolto persino un Presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano, la cui testimonianza fu raccolta dai magistrati in trasferta sul colle del Quirinale – merita qualche considerazione ulteriore.

Per il penalista Giovanni Fiandaca, che se ne è occupato a lungo, l’indagine sulla trattativa è una «metafora emblematica di una serie di complesse e, per certi versi patologiche, interazioni fra un certo uso antagonistico della giustizia penale, il sistema politico mediatico e il tentativo di fare maggiore chiarezza, sotto l’aspetto storico-costruttivo su alcuni nodi assai drammatici della nostra storia recente». Lo è, in realtà, da ben prima che arrivasse questa sentenza (o quella che ha mandato assolto il generale Mori per il presunto, mancato arresto di Provenzano). Vi sono infatti insieme tutte e tre le cose che dice Fiandaca, e il guaio sembra essere appunto che quelle cose stanno tutte insieme, con la relativa confusione di piani.

Vi è anzitutto un piano di carattere storico-storiografico. Quelli che scrivono la storia difficile possono trascurare commistioni, condiscendenze, connivenze fra potere politico e potere mafioso. Possono spingersi anche a sostenere che gli stessi equilibri politici nazionali, non solo dunque le vicende siciliane, hanno risentito a lungo di una formula opaca di gestione dei rapporti con i poteri criminali, in specie negli anni del lungo regno della DC nell’isola. Benché poi la lotta alla mafia sia stata condotta con ben altra energia rispetto al passato, sarebbe azzardato sostenere che quei rapporti si siano del tutto interrotti, e che in nessun punto le amministrazioni pubbliche siano oggi premute da condizionamenti di carattere mafioso. È vero purtroppo il contrario. Ma un conto è la verità storica, il dato sociologico, un altro è invece la risultanza giudiziaria, la rilevanza penale. Un piano non può travasarsi disinvoltamente nell’altro, che richiede piuttosto il paziente accertamento di reati specifici in circostanze puntuali, secondo principi, regole e garanzie di civiltà giuridica che non possono essere travolti in nomi di un sapere di carattere storico, o di una denuncia di carattere politico, o di un moto di indignazione morale. Il fatto che per penalizzare la trattativa si dovesse ricorrere (e ancora si proverà a ricorrere) a una desueta figura di reato – quella prevista dall’articolo 338 del codice penale – lascia già intendere quanto azzardata fosse la trasposizione di piani, e debole l’ipotesi accusatoria.

C’è quindi l’aspetto politico-mediatico, come diceva Fiandaca. Una volta che sia in piedi una accusa così pesante, da gettare un velo di sospetto persino sulle più alte cariche dello Stato, è chiaro che diviene politicamente assai scomodo non sposare il partito accusatorio. Diciamo la verità: un professore di diritto penale se lo può permettere, in sede scientifica, molto più di quanto non possa permetterselo un uomo politico, in un pubblico dibattito. Il rischio è finire in odore di mafia, sospettati di qualche contiguità, al primo dubbio di carattere tecnico-giuridico. Come se questa dimensione fosse viziata sempre e comunque di un insopportabile e ipocrita formalismo. Non è ovviamente così, e prima o poi sarebbe importante ricordarsi che nei tribunali non si bada al sodo, non si taglia corto, non si va alla sostanza: si sta piuttosto dentro le regole e ci si attiene a quelle.

Difficile peraltro non osservare che la stessa politica giudiziaria, all’interno degli uffici, risente di un così vasto impegno investigativo su una materia tanto scottante: forse è inevitabile, forse ciò è parte di quel maggiore determinazione nella lotta alla mafia di cui lo Stato ha assoluta necessità, e che ha cercato di mettere dal maxiprocesso in poi. Sta però il fatto che la questione mafia diviene anche, inevitabilmente, una questione di potere persino nelle procure, il che non contribuisce alla migliore organizzazione del servizio giustizia.

Con l’assoluzione di Mannino abbiamo infine un indicatore importante, per collocarci rispetto al senso del processo penale. L’assoluzione significa che lo Stato rinuncia a fare sul serio la lotta alla mafia, oppure che le accuse non devono reggere solo in tv (dove immancabilmente reggono), ma pure innanzi ad un giudice (dove troppo spesso cadono)?

(Il Mattino, 5 novembre 2015)

La lunga ritirata dei partiti politici

vuoto-benzina-spia-della-benzina-all&-39Alle prossime elezioni amministrative mancano ancora diversi mesi. Difficile dire chi vincerà, ma si comincia a profilare fin d’ora una sconfitta netta: quella della politica organizzata. Cioè dei partiti politici, dalle cui file non si riesce a trovare un solo uomo che si faccia avanti con qualche chance di successo. Non solo: quelli che invece si fanno avanti, o si trovano in prima fila, sono uniti da questo tratto caratteristico, che non sono o non amano presentarsi come uomini di partito. Vale a Roma, vale a Milano, vale pure a Napoli. Ancora: sempre più spesso accade in Italia che sia possibile aspirare alle massime cariche dello Stato, o essere considerati papabili per quelle cariche, senza aver compiuto alcun percorso nei meandri difficili della politica organizzata, cioè daccapo dei partiti politici. Non è un fenomeno recentissimo: in effetti la sinistra ha cercato a lungo papi stranieri, e a destra il primo Berlusconi proveniva da tutt’altre esperienze. Anche la riserva di uomini della Banca d’Italia, a cui la politica ha attinto, aveva questo significato. Ma c’è un’indubbia novità (un aggravamento del morbo?) nel fatto che oggi si attinge a ben altri serbatoi: a quelli che la popolarità mediatica è in grado di riempire, molto più che ai vecchi salvadanai delle competenze tecnico-professionali. Ciò dipende anche da quei rumorosi processi di mediatizzazione della politica che hanno la forza di proiettare nuove stelle nel firmamento della sfera pubblica, relegando in un’inutile penombra curriculum e vecchie liturgie della politica organizzata. Cioè, ancora una volta, dei partiti politici.

Di esempi se ne possono fornire a iosa. A Milano, il partito democratico vorrebbe puntare sul commissario dell’Expo Giuseppe Sala, Berlusconi pensa all’ex amministratore delegato di Eni ed Enel, Paolo Scaroni. A Roma, il Pd esce con le ossa rotte dal folle giro di giostra con Ignazio Marino, e non ha uno straccio di candidato. Il centrodestra, invece, offre lestamente i suoi voti al costruttore Alfio Marchini, il quale ringrazia ma fa subito capire di accettare solo i voti, non le etichette di partito. A Napoli, cinque anni di opposizione in consiglio comunale non sono bastati a dare a Gianni Lettieri il profilo di uomo di partito, e lui non ci pensa nemmeno a rinunciare al marchio della società civile. Nel centrosinistra, sembra invece tornare l’ora di Antonio Bassolino. Perfino di lui si può dire ormai che viene da fuori: ha rappresentato per una vita il mondo dei partiti, e torna in auge proprio perché i partiti non sono capaci di selezionare candidati all’altezza. (E già che ci siamo: anche a Salerno il centrodestra va offrendo candidature a imprenditori e magistrati, ricevendo per ora solo dinieghi, mentre il centrosinistra rimane appeso alle parole di Vincenzo De Luca, che faticherebbe pure lui, biografia a parte, a definirsi uomo di partito).

Infine, al di fuori della dialettica fra i due tradizionali schieramenti (che si dicono tradizionali solo per comodità), ci sono i Cinque Stelle, i quali rifiutano per principio di confondersi con i partiti politici. Loro peraltro teorizzano nuove forme di organizzazione, nuovi canali di partecipazione, nuove regole di selezione delle candidature. Tutto, pur di non sembrare un partito. Col risultato che i loro uomini di punta – i Di Maio e i Di Battista, per capirci – si sono visti proiettati ai vertici della scena istituzionale del Paese con la stessa velocità con cui il vincitore di un reality strappa un contratto discografico. Napoli o Roma, le città per i cui consigli comunali avrebbero potuto passare prima di arrivare in Parlamento, sono già molto più indietro del punto al quale sono arrivati. O così essi credono, almeno.

Che dire poi del fatto, segnalato da Sabino Cassese sul Corriere della sera, per cui una condizione generale di anomia, cioè di assenza di regole, o di debolissima effettività di regole ed istituzioni, permette che l’Agenzia delle Entrate si rivolti contro il principio costituzionale dell’accesso all’impiego pubblico tramite concorso, o che una Procura parta lancia in resta contro la Banca d’Italia con grande risalto mediatico e pochissima sostanza giuridica, o che il popolo del web si scateni contro una decisione del Consiglio di Stato, a proposito della trascrizione delle unioni civili, con poca o nulla preoccupazione per il profilo tecnico della sentenza? Siamo un popolo di finissimi giuristi o viviamo piuttosto sotto un costante, asfissiante pressing comunicativo?

In realtà, la prima Repubblica era tenuta unita dal collante dei partiti politici, che integrava lo scarso senso dello Stato, poco diffuso nel Paese, con un robusto cemento ideologico. La seconda Repubblica ha dovuto fare a meno di quel vecchio impasto, ma non riesce a trovarne uno nuovo. Così i migliori candidati continuano ad essere cercati fra magistrati e imprenditori (e un tempo – breve tuffo nel passato – questo connotato «di classe» o «di ceto» non sarebbe passato inosservato), mentre nelle stanze sempre più disadorne dei partiti continua a cucinarsi quel poco che rimane: la politica dell’imbroglio, della raccomandazione, della corruzione piccola o grande. Il punto non è se sia vera o no questa rappresentazione che continua a dominare la scena pubblica, ma se, sotto queste condizioni, dall’anomia si riuscirà mai ad uscire.

(Il Mattino, 2 novembre 2015)