Una bruttissima storia. Però una storia giudiziaria ancora aperta, che la famiglia di Stefano Cucchi, ed in particolare la sorella Ilaria, ha lottato strenuamente perché rimanesse aperta, perché non finisse insabbiata, occultata o falsata, e che dunque non può essere chiusa in un luogo diverso da un tribunale. Com’è giusto che sia in uno Stato di diritto. Che prevede tre gradi di giudizio, che a certe condizioni consente anche la revisione dei processi, e in cui non si sono ancora consumati tutti i passaggi. Per questo,per rispetto di un iter processuale difficile, complicato, ma non ancora concluso, è difficile condividere la durissima decisione di Ilaria Cucchi, di emettere una sentenza di condanna mediatica, pubblicando su Facebook la foto di uno dei carabinieri sotto inchiesta, accompagnata da queste parole: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso».
La famiglia del ragazzo pestato dai carabinieri dell’Arma e deceduto all’ospedale Pertini di Roma una settimana dopo l’arresto per detenzione di stupefacenti è comprensibilmente esasperata dalle enormi difficoltà tra cui procede l’accertamento della verità. Un calvario giudiziario che dura ormai dai sei anni, e che metterebbe a dura prova la pazienza di chiunque. La riapertura delle indagini e l’iscrizione nel registro degli indagati dei carabinieri che avrebbero reso falsa testimonianza, nascondendo il pestaggio inflitto al povero Stefano, rendono però possibile che l’esito processuale sia diverso da quello che nell’ottobre del 2014 mandava assolti, in Corte d’Appello, tutti gli imputati, medici, infermieri e carabinieri a vario titolo coinvolti nell’inchiesta. Dopo quel verdetto Ilaria Cucchi disse che non avrebbe rinunciato a cercare la verità sulla fine del fratello, e che avrebbe non solo sollecitato il nuovo Procuratore capo Giuseppe Pignatone, ma che avrebbe continuato a parlare all’opinione pubblica per non lasciare che il caso finisse nell’oblio.
È giusto. Non c’è bisogno di scomodare personaggi del teatro antico per comprendere come possa l’amore di una sorella spingerla a tentare ogni strada, ogni via, pur di rendere giustizia al proprio fratello. Non però contro le leggi della città, come accade ad Antigone nella tragedia greca. Non però oltre le leggi dello Stato e la sensibilità giuridica moderna, che (a fatica) cerca di strapparci a quel lontano fondale mitico per consegnarci interamente alla amministrazione in chiave giurisdizionale dei diritti soggettivi. Che si azionano in sede processuale, non altrove.
La pubblicazione della foto su Facebook va oltre. Addita al pubblico ludibrio uno dei carabinieri sotto indagine. Scatena la gogna mediatica. Non era nelle intenzioni di Ilaria Cucchi. Dopo un’ora e mezza, in un altro post, Ilaria ha scritto: «Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui». Queste parole dimostrano che Ilaria ha visto quale violenza ha potuto sollevarsi per il semplice fatto che una foto compariva nella sua pagina online. Non vale infatti dire che quella foto di un giovane palestrato, che esibisce con orgoglio i suoi muscoli e che doveva essere il doppio del povero fratello Stefano, quando il pestaggio fu effettuato – non vale dire che quella foto è pubblica, sta sul profilo pubblico del carabinieri e può dunque essere tagliata e incollata. Può esserlo infatti, ma il gesto che lo fa, il gesto che la esibisce ora Ilaria Cucchi sa che ingenera violenza. Di più: è esso stesso una non voluta incitazione alla violenza (almeno verbale).
Non voluta e non necessaria. Ilaria ha giustamente aggiunto che alla violenza non si risponde con la violenza, ma con il diritto, quando sia fatta giustia. E giustizia sarà fatta: ora, anzi, è più vicina di prima, più vicina del giorno in cui la Corte d’Appello mandò tutti assolti.
(Il Mattino, 4 gennaio 2016)