Archivi del mese: gennaio 2016

Gli USA e le primarie dei populisti

2010-06_cartoon.jpgNell’aprile dello scorso anno, quando Hillary Clinton annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, si aprirono i giochi. Letteralmente. La SNAI lanciò le scommesse sulle presidenziali americane: Hillary Clinton stava a 2, Jeb Bush a 5. I favoriti erano loro. Bernie Sanders e Donald Trump non erano nemmeno quotati.

Alla vigilia del voto nello Iowa, con cui il rutilante circo delle primarie comincia a attraversare l’America, la situazione è molto diversa. Sono i due outsiders a tenere il banco nei rispettivi campi. Da una parte il socialista Sanders; dall’altra il miliardario Trump.

Le primarie, in America, sono una roba vera. E soprattutto una storia lunga molti mesi. Non si contano i candidati che, partiti con il vento in poppa, hanno dovuto ben presto ripiegare le ali e uscire di scena.

Evitiamo dunque di fare previsioni sulle sorprese che la politica americana ci riserverà nei prossimi mesi, e limitiamoci a guardare con occhi europei quello che sta accadendo.

Un paio di cose si fanno subito evidenti, nonostante le diversità di sistemi elettorali, politici e istituzionali. I favoriti della vigilia si prestavano ad essere descritti come espressione dell’establishment. Di più: una è moglie di un ex Presidente, l’altro è figlio e fratello di ex Presidenti, Hillary Clinton e Jeb Bush sono i rappresentanti delle due principali «case regnanti» degli ultimi trent’anni. L’una e l’altro possono inoltre contare sul sostegno delle rispettive macchine di partito.

I candidati che rubano loro la scena si lasciano invece rappresentare come candidati «radicali», «estremisti», «populisti». Il significato delle parole è abbastanza fluido perché un termine slitti sull’altro e mantenga contorni piuttosto vaghi. Populismo, in particolare, è una sorta di parola-baule, dentro cui ci finisce un po’ di tutto: e dunque sia le piazzate di Trump contro gli immigrati, sia le intemerate di Sanders contro i ricchi vengono catalogate sotto la voce populismo. Ma un filo comune denominatore c’è: è l’avversione contro quelli di Washington. Noi diremmo: contro il Palazzo, poco importa se a tuonare contro il Palazzo sia un miliardario che i palazzi li costruisce, oppure un politico navigato, con alle spalle una trentina d’anni di incarichi istituzionali.

Il fatto però che entrambi, almeno a giudicare dai sondaggi, abbiano fatto breccia nell’opinione pubblica indica chiaramente che l’affanno delle tradizioni politiche nazionali – la consunzione, quasi, del lessico politico-intellettuale del Novecento – non è un problema solo europeo. Qualche segnale, in fondo, era già venuto nel 2008, quando Barack Obama, primo afroamericano, sbaragliò il campo da outsiders, i favori del pronostico essendo anche quella volta di Hillary. Nell’altra metà del campo i repubblicani puntarono invece su un uomo di apparato, Mitt Romney, che evidentemente non suscitava gli entusiasmi di un elettorato già radicalizzatosi. E persero.

L’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente – ecco un punto di differenza  – in America si riversa però dentro i partiti, mentre da noi – come in Grecia, o in Spagna – sceglie altre vie. Se l’ex sindaco di New York, Bloomberg, dovesse davvero candidarsi da indipendente, preoccupato dalle figure estreme che tengono il campo, il rovesciamento sarebbe completo: in Europa nascono nuove formazioni politiche anti-sistema; in America, sarebbe invece la risposta di sistema a doversi inventare una strada nuova.

Il confronto con l’America è però istruttivo per un’altra ragione. Gli Stati Uniti sono un Paese in salute. Obama lascia un’economia in crescita. Qualche mese fa, l’economista James Galbraith spiegava il successo di Syriza o di Podemos, con le politiche di austerità adottate dall’Unione europea in piena recessione. Al contrario, aggiungeva, Obama ha praticato una strategia keynesiana, con imponenti iniezioni di denaro pubblico e programmi di sviluppo da miliardi di dollari. Ora, la spiegazione di Galbraith può darsi funzioni in economia, ma evidentemente non funziona in politica, visto che nonostante i successi della politica economica obamiana, democratici e repubblicani faticano ad esprimere candidati in linea con le tradizioni più moderate e centriste dei rispettivi partiti. L’elettorato sembra chiedere segnali di discontinuità, e persino gesti di rottura. Li chiede in America non meno che in Europa: il che vuol dire che ce la possiamo prendere con l’euro, con la crisi o con la Merkel finché vogliamo, ma un malessere più profondo sta forse cominciando a manifestarsi. Se così fosse, vorrebbe dire che in gioco non è solo il futuro di tradizioni e ceti politici, ma il destino stesso della democrazia.

(Il Mattino, 30 gennaio 2016)

Il partito con le lenti bifocali

Acquisizione a schermo intero 22012016 140852.bmpOcchiali bifocali per le primarie napoletane del Pd. Per presbiti e per miopi: per chi vede da lontano (o vede lontano), e chi vede da vicino (o ha la vista corta).

In città, il partito democratico cerca di trovare la quadratura del cerchio intorno a Riccardo Monti; a Roma, si valuta l’ipotesi di puntare su Valeria Valente.

Le logiche con cui vengono individuati i due nomi non sono le stesse, così come sono diversi i profili dei due potenziali candidati in lizza. Riccardo Monti è è Presidente dell’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e viene dal mondo privato delle professioni. È un tecnico, giovane e preparato, con una vasta esperienza professionale e un curriculum di tutto rispetto. Ed è fuori dagli schieramenti correntizi che non riescono a trovare la composizione sul nome di un politico, legato al partito. Perché questo è il punto. La debolezza del Pd, i veti incrociati, la latitanza dei dirigenti locali portano all’amara constatazione che qualunque altro nome dividerebbe il partito.

Con argomenti del tutto analoghi si scelse cinque anni fa di puntare sul prefetto Morcone. Al suo nome si arrivò dopo il disastro delle primarie, e l’impossibilità di recuperare un simulacro di unità intorno a esponenti politici locali. Morcone significava serietà, efficienza, senso delle istituzioni. De Magistris vinse le elezioni.

Valeria Valente è invece donna, è anche lei giovane, ma ha alle spalle una lunga militanza nelle file del movimento studentesco prima, della sinistra partenopea poi. Ha esperienza amministrativa, avendo ricoperto l’incarico di assessore  nella giunta Iervolino, ed è coordinatrice regionale dei giovani turchi, l’area politica del presidente del Pd, Matteo Orfini. Ha infine un legame antico con Antonio Bassolino, lo spauracchio di questo ennesimo giorno di passione delle primarie napoletane.

E questo è il punto. Bassolino ha annunciato la sua candidatura constatando l’assenza di una classe dirigente locale. Ha più volte ripetuto che se il Pd fosse stato in grado di esprimere una nuova leadership, avrebbe volentieri continuato a fare il nonno. Un argomento che avrebbe difficoltà a riprendere, qualora fosse davvero la Valente il nome su cui punta il Pd. Perché, oltre a marcare una netta discontinuità generazionale, si dà il caso che Valeria Valente abbia mosso i primi passi in politica proprio sotto l’ala di Bassolino. Sarebbe dunque naturale che, di fronte alla scelta del Pd di scommettere su un nome a lui storicamente vicino, compagna di stanza nella Fondazione Sudd che presiede, Bassolino mettesse da parte le ambizioni personali e desse anzi una mano nella partita più importante, quella che si giocherà per Palazzo San Giacomo.

Difficile, però, fare previsioni. Altri fattori intervengono nella partita. La debolezza politica del Pd parla a favore di Monti. A Napoli non c’è nessuno capace di fare la sintesi, come si diceva una volta. Il nome di Valeria Valente non passa nelle componenti più centriste del Pd. Che continuano a esercitare un ruolo di interdizione, riproducendo un gioco a somma zero che confidano di spezzare solo ricorrendo al papa straniero. Il pregio di Monti – lo standing internazionale, il tratto manageriale ed efficientista – è in realtà lo specchio rovesciato del partito democratico napoletano. Come nel Dorian Gray di Oscar Wilde: il partito invecchia e incartapecorisce in soffitta, vergognoso di sé e dei propri limiti, e mette davanti e manda in giro per la città il volto nuovo e brillante di un uomo di successo, chiamato a rappresentare il cambiamento.

A ciò si aggiunga che a Palazzo Santa Lucia siede un governatore che di un sindaco piddino non sente affatto il bisogno, tanto più se proviene dal mondo bassoliniano, verso il quale ha più di una ruggine. De Luca è abituato a non avere intralci politici tra i piedi; sceglie assessori tecnici per essere l’unico in grado di capitalizzare politicamente l’operato dell’Amministrazione; non ha nessuna ragione per preferire un candidato che avrebbe dalla sua anche la forza di un imprimatur romano.

Ma Roma rilutta. Orfini preme per la soluzione Valente, la più chiara politicamente. Del resto, a Roma il Pd sta convergendo sul nome di Giachetti: anche lì, un politico. Lo schema sarebbe dunque questo: i renziani esprimono il candidato sindaco a Roma, l’altro pezzo – più di sinistra – della maggioranza mette il candidato a Napoli. Dove tra l’altro c’è bisogno di togliere voti di sinistra a De Magistris e ai Cinquestelle. E dove, soprattutto, si può così sperare in un ripensamento di Bassolino.

Non ci vuol molto: è probabile che sapremo domani, nella direzione nazionale del Pd, quali lenti il Pd si metterà sul naso, e il nodo verrà infine sciolto.

(Il Mattino – ed. Napoli, 22 gennaio 2016)

Il potere e l’assedio allo Stato democratico

Acquisizione a schermo intero 22012016 140703.bmpMentre i tacchini del Senato approvano il pranzo di Natale, cioè la fine del bicameralismo, nella piccola sede della Fondazione Basso, a Roma, due filosofi italiani, Biagio De Giovanni e Giacomo Marramao, discutono sul far della sera del potere, dello Stato, dell’Unione. Muovendo dai classici, da Machiavelli Schmitt e Foucault, ma approdando ai giorni nostri, e a un processo di integrazione andato, come dice De Giovanni, «completamente in tilt».

C’è un qualche nesso fra il percorso parlamentare delle riforme costituzionali e la scuola di politica della Fondazione, giunta alla X edizione?

Nessuno, nel senso che non si è discusso di ingegneria costituzionale, equilibri fra i poteri dello Stato o legge elettorale. Ma più d’uno, se si guarda al modo in cui Renzi ha investito politicamente sulle riforme, e sul successo del referendum che si terrà in autunno. Se non passano, lui se ne va. Ma, al netto del destino personale del premier, si potrebbe tradurre così: se la politica non è più in grado di aprire uno spazio nuovo, di agire poteri di carattere costituente, o semi-costituente, allora non ha più ragione d’essere. Poteri di altra natura ne prenderanno, se non ne hanno già preso, il posto.

La politica è infatti, secondo la lezione di Machiavelli illustrata da Marramao, la dimensione del potere: se  non c’è l’una non c’è nemmeno l’altra. Dopodiché è vero che la forma di organizzazione del potere politico inventato dalla modernità, cioè lo Stato, non gode di buona salute.

Marramao ha cominciato con l’esporre tre tesi sulla debolezza dello Stato moderno, che vanno per la maggiore. La prima insiste sul carattere di formazione storicamente determinata dello Stato. Lo Stato deteneva il monopolio della violenza legittima, e delle fonti del diritto: ha sicuramente perduto quest’ultimo, non è più sicuro che abbiaalmeno il primo. La seconda tesi proviene dalla sociologia dei sistemi: le società contemporanee sono società complesse, senza vertice e senza centro, non più riconducibili alla logica moderna della sovranità. Il potere non si concentra più in un luogo sovrano, ma si diffonde e circola nei sotto-sistemi in cui la società si organizza. La microfisica del potere di Foucault direbbe, con altre parole, una cosa non molto dissimile.

La terza tesi, infine, dichiara lo Stato non più adeguato alle dinamiche della globalizzazione. Lo spazio globale contraddice la territorialità chiusa delle formazioni statual-nazionali. E questa volta il riferimento è al pensiero di Carl Schmitt.

Qui però sta il cruccio, il vero e proprio rovello di De Giovanni: se prendiamo per buone le tre tesi e diamo per finita la storia della sovranità, così come si è organizzata nella forma moderna dello Stato, non dobbiamo porre immediatamente il problema della democrazia? «Dallo svincolarsi di Stato e ordinamento dei poteri il problema della democrazia viene toccato nel suo cuore più profondo». E la ragione é semplice: è nello Stato e con i mezzi dello Stato che si sono costruiti i regimi politici democratici. Che cosa sia una democrazia post-statuale e post-sovrana nessuno lo sa.

Perciò De Giovanni si sforza di non prenderle affatto per buone, le tesi anti-sovraniste esposte da Marramao. Il confronto più duro è con Schmitt e Foucault. Che oggi dilagano un po’ ovunque. Il primo con la storia dello stato di eccezione: sovrano è, infatti, chi decide su di esso. Basta allora che si parli di sospensione del trattatodi Schengen sulla libera circolazione delle persone perché Agamben salti su a dire che ha ragione lui, che va dicendo da tempo che ormai l’eccezione è la regolae che ogni diritto è sospeso. Il fondamento del rapporto agambeniano fra potere sovrano e nuda vita è, peraltro,nella teoria del potere di Schmitt. Replica De Giovanni: «forzature concettuali che non portano da nessuna parte. C’è sicuramente una dialettica tesa fra sicurezza e libertà, ma appunto una dialettica». Altrimenti, fra le condizioni giuridiche assicurate da una liberal-democrazia, per quanto imperfetta, e i campi di concentramento del Reich salta ogni differenza.

Ma è nel confronto con Foucault che il pensiero di De Giovanni si precisa meglio. Foucault non è solo il pensatore che scopre i micro-poteri diffusi che informano le relazioni reali tra le persone, ma è anche quello che denuncia il carattere occultante – una volta si sarebbe detto ideologico, sovrastrutturale  – della sovranità. La sovranità occulta la verità del potere. Crea un feticcio che copre la realtà dei poteri reali che si iscrivono direttamente sui corpi delle persone (vedi alla voce: biopolitica).

Quali, però, le conseguenze di questa anatomia del potere? La scomparsa pura e semplice del tema della democrazia politica.

Si potrebbe aggiungere: vale per Foucault, ma vale per larga parte del pensiero radicale contemporaneo, che trova ormai solo di impaccio il dovere di dichiararsi democratici. Con la scusa della democrazia, si vuole dire, ci costringono a mandar giù di tutto.

Sta qui una linea precisa di demarcazione: tra chi, sulla scorta di Nietzsche, giudica lo Stato sovrano il più gelido dei mostri, e festeggia la sua fine, e chi invece ne considera la crisi con preoccupazione. De Giovanni si mette fra questi ultimi.

E anzi della sovranità fa l’elogio, non perché guardi alla sua figura nichilistica, legata alla sua stagione primo-novecentesca (il riferimento è ancora a Schmitt, ma pure all’integrale positivizzazione del diritto di Hans Kelsen, altra faccia della stessa medaglia), ma perché ne apprezza l’opera di mediazione, l’apertura, nel suo seno, di uno spazio costituzionale di diritti.

A Marramao che gli chiede se gli Stati nazionali sovrani non siano inadeguati, dinanzi allegrandi questioni globali del nostro tempo, in un’epoca in cui l’ordine del mondo si regge su grandi Stati continentali o sub-continentali, mentre l’Europa arranca e rischia anzi di indietreggiare – De Giovanni replica in termini problematici: «Le costituzioni nazionali stabilivano un rapporto stretto fra demos e cittadinanza. Il costituzionalismo multilivello europeo contiene solo la dimensione  della cittadinanza». È evidente che non basta. E però un popolo non lo si inventa. Come si viene fuori, allora, da questo impasse? Come reagirà l’Unione Europea all’«indurimento della globalizzazione» – che poi significa la fine dell’illusione che, fatta l’unione monetaria, il resto sarebbe venuto da sé? Sono domande aperte. Ma è già tanto che vengano poste, e non si festeggi l’incapacità di esprimere un’unità politica come l’alba della liberazione, quando rischia di essere al contrario l’inizio di un’epoca confusa, aspra, turbolenta.

(Il Mattino, 22 gennaio 2016)

L’insostenibile leggerezza del Direttorio

Comizio di M5S al Parco delle CaveA reti unificate no, perché la Rete è una, ma a Direttorio quasi unificato, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Luigi Fico prendono la parola per dire che no, loro non sapevano nulla. Ma nulla nullanulla. Che cosa avrebbero dovuto sapere? Che il sindaco di Quarto, Rosa Capuozzo, era stata fatto oggetto di minacce da parte del più votato consigliere quartese del Movimento, Giovanni De Robbio, oggi nel mirino della Procura perché considerato terminale di clan camorristici. De Robbio è stato prontissimamente espulso, già a metà dicembre, eproprio questo dimostra – a detta del Movimento – che la risposta dell’Amministrazione grillina ai tentativi di infiltrazione camorristica è stata netta e ferma. Alla Capuozzo, d’altronde, non si rimprovera nulla, salvo il fatto che dovrebbe dimettersi. Siccome non lo fa, viene espulsa (e se i consiglieri non si dimettono saranno espulsi anche loro, par di capire). Cade dunque Di Robbio; cade il sindaco; cadono o cadranno i consiglieri. Ma Di Maio, Di Battista e Fico no: loro rimangono seduti, con stile disinvoltamente informale, su una qualche scrivania di Montecitorio da cui tutto spiegano e ogni accusa respingono. In diretta e in stile selfie collettivo, l’uno serio e impettito (Di Maio); l’altro spedito e irruente (Di Battista); l’ultimo quasi tenero e un po’ arruffato (Fico), ma tutti e tre ripetono la stessa cosa: non sapevano nulla.

Bene: ma allora, di grazia, cosa ci stanno a fare? Per quale motivo consiglieri e sindaco di Quarto cercavano Fico e Di Maio, se, conclusa l’affannosa ricerca, non li mettevano a parte di nulla? E per quale altro motivo il sindaco a una consigliera fa sapere che quello, De Robbio, «ricatta, ricatta, ma non ottiene niente», mentre ai capi del Direttorio rappresenta educatamente normali divergenze politiche? Roberto Fico sventolava iericon assoluto candore il messaggio con cui, su Whatsapp, rispose al capogruppo Nicolais (che chiedeva chiarimenti dopo l’espulsione di De Robbio), presentandolo come la prova provata che lui non sapeva assolutamente nulla. La sua risposta fu infatti un veloce sms a una persona che peraltro non conosceva neppure, e a cui dunque diceva di «andare avanti» ignorando completamente i fatti. Promettendo, certo, di interessarsene «appena possibile», ma evidentemente disinteressandone del tutto. Ebbene, se questa è la linea difensiva, allora è anche, lo voglia o no Fico, la dimissione da qualunque ruolo «direttoriale». Che lo si nomina a fare, un direttorio, con compiti evidentemente di guida, di direzione del movimento, se quando scoppia una grana simile nessuno si preoccupa di informarlo, codesto direttorio e i suoi inflessibili membri, o se, quando qualcosa arriva all’orecchio, loro se lo tappano, oppure si voltano dall’altra parte, oppure fanno finta di seguire la vicenda ma in realtà non la conoscono per nulla?

Bisognerebbe ristabilire le proporzioni. Il caso di Quarto – hanno ragione i Cinque stelle – non è minimamente paragonabile a vicende come quella di Mafia Capitale. È assolutamente vero che gli altri partiti hanno molte più rogne, da queste parti e in giro per l’Italia. Ma sono i Cinque stelle che hanno fissato l’asticella che ora rischiano di non riuscire a saltare. Sono loro che hanno preteso di fare pulizia non solo di ladri e delinquenti, ma pure di ombre, sospetti e maldicenze. Che però qualcosa non funziona è evidente,non solo perché continuano a fioccare le espulsioni, ma perché fioccano in maniera quasi surreale: quello che è in odore di camorra (De Robbio) viene espulso per dissensi sulla linea politica, mentre quella che ha resistito alla pressione camorristica (Capuozzo) viene espulsa per violazione delle regole del Movimento. Sembra il mondo rovesciato.

E sembra anche che, come al solito quando le cose accadono a insaputa di qualcuno, quello – o quelli – che non le sanno, non ci fanno una figura brillantissima. Perché delle due l’una: se i Di Maio e i Fico e i Di Battista sapevano, allora vale per loro quello che vale per la Capuozzo e dovrebbero lasciare l’incarico; se invece non sapevano, allora non si capisce quell’incarico cosa lo tengono a fare.

Come invece sarebbe stato tutto più lineare se i nuovi leader non si fossero preclusi o non fingessero di considerare indegna una gestione politica della vicenda, affrontandola nella sua vera sostanza! Bastava rivendicare con forza la capacità di resistere alle pressioni criminali, mostrando autentica solidarietà alla Capuozzo, e ammettendo l’unica cosa che c’era da ammettere: che la Rete da una parte e i certificati di buona condotta dall’altra non sono la leva miracolosa che consente di cambiare con un clic la classe dirigente. Perché la responsabilità politica è una cosa seria, a volte persino tragica, non surrogabile con le regolette del blog di Grillo. La sindaco Capuozzo è persona onesta e capace: sì o no? C’è qualcuno che sa dirlo, essendo poi conseguente con questo giudizio? Oppure si preferisce far valere la logica del capro espiatorio, per salvare la purezza del movimento? Possibile che, espellendola, questa domanda finisca col diventare, per i grillini, irrilevante? Di Battista spiega sulla sua pagina Facebook che i voti presi da De Robbio non hanno deciso il successo elettorale. Di nuovo, allora: perché andare a nuove elezioni? Se quel voto è pulito, va rispettato, e bisogna avere il coraggio politico di intestarselo, garantendo per esso, invece di buttare tutto a mare lavando via sospetti che loro stessi non fanno che alimentare, ignorando o fingendo di ignorare. Ma se uno nasce Robespierre, c’è poco da fare: certo non morirà mai Talleyrand, ma neppure gli riuscirà mai di sfuggire alla logica implacabile dell’epurazione.

(Il Mattino, 13 gennaio 2016)

L’epurazione salva il marchio ma l’utopia grillina finisce qui

immagine 11 gennaio

Ora anche Beppe Grillo chiede le dimissioni del sindaco di Quarto. Le chiede da casa sua, per iscritto, tramite comunicato apparso sul blog, a nome di tutto il Movimento Cinque Stelle che evidentemente ammonta ancora solo a lui stesso e a Casaleggio, mentre a Quarto i militanti grillini sostengono il sindaco Capuozzo e chiedono a Roberto Fico e Luigi Di Maio di sfilare a sostegno dell’Amministrazione. Più che sfilare, i due dirigenti (a quanto pare, anche i Cinquestelle hanno scoperto di avere dei dirigenti) si rivelano piuttosto usi obbedir tacendo, visto che da giorni scansano microfoni e telecamere, pur di non prendere posizione sulla spinosissima vicenda. Sempre molto loquaci sulle disgrazie altrui, si rivelano oggi straordinariamente parchi di parole su quelle di casa propria.

La motivazione con cui Grillo silura Rosa Capuozzo è semplice: dobbiamo dare l’esempio. Dobbiamo dimostrare di essere «sempre, senza eccezione alcuna, al di sopra di ogni sospetto». Per quanto dunque il consigliere indagato, De Robbio, sia stato già espulso dal Movimento, per quanto Rosa Capuozzo, il sindaco, non si sia piegata alle «pressioni politiche» del consigliere, occorre essere esemplari, scrive Grillo sul suo blog, e il solo sospetto che fossero inquinati alcuni voti, serviti per eleggere la nuova amministrazione a Cinque Stelle, deve portare alle dimissioni del sindaco e a nuove elezioni.

Di questi argomenti consta la linea dettata di suo pugno da Grillo;  delle stesse ragioni è fatta la linea difensiva della Capuozzo, salvo il particolare che non intende affatto dimettersi. Ma gli argomenti sono i medesimi: il consigliere è stato espulso, le pressioni politiche rispedite al mittente, ci hanno provato ma sono stati respinti, dunque niente infiltrazioni camorristiche e niente dimissioni. Ora che Grillo ha parlato, le toccherà fare in tutta fretta nuove valutazioni, come ha subito aggiunto, ma resta la curiosa circostanza per cui con i medesimi argomenti si possono chiedere le dimissioni o rifiutarsi di rassegnarle.

Il fatto è che non di mere circostanze si tratta ma di problemi politici che sia Beppe Grillo, nel suo benservito telematico, che Rosa Capuozzo nella sua surreale autointervista, evitano prudentemente di affrontare.

Può darsi che alla fine il sindaco di Quarto si dimetterà, ma dopo che avrà date le dimissioni rimarrà tale e quale la questione del modo in cui è arrivata sulla poltrona di primo cittadino. Del modo in cui cioè il Movimento Cinque Stelle seleziona i suoi candidati.

L’utopia grillina è intrisa di anima ed esattezza. L’anima è l’onestà, l’incorruttibilità, la differenza morale da «tutti gli altri»; l’esattezza è il web, la democrazia diretta, le primarie online. Il fatto è che la prima non è evidentemente garantita dai certificati antimafia e dalle fedine penali pulite, come purtroppo un gran numero di casi dimostra, e la seconda si limita a mettere insieme pochi numeri di simpatizzanti, ma è perfettamente scalabile da chi ha un minimo di organizzazione (figuriamoci dalla criminalità organizzata).

Certo, Quarto è particolarmente esposta a quel genere di infiltrazioni che ora il movimento sostiene di conoscere e di saper respingere, ma la fragilità della formula adoperata risalta sempre di più. La capacità di interpretare e rappresentare quel che si muove in un dato territorio, di legare gli interessi reali che si formano in una comunità a progetti ideali che sostengono l’identità di una forza politica non sono surrogabili con i video di autopresentazione delle candidature, i rapporti virtuali della rete e il principio dell’«uno vale uno». In fondo Grillo stesso lo sa, tant’è vero che quando serve interviene, e di solito non ammette repliche. Ma è costretto a intervenire dopo: a ritirare simbolo, chiedere dimissioni e comminare espulsioni. Tutte cose, però, che può fare dopo; nulla invece che serve per agire prima, nel retroterra sociale in cui una forza politica dovrebbe invece crescere.

Ma il nome stesso del Movimento tradisce lo spirito iniziale. Funziona grosso modo come per le guide turistiche, dove c’è qualcuno che va sul luogo e mette o toglie stelle a seconda del possesso di determinati requisiti. A parte la dubbia democraticità del processo (un problema che le guide di vini o di ristoranti non hanno), questo metodo non garantisce affatto il luogo, cerca casomai di tutelare il buon nome del marchio. Ed è in quest’ottica che ora Grillo chiede le dimissioni. Certo, ci vuole un attimo, ma un attimo è appunto il tempo che ci è voluto ad apporre il bollino.  Tutto il resto del tempo che ci è voluto, se c’è n’è voluto, per costruire il meetup quartese non riguarda Grillo e il simbolo (e a quanto pare neppure Di Maio o Roberto Fico, da qualche giorno). Ritirato il bollino di qualità – dimesso il sindaco – tutto, a Quarto, rimane come prima. Se questo è vero, l’utopia grillina finisce qua, e una storia diversa dovrà prima o poi cominciare.

(Il Mattino, 11 gennaio 2016)

La sfida dei leader sul ring del campanile

immagine 9 gennaio

Quel che succede a Quarto calamita in queste ore l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale. Nel merito, la vicenda dell’infiltrazione camorristica nel voto che ha portato alla guida dell’Amministrazione un primo cittadino a Cinque Stelle, Rosa Capuozzo, è tutta da valutare. Il sindaco ha scritto che «ci hanno provato», ma, ha aggiunto, «sono stati respinti». Su questo giornale, Isaia Sales ha spiegato bene che cosa significhi amministrare Quarto, e quanto sia difficile tenere davvero le porte chiuse alle mafie.

Ma la polemica infiamma ugualmente. In particolare, sono i massimi dirigenti del partito democratico a scendere in campo, dal presidente, Matteo Orfini, in giù, fino ai militanti piddini che in consiglio comunale urlano «onestà!», e chiedono lo scioglimento del comune. Il motivo è, ovviamente, che il tratto distintivo – ferocemente distintivo – della polemica grillina nei confronti della classe politica che ha governato l’Italia in questi anni non è l’incompetenza, oppure l’ingiustizia o, che so, la mentalità reazionaria. Non è nulla del genere: il primo motivo di critica è, piuttosto, la disonestà. L’unica cosa che i grillini non possono dunque permettersi è di attenuare la linea di separazione che pretendono sussista infrangibile fra “loro” e “tutti gli altri”. In maniera del tutto speculare, il caso di Quarto viene perciò adoperato dagli avversari politici per dimostrare che la presunta purezza del personale politico grillino è, appunto, solo presunta.

È chiaro che una mela marcia non vale quanto un intero frutteto, ed è così che sembrano metterla gli esponenti più in vista del movimento, via via che si fanno consapevoli che non possono non prendere la parola, sul caso. Lo ha fatto dunque Roberto Fico, il Presidente della Vigilanza Rai, e lo ha fatto, soprattutto, lo stesso Beppe Grillo.

In ogni caso, se la vicenda di Quarto prende un simile spicco, se fioccano le dichiarazioni e si arroventa il clima, è evidente almeno una cosa: che le prossime elezioni amministrative non potranno essere facilmente derubricate a faccenda locale. A Quarto come altrove. Anche Renzi deve farsene convinto: è difficile, infatti, sostenere che le deludenti prove amministrative dei grillini, su cui i dirigenti del Pd si avventano quasi con golosità per avere la riprova dell’impreparazione dei pentastellati, è difficile sostenere che tali prove portano con sé un giudizio complessivo sul Movimento, e poi negare che il voto abbia un significato politico più generale: vuoi perché si vota nelle più importanti città del Paese, vuoi perché a votare saranno milioni di italiani, e dunque si tratta di molto più di un test.

Si tratta invece di un giudizio sull’alternativa che gli italiani vedono sempre più nettamente disegnarsi fra le due principali proposte politiche in campo (che non a caso più aspramente polemizzano): Pd e M5S, europeismo o populismo. Una volta sarebbe forse bastato dire: maggioranza e opposizione, oppure centrosinistra e centrodestra. Ma il centrodestra non ha più – o ancora – un profilo definito è una formazione chiara, mentre i Cinquestelle, dati in crescita dai sondaggi, si collocano da tutt’altra parte.  Presentano se stessi come un’alternativa ben più radicale, come un’alternativa di sistema, nutrita dell’ambizione di mutare la forma stessa della democrazia, e della sfrontatezza di farlo con un personale politico di nuovissimo conio, reclutato per giunta per vie nuove e mai esplorate prima (il web). Un salto troppo grande, e al buio, oppure la sterzata necessaria, che neppure Renzi ha saputo imprimere al Paese? Come che sia, il Pd non può non scommettere sulla propria azione di governo, esaltando i segnali positivi che cominciano ad arrivare, i Cinquestelle sull’insoddisfazione degli italiani, minimizzando o negando che segnali positivi ve ne siano. Le urne della primavera prossima contengono questa scommessa.

C’è, infine, il tallone d’Achille del personale politico locale. Il Pd non si lascia scappare l’occasione di dimostrare che meetup, curriculum inviati via mail, primarie in rete e altre invenzioni grilline non garantiscono affatto che gli eletti siano al riparo da condizionamenti, collusioni e connivenze. D’altra parte, non si può dire che la rottamazione che ha portato Renzi su su, fino a Palazzo Chigi, sia poi discesa per li rami, e abbia davvero mutato la forma del partito. Cosa c’è dopo i commissariamenti che sono stati finora la risposta d’emergenza dei democratici nei casi più spinosi? Nessuno lo sa. E il Pd somiglia sempre più spesso a una somma di pezzi distinti e staccati, più o meno infeudati a notabili locali, con scarsissima capacità di selezione della classe dirigente sulla base di distinte opzioni politico-programmatiche. Le poche decine di voti che gli eletti grillini raggranellano nelle competizioni in Rete, per meritarsi candidature ed elezioni, senza ulteriori filtri organizzativi, appaiono davvero poca cosa, sia dal punto di vista democratico che da quello della «scalabilità»: come possono negarlo gli stessi Di Maio e compagnia, se ne hanno espulsi a decine e decine dal Parlamento, una volta eletti? Ma anche la tenuta della forma organizzativa del Pd è in dubbio, visto che le primarie, che dovevano essere il mito fondativo del partito, sono guardate con sempre maggiore diffidenza dagli stessi democrats. Anche su questo piano, dunque, le  elezioni amministrative saranno qualcosa di più di una scelta fra candidati sindaci, e forse cominceranno a dire di quali partiti l’Italia avrà in futuro bisogno.

(Il Mattino, 9 gennaio 2016)

De Magistris, il futuro di Napoli e la rivoluzione dei fratelli

de-magistrisDe Magistris non fa passi indietro: c’era da aspettarselo. D’altronde, l’appuntamento elettorale è ormai alle porte ed il dado è già stato tratto. Così, nell’intervista data ieri a Repubblica, il sindaco che si vanta di aver derenzizzatala città «offre» al premier la sua ultima chance: «Se il Presidente del Consiglio mi dovesse chiamare e dire “facciamo un incontro su Bagnoli con il governatore De Luca, e vediamo il vostro piano” – dice De Magistris- l’organizzerei subito». Si tratta, evidentemente, di una provocazione, poiché, oltre alla pretesa, poco istituzionale, che sia un capo del governo a chiamare un sindaco, c’è una condizione che da sola vanifica l’offerta: il premier dovrebbe cancellare decreto su Bagnoli e commissario, e ripartire dal piano del Comune.  A dare un senso ancora più esplicito a queste pseudo-concessioni, De Magistris aggiunge di avere avuto con Renzi un eccesso di atteggiamento non negativo, e dichiara di essere, e di essere stato, sin troppo istituzionale nei suoi rapporti con gli altri livelli di governo. Aggiunge pure che, però, lui in realtà si sente «molto più rivoluzionario che istituzionale», adottando così per sé la definizione del partito che per settant’anni ha ininterrottamente governato il Messico (a proposito di occupazione): il partito istituzionale rivoluzionario, appunto.Ma è nella rivendicazione del ruolo del fratello Claudio che il senso di De Magistris per le istituzioni si precisa meglio – ed è una precisazione di sapore non già liberale, ma centroamericano. Claudio ha lavorato per cinque anni a titolo gratuito, e si capisce che il sindaco è rammaricato per quella che gli deve sembrare un’ingiustizia somma. Per questo, lascia intendere che nessuna decisione è presa, ma non è affatto escluso che il suo amato fratello esca da dietro le  quinte, dove si è tenuto finora, per assumere un peso politico di primo piano, magari passando prima per la candidatura in consiglio comunale. Un De Magistris in cima alla lista, come candidato sindaco, e un altro subito dietro, di rincalzo, a tenere ordinate e in fila le truppe (e a legittimare, in un futuro forse non lontano, un’ipotesi di successione). L’idea che i rapporti di fiducia debbano essere modellati su, o fortificati da, i legami familiari, risale a prima di John Locke, il campione del liberalismo moderno, che duellava con un tale John Filmer proprio per affrancare la sfera dei rapporti politici e statali dal modello autoritario, di tipo patriarcal-familiare. Le istituzioni (moderne) ci sono per quello, come una dimensione terza rispetto ai legami diretti, di sangue o di clan, e l’opera della politica consiste proprio nella costruzione di questa dimensione. Ma De Magistris ha altra preoccupazione: fare le liste, e chi meglio di Claudio-Raul De Magistris può garantire la purezza rivoluzionariadei candidati delle liste civiche a sostegno di Giggino-Fidel?

L’ultima battuta dell’intervista dice però anche un’altra cosa: se si votasse oggi, De Magistris sarebbe pronto, centrodestra e centrosinistra no. Al di là dell’adeguatezza o meno dei nomi che sono in campo – Lettieri da un lato, Bassolino dall’altro, in attesa di capire se ve ne saranno altri, e chi eventualmente saranno –entrambi gli schieramenti sembrano lontani da un progetto chiaro, definito e per dir così esigibile di città. Il Pd, in particolare, ha le maggiori responsabilità: perché tiene il governo nazionale e regionale, perché il populismo di De Magistris pesca soprattutto a sinistra, e perché è dai suoi disastri passati che viene l’esplosione del bubbone arancione.

Il Sindaco di Napoli ha, dal suo punto di vista, trovato il modo per sollevarsi da molte responsabilità amministrative, facendosi contare come «uno del popolo»: arretratezza e sgangheratezza della città non possono essere imputate a lui, o alla sua famiglia, ma a chi fa soffrire il popolo: cioè i poteri forti, gli interessi costituiti da una parte, il governo nazionale dall’altro. Lo schema può funzionare, se gli altri partiti politici, che non hanno in città nemmeno la metà della popolarità del Sindaco, si limitano a denunciare sbreghi e rodomontate del Sindaco, senza riuscire a inventare nulla di nuovo. Vale anche per Bassolino, il qualesa bene di non poter fondare la sua campagna elettorale solosu idee di rivincita, o di ritorno al passato. Se non si riuscirà a dimostrare che c’è un futuro per Napoli dentro il futuro dell’Italia, e non fuori, o contro, prevarrà la linea del conflitto, e l’interprete che riesce a incarnarla nel migliore dei modi, ventilando persino la possibilità di compiere prima o poi un passo dentro le istituzioni nazionali, senza però rinunciare all’altro passo, confusamente rivoluzionarioa fianco del popolo, è ancora Luigi De Magistris.

(Il Mattino, 7 gennaio 2016)

Cucchi, una storia iniziata e finita male

Acquisizione a schermo intero 04012016 203058.bmpUna bruttissima storia. Però una storia giudiziaria ancora aperta, che la famiglia di Stefano Cucchi, ed in particolare la sorella Ilaria, ha lottato strenuamente perché rimanesse aperta, perché non finisse insabbiata, occultata o falsata, e che dunque non può essere chiusa in un luogo diverso da un tribunale. Com’è giusto che sia in uno Stato di diritto. Che prevede tre gradi di giudizio, che a certe condizioni consente anche la revisione dei processi, e in cui non si sono ancora consumati tutti i passaggi. Per questo,per rispetto di un iter processuale difficile, complicato, ma non ancora concluso, è difficile condividere la durissima decisione di Ilaria Cucchi, di emettere una sentenza di condanna mediatica, pubblicando su Facebook la foto di uno dei carabinieri sotto inchiesta, accompagnata da queste parole: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso».

La famiglia del ragazzo pestato dai carabinieri dell’Arma e deceduto all’ospedale Pertini di Roma una settimana dopo l’arresto per detenzione di stupefacenti è comprensibilmente esasperata dalle enormi difficoltà tra cui procede l’accertamento della verità. Un calvario giudiziario che dura ormai dai sei anni, e che metterebbe a dura prova la pazienza di chiunque. La riapertura delle indagini e l’iscrizione nel registro degli indagati dei carabinieri che avrebbero reso falsa testimonianza, nascondendo il pestaggio inflitto al povero Stefano, rendono però possibile che l’esito processuale sia diverso da quello che nell’ottobre del 2014 mandava assolti, in Corte d’Appello, tutti gli imputati, medici, infermieri e carabinieri a vario titolo coinvolti nell’inchiesta. Dopo quel verdetto Ilaria Cucchi disse che non avrebbe rinunciato a cercare la verità sulla fine del fratello, e che avrebbe non solo sollecitato il nuovo Procuratore capo Giuseppe Pignatone, ma che avrebbe continuato a parlare all’opinione pubblica per non lasciare che il caso finisse nell’oblio.

È giusto. Non c’è bisogno di scomodare personaggi del teatro antico per comprendere come possa l’amore di una sorella spingerla a tentare ogni strada, ogni via, pur di rendere giustizia al proprio fratello. Non però contro le leggi della città, come accade ad Antigone nella tragedia greca. Non però oltre le leggi dello Stato e la sensibilità giuridica moderna, che (a fatica) cerca di strapparci a quel lontano fondale mitico per consegnarci interamente alla amministrazione in chiave giurisdizionale dei diritti soggettivi. Che si azionano in sede processuale, non altrove.

La pubblicazione della foto su Facebook va oltre. Addita al pubblico ludibrio uno dei carabinieri sotto indagine. Scatena la gogna mediatica. Non era nelle intenzioni di Ilaria Cucchi. Dopo un’ora e mezza, in un altro post, Ilaria ha scritto: «Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui». Queste parole dimostrano che Ilaria ha visto quale violenza ha potuto sollevarsi per il semplice fatto che una foto compariva nella sua pagina online. Non vale infatti dire che quella foto di un giovane palestrato, che esibisce con orgoglio i suoi muscoli e che doveva essere il doppio del povero fratello Stefano, quando il pestaggio fu effettuato – non vale dire che quella foto è pubblica, sta sul profilo pubblico del carabinieri e può dunque essere tagliata e incollata. Può esserlo infatti, ma il gesto che lo fa, il gesto che la esibisce ora Ilaria Cucchi sa che ingenera violenza. Di più: è esso stesso una non voluta incitazione alla violenza (almeno verbale).

Non voluta e non necessaria. Ilaria ha giustamente aggiunto che alla violenza non si risponde con la violenza, ma con il diritto, quando sia fatta giustia. E giustizia sarà fatta: ora, anzi, è più vicina di prima, più vicina del giorno in cui la Corte d’Appello mandò tutti assolti.

(Il Mattino, 4 gennaio 2016)

La cura per un paese normale

Crisi: Mattarella, Italia migliora, bene 2016Il primo discorso di fine anno di Sergio Mattarella è stato il discorso di un Presidente, che interpreta alla lettera il posto che la Costituzione gli assegna nell’ordinamento della Repubblica: capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale. Perciò: nessun riferimento alla dialettica politica fra i partiti, spesso fuori  dalle righe, o ai prossimi, decisivi appuntamenti col voto, nel 2016: referendum confermativo ed elezioni amministrative. Nessun riferimento alle difficoltà, infine superate, di elezione dei giudici costituzionali, o alla crisi bancaria, o al cambiamento della legge elettorale. Mattarella ha scelto di riferirsi unicamente all’Italia, alle condizioni di vita degli italiani. Nel suo discorso hanno così trovato posto anzitutto «le principali difficoltà e le principali speranze della vita di ogni giorno». In primo luogo il lavoro, da cui il Presidente ha preso le mosse: i segnali di ripresa economica del Paese non sono ancora sufficienti a dare il lavoro ai troppi che sono privi. Poi il tema dell’intollerabile livello di evasione fiscale, che danneggia l’economia sana e i cittadini onesti. Quindi le materie dell’ambiente, del terrorismo, dell’emigrazione.

Non si è trattato però di un semplice catalogo di argomenti, sciorinato per creare sintonia con la platea televisiva; si è trattato piuttosto di un esplicito richiamo al dovere fondamentale dei cittadini di avere «cura della Repubblica», espressione che Mattarella ha già impiegato altre volte e che dà bene il senso del modo in cui egli intenda il proprio ruolo, e del modo in cui esorti gli italiani a intendere il proprio. E sotto quella parola, «cura», si sente declinato un richiamo ai principi e ai doveri delle istituzioni e dei cittadini, più che ai diritti. È come se le  diverse questioni economiche e sociali, o ambientali, o internazionali, affrontate nel discorso, ricevessero, nelle parole di Mattarella, un supplemento di significato, che le riporta alla preoccupazione di fondo del Presidente, declinata però nel suo uso quotidiano, nella vita di tutti i giorni: aver cura dell’Italia, avere a cuore il nostro Paese. Il dovere, l’impegno, la responsabilità: sono questi, infatti, i termini per i quali correvano le parole del discorso presidenziale.

Altro tratto stilistico distintivo è stato il riferirsi alle istituzioni nel loro insieme, senza mai far riferimento al governo o al Parlamento o ad altri organi dello Stato, e il tenere sempre insieme all’impegno delle istituzioni pubbliche quello della società, dei cittadini, della sfera privata dei rapporti economici e civili. Nessuna contrapposizione fra società civile e società politica, dunque, ma un’idea di Paese come concerto di energie diverse, impegnate tutte con eguale responsabilità.

Su due temi Mattarella è sembrato mostrare una particolare sensibilità: quello ambientale e quello migratorio. E in entrambi i casi i riferimenti sono andati alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini, agli stili di vita e alla doverosità dei comportamenti, più che alle sedi politiche di dibattito e decisione. Sull’ambiente, ad esempio, Mattarella non ha richiamato i recentissimi risultati della Conferenza di Parigi e l’accordo sulla riduzione dei gas serra, ma ha preferito parlare dell’inquinamento delle nostre città, della limitazione nell’uso delle auto private (e, al contempo, del dovere di erogare servizi di trasporto pubblico efficienti). A proposito di emigrazione, il Presidente ha dedicato un cenno veloce, ma incisivo, all’insistenza con cui l’Italia chiede all’Unione europea un salto di qualità nel governo collegiale del fenomeno migratorio, ma poi ha voluto dedicarsi al valore dell’accoglienza, della convivenza, dell’integrazione. E, con equilibrio, ha aggiunto che accoglienza implica comunque rigore, severità verso i comportamenti irregolari o illegali, e «rispetto per le leggi e la cultura del nostro Paese».

Ci voleva, un discorso così. Chiaro, comprensibile, senza acuti o note polemiche, rivolto più ad esortare che a stigmatizzare, misurato e rispettoso dei poteri, fermo nei principi ma non per questo ostile ai cambiamenti, un discorso di un Presidente della Repubblica che tiene alla fisiologia dei rapporti fra le istituzioni, e fra le istituzioni e i cittadini, che esercita per questo il suo ufficio di raccordo, e che può dunque aiutare l’Italia a ritrovare l’assetto, politico e istituzionale, di un Paese normale.

(Il Mattino, 2 gennaio 2016)