Archivi del giorno: gennaio 4, 2016

Cucchi, una storia iniziata e finita male

Acquisizione a schermo intero 04012016 203058.bmpUna bruttissima storia. Però una storia giudiziaria ancora aperta, che la famiglia di Stefano Cucchi, ed in particolare la sorella Ilaria, ha lottato strenuamente perché rimanesse aperta, perché non finisse insabbiata, occultata o falsata, e che dunque non può essere chiusa in un luogo diverso da un tribunale. Com’è giusto che sia in uno Stato di diritto. Che prevede tre gradi di giudizio, che a certe condizioni consente anche la revisione dei processi, e in cui non si sono ancora consumati tutti i passaggi. Per questo,per rispetto di un iter processuale difficile, complicato, ma non ancora concluso, è difficile condividere la durissima decisione di Ilaria Cucchi, di emettere una sentenza di condanna mediatica, pubblicando su Facebook la foto di uno dei carabinieri sotto inchiesta, accompagnata da queste parole: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso».

La famiglia del ragazzo pestato dai carabinieri dell’Arma e deceduto all’ospedale Pertini di Roma una settimana dopo l’arresto per detenzione di stupefacenti è comprensibilmente esasperata dalle enormi difficoltà tra cui procede l’accertamento della verità. Un calvario giudiziario che dura ormai dai sei anni, e che metterebbe a dura prova la pazienza di chiunque. La riapertura delle indagini e l’iscrizione nel registro degli indagati dei carabinieri che avrebbero reso falsa testimonianza, nascondendo il pestaggio inflitto al povero Stefano, rendono però possibile che l’esito processuale sia diverso da quello che nell’ottobre del 2014 mandava assolti, in Corte d’Appello, tutti gli imputati, medici, infermieri e carabinieri a vario titolo coinvolti nell’inchiesta. Dopo quel verdetto Ilaria Cucchi disse che non avrebbe rinunciato a cercare la verità sulla fine del fratello, e che avrebbe non solo sollecitato il nuovo Procuratore capo Giuseppe Pignatone, ma che avrebbe continuato a parlare all’opinione pubblica per non lasciare che il caso finisse nell’oblio.

È giusto. Non c’è bisogno di scomodare personaggi del teatro antico per comprendere come possa l’amore di una sorella spingerla a tentare ogni strada, ogni via, pur di rendere giustizia al proprio fratello. Non però contro le leggi della città, come accade ad Antigone nella tragedia greca. Non però oltre le leggi dello Stato e la sensibilità giuridica moderna, che (a fatica) cerca di strapparci a quel lontano fondale mitico per consegnarci interamente alla amministrazione in chiave giurisdizionale dei diritti soggettivi. Che si azionano in sede processuale, non altrove.

La pubblicazione della foto su Facebook va oltre. Addita al pubblico ludibrio uno dei carabinieri sotto indagine. Scatena la gogna mediatica. Non era nelle intenzioni di Ilaria Cucchi. Dopo un’ora e mezza, in un altro post, Ilaria ha scritto: «Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui». Queste parole dimostrano che Ilaria ha visto quale violenza ha potuto sollevarsi per il semplice fatto che una foto compariva nella sua pagina online. Non vale infatti dire che quella foto di un giovane palestrato, che esibisce con orgoglio i suoi muscoli e che doveva essere il doppio del povero fratello Stefano, quando il pestaggio fu effettuato – non vale dire che quella foto è pubblica, sta sul profilo pubblico del carabinieri e può dunque essere tagliata e incollata. Può esserlo infatti, ma il gesto che lo fa, il gesto che la esibisce ora Ilaria Cucchi sa che ingenera violenza. Di più: è esso stesso una non voluta incitazione alla violenza (almeno verbale).

Non voluta e non necessaria. Ilaria ha giustamente aggiunto che alla violenza non si risponde con la violenza, ma con il diritto, quando sia fatta giustia. E giustizia sarà fatta: ora, anzi, è più vicina di prima, più vicina del giorno in cui la Corte d’Appello mandò tutti assolti.

(Il Mattino, 4 gennaio 2016)

La cura per un paese normale

Crisi: Mattarella, Italia migliora, bene 2016Il primo discorso di fine anno di Sergio Mattarella è stato il discorso di un Presidente, che interpreta alla lettera il posto che la Costituzione gli assegna nell’ordinamento della Repubblica: capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale. Perciò: nessun riferimento alla dialettica politica fra i partiti, spesso fuori  dalle righe, o ai prossimi, decisivi appuntamenti col voto, nel 2016: referendum confermativo ed elezioni amministrative. Nessun riferimento alle difficoltà, infine superate, di elezione dei giudici costituzionali, o alla crisi bancaria, o al cambiamento della legge elettorale. Mattarella ha scelto di riferirsi unicamente all’Italia, alle condizioni di vita degli italiani. Nel suo discorso hanno così trovato posto anzitutto «le principali difficoltà e le principali speranze della vita di ogni giorno». In primo luogo il lavoro, da cui il Presidente ha preso le mosse: i segnali di ripresa economica del Paese non sono ancora sufficienti a dare il lavoro ai troppi che sono privi. Poi il tema dell’intollerabile livello di evasione fiscale, che danneggia l’economia sana e i cittadini onesti. Quindi le materie dell’ambiente, del terrorismo, dell’emigrazione.

Non si è trattato però di un semplice catalogo di argomenti, sciorinato per creare sintonia con la platea televisiva; si è trattato piuttosto di un esplicito richiamo al dovere fondamentale dei cittadini di avere «cura della Repubblica», espressione che Mattarella ha già impiegato altre volte e che dà bene il senso del modo in cui egli intenda il proprio ruolo, e del modo in cui esorti gli italiani a intendere il proprio. E sotto quella parola, «cura», si sente declinato un richiamo ai principi e ai doveri delle istituzioni e dei cittadini, più che ai diritti. È come se le  diverse questioni economiche e sociali, o ambientali, o internazionali, affrontate nel discorso, ricevessero, nelle parole di Mattarella, un supplemento di significato, che le riporta alla preoccupazione di fondo del Presidente, declinata però nel suo uso quotidiano, nella vita di tutti i giorni: aver cura dell’Italia, avere a cuore il nostro Paese. Il dovere, l’impegno, la responsabilità: sono questi, infatti, i termini per i quali correvano le parole del discorso presidenziale.

Altro tratto stilistico distintivo è stato il riferirsi alle istituzioni nel loro insieme, senza mai far riferimento al governo o al Parlamento o ad altri organi dello Stato, e il tenere sempre insieme all’impegno delle istituzioni pubbliche quello della società, dei cittadini, della sfera privata dei rapporti economici e civili. Nessuna contrapposizione fra società civile e società politica, dunque, ma un’idea di Paese come concerto di energie diverse, impegnate tutte con eguale responsabilità.

Su due temi Mattarella è sembrato mostrare una particolare sensibilità: quello ambientale e quello migratorio. E in entrambi i casi i riferimenti sono andati alle preoccupazioni quotidiane dei cittadini, agli stili di vita e alla doverosità dei comportamenti, più che alle sedi politiche di dibattito e decisione. Sull’ambiente, ad esempio, Mattarella non ha richiamato i recentissimi risultati della Conferenza di Parigi e l’accordo sulla riduzione dei gas serra, ma ha preferito parlare dell’inquinamento delle nostre città, della limitazione nell’uso delle auto private (e, al contempo, del dovere di erogare servizi di trasporto pubblico efficienti). A proposito di emigrazione, il Presidente ha dedicato un cenno veloce, ma incisivo, all’insistenza con cui l’Italia chiede all’Unione europea un salto di qualità nel governo collegiale del fenomeno migratorio, ma poi ha voluto dedicarsi al valore dell’accoglienza, della convivenza, dell’integrazione. E, con equilibrio, ha aggiunto che accoglienza implica comunque rigore, severità verso i comportamenti irregolari o illegali, e «rispetto per le leggi e la cultura del nostro Paese».

Ci voleva, un discorso così. Chiaro, comprensibile, senza acuti o note polemiche, rivolto più ad esortare che a stigmatizzare, misurato e rispettoso dei poteri, fermo nei principi ma non per questo ostile ai cambiamenti, un discorso di un Presidente della Repubblica che tiene alla fisiologia dei rapporti fra le istituzioni, e fra le istituzioni e i cittadini, che esercita per questo il suo ufficio di raccordo, e che può dunque aiutare l’Italia a ritrovare l’assetto, politico e istituzionale, di un Paese normale.

(Il Mattino, 2 gennaio 2016)