Archivi del mese: febbraio 2016

La brutta Rai al tempo di Saviano

Acquisizione a schermo intero 26022016 134009.bmpSe una trasmissione della Rai vuole costruire un racconto sulla città di Napoli cosa fa? Prende gli ultimi morti ammazzati, filma un po’ di luoghi degradati, e poi chiama il massimo interprete mondiale  della inestirpabilemala pianta della camorra, Roberto Saviano, lasciandogli il microfono per una dozzina di minuti. Di meno no, di più magari sì. Così ha fatto Ballarò, l’altra sera. L’unica variazione rispetto a una sceneggiatura che non aveva nessun carattere di originalità stava nei comprimari che Massimo Giannini ha chiamato in studio, a parlare di Napoli: Antonio Bassolino e Valeria Ciarambino. Il primo impegnato in una sfida con se stesso, ancor prima che nelle primarie del centrosinistra; la seconda, invece, impegnata in un ruolo, quello di leader dell’opposizione grillina in Regione, di cui probabilmente ancora non si capacita. Come che sia, fossero o no adeguati a sostenere il confronto, resta il fatto che la Rai ha deciso che a parlare dei morti ammazzati, della guerra di camorra, della irredimibile disperazione della città fosse da New York Roberto Saviano, in veste di testimone e dunque senza l’onere di sostenere un contraddittorio (a proposito: si può contraddire Saviano?). Fatta la qual cosa, il conduttore di Ballarò ha lasciato a Bassolino e Ciarambino, in palese imbarazzo, un paio di minuti. Briciole.

Ora, nella natura di un talk show di approfondimento giornalistico, quale la trasmissione di punta di Rai 3 si picca di essere, dovrebbe essere lasciata al dibattito in studio la possibilità di fare emergere punti di vista diversi, magari contrapposti, comunque argomentati. Nella trasmissione di martedì scorso, Bassolino e Ciarambino hanno avuto – formalmente, almeno – la possibilità di interloquire, ma la distanza auratica dalla quale parlava Saviano, e il tempo spropositatamente lungo messo a sua disposizione, rispetto all’esiguo minutaggio riservato agli ospiti in studio, hanno ridotto quasi a macchietta, a caricatura, i loro interventi. Saviano parlava, anzi recitava, in piedi, assistito da un montaggio sapiente. Bassolino e Ciarambino stavano invece seduti, schiacciati sulle loro poltroncine, come scolaretti sottoposti al severo giudizio censorio, in un paio di punti perfino irridente, dell’autore di Gomorra.

Bene. Io chiedo  che mi venga risparmiata non l’accusa di lesa maestà nei confronti di Saviano – perché quella c’è tutta, lo riconosco, e in realtà riguarda meno, molto meno lui che i costruttori del pulpito dal quale lo fanno parlare ogni volta – ma la batteria di argomenti che di solito si usano in questi casi: a Napoli la camorra c’è veramente, non è mica una costruzione narrativa. Oppure: le responsabilità storiche e politiche della classe dirigente napoletana ci sono tutte, come si fa a negarle? O ancora: non bisogna lavare i panni sporchi in famiglia, e minimizzare, e nascondere la polvere sotto il tappeto, e insieme alla polvere pure i cadaveri che cadono per strada.

Tutto vero, tutto giusto, anzi sacrosanto. Ma la questione è un’altra. E cioè: che genere di trasmissione è Ballarò? Chiediamocelo, prima di schierarci a difesa di questo o di quello. Che nella rappresentazione di Napoli offerta martedì scorso doveva esserci qualcosa che non andava; che questa riduzione di una grande città di un milione di abitanti all’unico denominatore comune della sua cronaca nera fosse un filino parziale lo ha pensato onestamente persino Vittorio Feltri, di cui non si ricordano natali partenopei. È stato lui a introdurre l’unico elemento di dubbio sulla narrazione fin lì offerta, quando ha ricordato che altre città e altri paesi hanno tassi di criminalità più alti di Napoli. Ovviamente il punto non è quello, è se mai se gli unici tassi disponibili sulla città debbano riguardare la realtà criminale.

Il punto è, anzi, un altro ancora. Nel suo intervento fiume, Saviano è passato, sempre senza contraddittorio, dai mondi disperati del malaffare all’imputazione a carico della classe politica – imputazione che, detta da lui, equivale ipso facto a una condanna – per chiudere infine sul dovere morale di parlare, criticare, denunciare. Ha dunque enunciato il seguente paradosso: prima, con Berlusconi al potere, di camorra e corruzione si poteva parlare, il centrosinistra poteva parlare, ed anzi erano quelli gli strumenti per attaccarlo (più le signorine, bisognerebbe ricordare). Ora che tocca al centrosinistra e a Renzi, bisogna invece dire che va tutto ben e di camorra non si può parlare. Lo dice proprio lui, che è probabilmente l’unico, insieme forse a Benigni, a poter essere ospite di una trasmissione Rai e parlare dodici minuti di fila senza interruzione. Ad ogni modo, si è forse avuto il principio di una imprevista, doppia confessione. Lui non se ne è accorto, ma le sue parole si possono benissimo intendere così: che, prima, si trattava per molti di un uso strumentale di questi temi, e che ora, per gli stessi, non può non trattarsi di una difesa di posizioni acquisite. In tutto questo, viene infine da domandarsi, il servizio pubblico cosa c’entra?

(Il Mattino, 26 febbraio 2016)

La sindrome di accerchiamento

chess-king-rounded-up-11366369Caravaggio non va più al Quirinale e Napoli esulta: come se De Laurentis non avesse ceduto Higuain alla Juventus. L’idea che l’esposizione della tela  presso il Palazzo del Quirinale avrebbe significato una sconfitta per la cultura partenopea è contraddetta non da sofisticati ragionamenti intorno all’essenza dell’opera d’arte, ma dalla natura dell’oggetto: una tela. Cioè un oggetto trasportabile (con tutte le cautele del caso). Ora i promotori della campagna si compiacciono della sensibilità dimostrata da Mattarella, dopo aver dipinto l’iniziativa del Quirinale alla stregua di una razzia napoleonica. In realtà, la lettera che è venuta dal più alto Colle non dice nulla dei profondi motivi che hanno spinto tanti illustri intellettuali ad ergersi a difesa del quadro e della cappella del Pio Monte: non si parla di intangibilità del quadro, né di complementarità e inscindibilità fra il quadro e la cappella, fra la cappella e il quartiere, fra il quartiere e la città. Anzi, nessuna parola diplomatica attutisce, nella lettera del Quirinale, la mera presa d’atto  delle polemiche insorte.

Però si sono usati argomenti altisonanti, del tipo: un’opera d’arte di tale pregio non può essere decontestualizzata. Come se il  tempo, il grande decontestualizzatore, non l’avesse fatto già e non lo facesse ogni minuto, spostando Caravaggio e la sua tela fino a noi. O come se a decontestualizzare un’opera non bastasse una fotografia – che infatti campeggiava sulla prima pagina del Corriere del Mezzogiorno, proprio mentre il giornale celebrava il trionfo della sua coraggiosa campagna.  O come se infine la tela di Caravaggio non fosse forte abbastanza da potersi leggere in contesti diversi da quello originario. Se così fosse, d’altronde, perché non proibirne la visione ai non napoletani? Cosa volete che ne sappiano loro, gli americani o i tedeschi, del contesto partenopeo che solo rende riconoscibile e apprezzabile il quadro?

In realtà, non c’è bisogno di avventurarsi in difficili questioni ontologiche per riconoscere preoccupazioni di ben altra natura in questa difesa accorata dell’autoctonia dell’arte. E cioè, principalmente, il timore che in nome del profitto si possa violentare una città, strappandole i suoi più capolavori. Credo anzi che più dell’intangibilità dell’opera d’arte fosse in gioco la tangibilità del vil denaro, cioè la sua capacità di toccare e prendersi ogni cosa. In prestito, d’accordo: ma l’offesa ci sarebbe stata tutta lo stesso.

Forse non è il caso di scomodare Andy Warhol, che per colmo di provocazione diceva che far soldi è un’arte, anzi la migliore forma d’arte, però Warhol da Napoli è passato, e s’è tolto pure lo sfizio di decontestualizzare il Vesuvio e il terremoto.

Il fatto è che un simile riflesso difensivo, una tale paura di essere depredati dei propri tesori è il segno più palese di un grave ripiegamento culturale della città, o perlomeno di una parte non piccola del suo ceto intellettuale. Arroccarsi a difesa del Pio Monte: un’idea regressiva dell’opera – e del suo rapporto con il mercato, le istituzioni e il mondo dell’arte – si è sposata questa volta con un’immagine altrettanto regressiva e idiosincratica della città. La stasi contro il movimento: il quadro non si deve muovere. La terra contro il denaro: quel quadro si può esporre solo nella sua terra. L’origine contro il divenire: l’unico luogo in cui il quadro può stare è quello originario. Si potrebbe continuare, e ogni volta si troverebbe in ciò che è esterno e viene da fuori il principio di ogni corruzione e di ogni espropriazione.

È sicuramente esagerato vederci una metafora della fase che sta attraversando la città, tra sindrome di accerchiamento e proclami di resistenza contro le istituzioni della Repubblica. Però qualche dubbio viene, se tanti uomini di cultura vivono quasi come un furto alla città il prestito di un suo bene. E a quelli che pensano che bisogna venire a Napoli per vedere Caravaggio e Le sette opere di misericordia bisogna rispondere che si viene a Napoli se e solo se anche Napoli va per il mondo. È sempre stato così: con la musica, il teatro e la cucina. Certo, è verissimo che come si fa il ragù a Napoli, o la pizza, da nessun’altra parte mai. Ma che nel mondo ci siano pizzerie a Napoli di certo male non fa.

(Il Mattino, 24 febbraio 2016)

Zapatismo in salsa partenopea

Siqueiros-Del-porfirismo-a-la-Revolución

Come stanno veramente le cose, a Napoli, se in una tiepida domenica di febbraio il suo Sindaco, Luigi De Magistris, può salire su un treno, approdare intorno alla mezza nella Capitale, all’Assemblea di Cosmopolitica, nel luogo fondativo di una nuova formazione di sinistra-sinistra, e lì indossare, fra gli scroscianti applausi dei partecipanti, i panni di Emiliano Zapata, il rivoluzionario messicano d’inizio Novecento?  De Magistris racconta l’esperienza di Napoli, e parla dell’acqua pubblica, della cittadinanza onoraria «al capo dello Stato della Palestina» e al leader curdo Abdullah «Apo» Ocalan, di unioni civili e testamento biologico. Non dice una parola sullo stato degli edifici, dei trasporti o delle strade, o sulla classifica dell’eurobarometro che vede Napoli penultima in Europa per efficienza amministrativa:  la poesia della rivoluzione non va molto d’accordo con la prosaica cura quotidiana della città. Poi De Magistris si scaglia contro l’accerchiamento istituzionale, e mette «il corpo umano» (niente meno!) «contro il liberismo. contro la camorra, i grandi partiti, le cricche e le masso-mafie» così: come se fossero la stessa cosa. Ma il culmine lo raggiunge quando spiega, in un crescendo irresistibile, la cosa di cui va più orgoglioso: il sistema di autogoverno dei napoletani. Che non significa che a Palazzo San Giacomo non sia più De Magistris a firmare le delibere, ma che lui non dà l’ordine di sgombero quando i napoletani occupano edifici abbandonati o in disuso: «mi prendo la denuncia e li vado a ringraziare, perché stanno liberando la città». Lo chiama «zapatismo in salsa partenopea», e consiste non nel ripristinare servizi e luoghi della città, nella manutenzione urbana o nel rifacimento dei palazzi, ma nel tollerare, anzi incoraggiare le occupazioni di luoghi, pubblici e privati. Napoli è «fuori controllo» afferma il primo cittadino (non un turista esasperato o un osservatore annoiato). Ma niente paura: «è il popolo che sta trovando la sintesi».

Dopo la comune di Parigi, studiata da Marx, e quella di Morelos, organizzata da Zapata, c’è dunque la Napoli di Luigi De Magistris, in connessione sentimentale col suo popolo. E una qualche connessione ci deve essere effettivamente, se è vero quello che il sindaco racconta, quando rievoca i giorni difficili vissuti come  sindaco di strada: lì è scattato qualcosa. Stare fuori dal Palazzo gli ha fatto bene: lo ha convinto che poteva mettersi dalla parte di quei cittadini – e sono la maggioranza – che si lamentano di tutto quello che a Napoli non funziona, senza assumersene neanche di striscio la responsabilità, nonostante il suo ruolo istituzionale, ma anzi addossandola agli altri, ai «poteri forti» che affamano la città. Tutto quello che c’è di buono a Napoli viene dal basso, dalle associazioni e dai centri sociali, e tutto quello che c’è di male viene dall’alto. E il Sindaco ovviamente colloca se stesso in basso, in mezzo al popolo: per strada, appunto.  Il racconto che in tempo di guerra, o sotto embargo, i governanti messi al bando dalla comunità internazionale fanno ai loro connazionali (quasi sempre, in realtà, sudditi) De Magistris ha scoperto che poteva farlo lui, in tempo di pace, a Napoli., senza tema di contraddizione, scaricando sulle banche o sul governo, sul liberismo o sui giornali, sul centrodestra e il centrosinistra, tutti i mali della città.

Non è però un discorso che ci si possa limitare a confutare: non perché sia vero, ma perché le confutazioni si situano sul piano logico, non su quello politico. Sul piano politico, una simile narrazione avrà presa se e finché mancherà una risposta reale ai problemi che De Magistris si limita a rimuovere, costruendo con un abile spostamento la figura dei nemici del popolo. Se il tratto meridionalista delle politiche nazionali si perde, se Napoli rimane periferia sia per Roma che per Bruxelles, se non si impone una nuova classe dirigente, se un consenso ampio non si raccoglie intorno a una nuova proposta politica, e non diviene egemone, non si fa largo fra i detriti del passato e le incertezze politiche e culturali del presente, allora sarà sempre possibile al Sindaco col maglione rosso accendere gli animi al grido di «viva il popolo!», convertendo il disordine in segno felice di anarchia e libertà, e l’incapacità di gestire il patrimonio pubblico in esperienza luminosa di autogoverno. Il sonno di un’autentica politica riformatrice genera De Magistris, e svegliarsi rimane sempre un’operazione complicata.

(Il Mattino, 23.02.2016)

L’ultimo strappo con la cultura del berlusconismo

Mondazzoli

L’ultima è stata la nave di Teseo. L’ultimo vascello sul quale Umberto Eco sia salpato. Era il novembre dello scorso anno, e Umberto Eco, insieme a molte altre illustri firme della casa editrice Bompiani decide di seguire Elisabetta Sgarbi via dal nuovo gruppo Mondadori-Rizzoli, guidato da Marina Berlusconi, e di fondare una nuova casa editrice. Lui la racconta così, ai giornali: «Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi si sono incontrate per non capirsi». Forse, la più plastica rappresentazione della distanza insieme intellettuale ed estetica che un uomo come Umberto Eco avvertiva nei confronti del berlusconismo.

Non era mica così ovvio, e forse un po’ c’entrava anche l’età. Tredici anni prima, nel 2002, al tempo di Nanni Moretti e dei girotondi, Eco aveva detto altro: che i girotondi, certo, servivano a «rianimare la sinistra», ma non sarebbero mai bastati a sconfiggere il Cavaliere. Si era spinto persino ad approvare, o almeno a non disdegnare,  il fatto che D’Alema – la bestia nera dei girotondini, per via dell’inciucio (mancato) con Berlusconi – avesse una barca e scrivesse per Mondadori. Non si trattava però di proporre nuove strategie ispirate a quel realismo politico che inorridiva la sinistra più movimentista (e più velleitaria), quanto piuttosto di prendere atto, quasi con rassegnazione, di ciò che il Paese, la metà del Paese era: la metà sbagliata. Sapete perché i girotondi non servono a nulla?, aggiungeva infatti: «perché metà degli italiani la pensa così: Berlusconi ha frodato il fisco? Beh, l’ho fatto anch’io».

La peculiarità del centrodestra italiano era dunque riconosciuta nel profilo di Berlusconi: imprenditore e tycoon televisivo, spettacolare concentrato di interessi privati del cui potenziale conflitto con l’interesse generale del Paese secondo Eco agli elettori non importava gran che (e probabilmente su ciò aveva ragione). Ma veniva in realtà ricondotta al fondo limaccioso del Paese: se non si poteva dire ad una differenza antropologica, per non abusare troppo della famosa diversità comunista, ci si poteva però rifare ai tratti peculiari del carattere nazionale: cialtronesco, privo di senso dello Stato e poco incline al rispetto delle leggi. Per molti intellettuali italiani Berlusconi è stato soprattutto la proiezione al governo del Paese di tutto questo, e così anche per Umberto Eco.

Non era mica così ovvio, dicevo, ma era sicuramente più facile che ripensare daccapo le ragioni (e i torti) del centrosinistra di allora. Eppure Eco aveva cominciato proprio così: portando scompiglio nelle fila dell’intellettualità di sinistra. Lo ha ricordato lui stesso, in un’intervista di cinque anni fa, quando ha raccontato a Valentino Parlato come si avvicinò al Manifesto, nel 1971: «noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci […]. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall’intellighentia del Pci». I problemi in realtà erano quelli, ed era il partito comunista ad essere in forte ritardo rispetto a tutto quello che accadeva nel campo delle scienze umane e sociali.

Ma dopo quella stagione, in cui Umberto Eco diede sicuramente il suo contributo teorico più avanzato, ne è venuta un’altra, in cui era più semplice stare sulle scatole sì, ma del centrodestra: prendersi gli scontati livori  del Secolo d’Italia, o di Libero, piuttosto che cercare daccapo di riorientare la cultura politica della sinistra. L’antiberlusconismo è stato insomma per molti, e in fondo anche per l’Umberto Eco degli ultimi anni, un ottimo surrogato.  Fino allo scivolone del paragone con Hitler, come il Cavaliere andato al potere tramite libere elezioni.

Questo non significa ovviamente che Eco abbia mai rinunciato a quel tratto illuministico di ironia, di intelligenza critica, ma anche di semplice acume che scintillava nelle sue bustine di Minerva – la rubrica fissa tenuta sul settimanale L’Espresso. A volte però anche l’intelligenza può peccare di autocompiacimento. È, anzi, il suo peccato più grande, ed è quello che più lo tiene lontano, nonostante ogni impegno civile, dall’intelligenza politica delle cose. Forse Eco se ne è a volte macchiato. Come quando suggerì di prepararsi serenamente a morire al modo seguente: convincendosi che il mondo non è fatto che di coglioni, e che quindi non vale davvero la pena restarci. Se così fosse, a dire il vero, non varrebbe nemmeno la pena di vivere in una democrazia. Ma soprattutto: chissà se davvero sia il modo migliore. In fondo, significa che si accetta di uscire di scena proprio sul più bello, quando ci si è finalmente persuasi di essere i migliori.

(Il Mattino 21.02.2016)

 

Morto Eco, cambiò lo sguardo sul mondo

getmediaUmberto Eco, scrittore. Lo straordinario successo internazionale de Il nome della rosa, apparso nel 1980, ha consacrato in tutto il mondo Umberto Eco come romanziere, ma Eco è stato molto di più. È stato uno studioso di estetica medievale e un semiologo; è stato un saggista, un critico, un polemista. Dalle pagine dell’Espresso, Eco è stato una presenza costante nel dibattito pubblico italiano. Il libro che gli ha dato la più grande notorietà ha in parte almeno oscurato il resto del suo lavoro: eppure libri come l’«Opera aperta», la «Struttura assente» o il «Trattato di semiotica generale» hanno avuto una grande importanza nella cultura italiana degli anni Sessanta e Settanta, contribuendo a modificare il panorama delle scienze umane. L’interesse filosofico per il tema dell’interpretazione è legato, in Italia, alla diffusione dell’ermeneutica, fondata anzitutto sulla tradizione tedesca otto-novecentesca, ma anche sulla tradizione semiotica americana inaugurata da Charles Sanders Peirce, e studiata in Italia da Carlo Sini, a Milano, e da Umberto Eco e la sua scuola, a Bologna.

Però, per i meccanismi della comunicazione di massa, Eco è anzitutto l’autore del romanzo italiano forse più letto e famoso della seconda metà del Novecento. Traduzioni in decine di lingue, decine di milioni di copie vendute nel mondo. Eco conosceva molto bene quei meccanismi. Li studiò anzi, in libri come «Apocalittici e integrati», in cui metteva a tema  la cultura popolare, il romanzo poliziesco, il fumetto, il Kitsch, la televisione. La cosa suscitò qualche perplessità. Pietro Citati recensì il saggio di Eco mostrando tutto il suo sospetto verso questa spregiudicata operazione che osava impiegare gli strumenti della cultura alta per spiegare e comprendere la cultura bassa. In realtà, non molto diversamente Roland Barthes si dedicava, in Francia, a fare l’analisi semiologica dei «miti d’oggi». In Italia però faceva scandalo che si mostrassero parimenti degni di attenzione «Platone ed Elvis Presley». Eco ha raccontato una volta quando ebbe la rivelazione: partecipando a un serissimo convegno accademico, al quale era invitato il fior fiore degli studiosi della mitologia antica, pensò di cavarsela d’impaccio occupandosi delle storie a colori di Superman: «insomma, arrivo a Roma e inizio la relazione posando sul tavolo la mia pila di fumetti di Superman. Che faranno, mi cacciano? Nossignore, mi scompaiono metà dei fumetti».

C’è molto non del suo percorso intellettuale, in questo divertito aneddoto, ma del suo stile: umori satirici e moralistici, grande attenzione al quotidiano, venature illuministiche, qualche tentazione pedagogica e una naturale vocazione politica, nella misura in cui in una società democratica è politica, per definizione, ogni attenzione alla vita quotidiana. «Fare la teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria del giovedì prossimo», diceva ancora Eco. Che probabilmente non avrebbe voluto occuparsi d’altro, tanto come studioso di Tommaso d’Aquino quanto come osservatore della fenomenologia di Mike Buongiorno. Quello del quiz al giovedì sera, cioè appunto del giovedì prossimo, e di ciò che gravita intorno ai poli magnetici della massa e della cultura popolare, a cui Eco si dedicava certo mantenendo la distanza dell’ironia, ma senza manicheismi, e senza usare le venature apocalittiche tipiche della cosiddetta grande cultura. Per cui lui stesso non potrà troppo dispiacersi se in virtù di quegli stessi meccanismi che studiava, per Wikipedia e per il mondo sarà anzitutto conosciuto e apprezzato come autore de «Il nome della rosa» o de «Il Pendolo di Foucault», piuttosto che come serissimo studioso di Kant o della semiotica strutturale.

(Il Mattino, 20 febbraio 2016)

La strategia della finestra

 

ImmagineSe Alessandro Manzoni seguisse le primarie dei grillini napoletani, e avesse voglia di scriverne, titolerebbe probabilmente così: Stefania Verusio, chi mai sarà costei? E chi mai sarà l’altra candidata, Francesca Menna? Sarà colpa di una politica sempre più personalizzata, e sempre in affannosa ricerca di volti noti, ma la scelta grillina di affidarsi, per la candidatura a sindaco di Napoli, a due degnissime persone, ma sconosciute alla quasi totalità dei napoletani,suona francamente improbabile, per non dire che sfiora la pura e semplice casualità. Del resto, il numero di coloro che partecipano a queste procedure di selezione è, di regola, talmente piccolo, che davvero il risultato sembra del tutto fortuito. È toccato a loro, poteva capitare a chiunque altro. La cosa fa pensare alle parole che Paola Taverna, deputata grillina di stanza a Roma, ha usato qualche giorno fa, denunciando il clamoroso complotto degli altri partiti per far vincere il Movimento Cinque Stelle nella Capitale. L’unica maniera di sventarlo, si direbbe, è quella di candidare perfetti sconosciuti (o sconosciute). A Napoli l’hanno fatto; ma così al rocambolesco paradosso della cittadina Taverna si risponderebbe con un paradosso più acrobatico ancora.

Naturalmente, gli esponenti del Direttorio non mancano di spiegare la cosa nei termini ligi della loro dottrina: conta il progetto, uno vale uno (cioè uno vale l’altro e nessuno vale gran che), non ci sono persone insostituibili e tutti sono fungibili, se persino Beppe Grillo ha tolto il suo nome dal simbolo. E così via.

Tutto vero, ma tutto drammaticamente insufficiente. A Napoli il Movimento è attraversato da profonde tensioni. C’è stato il caso di Quarto, con le espulsioni e le dimissioni, poi rientrate, del sindaco Capuozzo; c’è stata l’ondata di epurazioni che ha colpito i meetup partenopei. Non è detto che sia finita, e secondo alcuni è ancora possibile che i Cinquestelle non si presentino nemmeno con il loro simbolo. Come il partito radicale di una volta, che ogni tanto faceva proprio così: si chiamava fuori, addossando la colpa al regime partitocratico.

Non finirà però in questo modo: sarebbe davvero la madre di tutte le stramberie, tanto più in una città che esprime due tra i massimi dirigenti del Movimento, Roberto Fico e Luigi Di Maio. Ma la questione sembra meno legata alle vicende interne al gruppo dirigente napoletano, che alla strategia politica del movimento. Strategia che pare fatta apposta per sottrarsi all’incombenza di governare. Tenersi fuori dall’area di governo paga, in termini elettorali. O perlomeno: evita lo scotto di cattivi risultati amministrativi, la cui scia si prolungherebbe con ogni probabilità fino alle prossime elezioni politiche, se in gioco non sono più piccole realtà locali o città di provincia, ma grandi città come Roma o Napoli. Che cosa mai potrebbe combinare, infatti, un sindaco grillino? Siamo sicuri che Grillo&Casaleggio vogliano davvero saperlo? Siamo sicuri che anche i giovani membri napoletani del Direttorio, che si trovano adesso l’uno sulla seconda poltrona della Camera dei Deputati, l’altro alla guida della Commissione Vigilanza della Rai, siano disponibili a mettere in gioco il loro futuro politico lanciando il Movimento in una competizione vera per la guida di una città così complessa? E se putacaso i grillini vincessero, quanto tempo impiegherebbero anche solo per capire da che parte cominciare?

Non è questo il senso del paradosso di Paola Taverna? Se ci lasciano in mano il cerino del governo, finirà che ci scottiamo con i debiti del Comune, con la macchina amministrativa che magari rema contro, con i conflitti che immediatamente sorgerebbero con gli altri livelli istituzionali. Senza contare le tensioni che nel Movimento si producono ogni volta che si avvicina all’area di governo: scissioni ed espulsioni compaiono subito all’ordine del giorno.

È un’interpretazione malevola? Può darsi. Ma se anche fosse, rimane la questione: non è forse vero che il metodo, ancor più dei contenuti della proposta politica pentastellata, tiene obiettivamente lontano dalle assunzioni di responsabilità politica i suoi militanti e dirigenti? Dalle altre parti va molto diversamente. I candidati in campo scelgono e trovano il sostegno di leader di rilievo nazionale: Berlusconi dà l’ok a Lettieri; Andrea Orlando viene a Napoli a sostenere la candidatura di Valeria Valente. Bassolino, invece, fa da sé e mette il pronome di prima persona innanzi a ogni altra cosa. I grillini diranno invece che il loro nome è nessuno, e che questa è la loro forza. O la loro astuzia, visto che a dirlo saranno comunque proprio i nomi propri della ditta Grillo&Casaleggio nelle cui mani rimane saldamente il controllo del Movimento. Anzi: la proprietà del marchio.

(Il Mattino – ed. Napoli, 20 febbraio 2016)

La sovranità dei baroni del terzo millennio

apple-catalan.png

Apple ha detto di no. L’Fbi ha chiesto all’azienda di Cupertino di accedere ai dati dell’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due assassini della strage di San Bernardino, in California. L’accesso richiede la decrittazione del telefono cellulare, e la Apple si é rifiutata di fornire alla polizia federale l’assistenza tecnica necessaria a violare il codice di protezione dei dati. Ne aveva il diritto? Sì, dal momento che il giudice aveva dato facoltà all’azienda di contestare l’ordinanza. Ma non è detto che finisca qui, e che le esigenza di sicurezza alla fine non prevalgano sulla protezione della privacy che la Mela ha inteso assicurare opponendo il suo diniego. Non è detto cioè che il rifiuto di collaborare non venga superato da una nuova ordinanza del giudice.

Il conflitto però ci riporta indietro, molto indietro. Ci riporta a tempi precedenti l’invenzione moderna della sovranità. La quale nasce come quell’autorità sopra la quale non ve n’è nessun’altra, e alla quale tutti gli altri poteri della società devono sottostare. Certo, si tratta di una nascita contrastata, e intimamente dialettica: non vi sarebbe motivo di erigere sopra le nostre teste un potere così grande, infatti, se questo potere non desse in cambio qualcosa. Sicurezza, innanzitutto: era quello che pensava Hobbes, il più grande teorico della sovranità statale. Ed è in nome della sicurezza che l’Fbi ha chiesto all’azienda di Copertino di entrare nel cellulare, cioè nella sfera privata personale di Farook. Ma i pensatori liberali, che dopo Hobbes hanno continuato a lavorare sull’idea di sovranità, hanno aggiunto alla relazione col potere sovrano qualcos’altro: che sicurezza sarebbe mai quella che mette nelle mani di qualcuno  un potere così assoluto da potersi infilare ovunque? Chi mai può sentirsi sicuro, se non vi è alcuno spazio in cui essere garantiti dalle intromissioni altrui? E soprattutto, a che serve esser sicuri, se non si è anche liberi?

Sono stati a lungo questi i termini del problema politico moderno: sicurezza e libertà. Come si è complicata nel tempo l’idea di sicurezza, dovendo includere una qualche misura di libertà, così in seguito si è complicata pure l’idea stessa di libertà, che è venuta via via includendo dimensioni sempre più ampie del vivere civile e sociale.

Ma con la decisione di Tim Cook, il Ceo della Apple, di dire no agli agenti federali, i termini non sembrano complicarsi soltanto, ma più radicalmente paiono mutare. Comunque finirà il conflitto, e posto pure che finirà per davvero in un’aula di tribunale e per la decisione di un giudice, magari dopo il ricorso dell’Fbi, quello che è andato in scena somiglia a uno scontro di tipo nuovo, anzi molto antico. Ricorda quello avveniva prima dell’invenzione moderna dello Stato, prima della costruzione della sovranità, molto prima della politica democratica, quando i re, ben lungi dal comandare assolutamente, dovevano misurarsi con altri poteri, assai poco remissivi. Dovevano cioè venire a patti, senza poter imporre una soggezione assoluta. Fu il caso della Magna ChartaLibertatum, concessa da Giovanni Senzaterra. Molti la ricordano come il primo riconoscimento dei diritti dei cittadini, ma di fronte al re non stavano affatto cittadini, bensì i baroni del regno d’Inghilterra. Tim Cook, Bill Gates e gli altri signori della Rete come i baroni del terzo millennio, dunque? In un certo senso sì, il paragone non è così strampalato. Perché, certo, la Apple difende la libertà personale dei suoi clienti, ma per l’appunto, si tratta di «suoi clienti».Non siamo noi a difenderci dalle incursioni dell’Fbi. Ma è un’azienda, il cui potere non è contenuto entro i confini dello Stato nazionale e che quindi è sempre più difficile circoscrivere – territorialmente e giuridicamente – a ergersi, come i baroni inglesi nella brughiera di Runnymede, a difensori della nostra libertà. Ciò che peraltro i maghi di Cupertino (i tecnici di oggi sono i maghi di ieri) non intendono cedere all’Fbi, non sono i dati privati del killer di San Bernardino, ma la chiave che consentirebbe all’agenzia federale l’accesso illimitato all’utenza Apple. Un po’ come cedere le chiavi del proprio castello. La Apple difende cioè la propria esclusiva, un proprio privilegio. La nostra libertà è in gioco solo indirettamente, grazie allo scudo che non noi ma il nostro cavaliere senza macchia e senza paura oppone al sovrano. Il che però vuol dire che abbiamo la nostra libertà solo nell’ambito del vassallaggio a cui la Apple ci costringe. Siamo divenuti vassalli del sistema Apple, da che eravamo cittadini dello Stato.Istintivamente facciamo il tifo per la Mela di Cook, perché è la Apple che ci mette tra le mani oggetti così accattivanti come gli iPhone e gli iPad, mentre quelli dell’Fbi ci sembrano cattivi e portano le pistole. Ma attenzione: non è che senza volerlo ci stiamo infeudando a poteri assai meno democratici di quelli che abbiamo conosciuti finora, finendo così dalla padella nella brace?

(Il Mattino, 18 febbraio 2016)

Le adozioni gay sono un diritto? Dialogo tra gli opposti perché

lucca

Massimo Adinolfi: Caro Direttore, mentre Le scrivo non so ancora se e quale testo sulle unioni civili il Parlamento approverà. Le dico però la mia sul punto più controverso, la stepchild adoption, mettendo da parte le esigenze politiche e parlamentari di mediazione che mi sforzo comunque di comprendere (solo, però, fino a un certo punto). Metto da parte pure, nei limiti del possibile, il giuridichese e formulo la questione così: non consentire a una coppia omosessuale di avere dei bambini è una limitazione della loro libertà. La libertà può certo essere limitata, e talvolta deve pur esserlo, ma vi deve essere qualcosa più grande dell’esercizio di quella libertà, per farlo. Qual è il bene più grande? Io ne trovo uno solo: la salute del bambino. La salute nel senso più ampio: come benessere e felicità e crescita equilibrata del minore. Ma non saprei proprio dove siano i fondamenti teorici, filosofici o scientifici per sostenere che la salute del bambino allevato da una coppia omosessuale sia in qualche misura compromessa, mentre i casi empirici pare attestino il contrario. D’altra parte, l’adozione del figlio del coniuge, con il consenso del genitore biologico, c’è già: come mai la si vuol fermare oggi?

 

Alessandro Barbano: Caro Professore, condivido l’approccio pragmatico con cui mi invita a questa delicata discussione e provo a risponderle nello stesso modo. Per sostenere che lo sviluppo personale e affettivo di un bambino non è compromesso dal fatto di essere stato allevato da una coppia omosessuale lei adduce “casi empirici” che – sempre lei sostiene – “pare attestino il contrario”. Apprezzo la prudenza implicita nell’uso della locuzione “pare”, ma le chiedo ugualmente di quali casi empirici lei parla. È a conoscenza di un rapporto scientifico redatto da puericultori, pedagoghi, psicologi, medici, per conto di un ministero o di un’organizzazione educativa o scientifica indipendente e di grande autorevolezza, che abbia studiato il percorso affettivo e lo sviluppo della personalità di bambini adottati da coppie gay comparandolo con quello di un campione di riferimento tratto dalla cosiddetta famiglia tradizionale? Se ne conosce uno, che non sia prodotto dalle stesse organizzazioni che promuovono la battaglia per i diritti, me lo indichi per piacere. Che io sappia, ne esiste uno condotto nel 2012 da Mark Regnerus, professore di sociologia presso l’Università di Austin, uno studioso che pure si era sempre espresso a favore dei diritti di gay e lesbiche. Analizza 15 mila casi e intervista 3 mila persone, tutte comprese tra i 18 e i 39 anni, per giungere alla conclusione che quanti sono cresciuti in famiglie omosessuali sono nettamente più incerti, più instabili e, nell’esito delle loro personali realizzazioni, più svantaggiati dei loro coetanei cresciuti in famiglie cosiddette normali. Le confesso di non prendere per oro colato questo studio, condotto in una società molto diversa da quella alla quale lei e io apparteniamo e duramente attaccato dalle potenti lobby omosessuali americane. Mi chiedo però come faccia un Parlamento a legiferare nell’interesse dei minori su questioni così delicate che li riguardino, prescindendo da un’indagine conoscitiva scrupolosa di un’Autorità nazionale. E mi rispondo così: al contrario di quanto da lei sostenuto, la salute del minore, nel senso che lei intende, non ha alcun ruolo in questa battaglia. Poiché l’unico benessere di cui qui si tratta è quello degli aspiranti genitori. Lascio a lei valutare se questo è un approccio accettabile o piuttosto aberrante.

Quanto all’adozione del figlio del coniuge, che come lei giustamente ricorda è già prevista dalla legge, non le sarà sfuggito che riguarda il matrimonio. La prego di chiarirmi allora un equivoco, sotteso a questa discussione: stiamo parlando di Unioni civili o di matrimoni tra gay? Che io sappia, questa seconda ipotesi non sarebbe oggetto del disegno di legge Cirinnà, almeno a parole. Oppure sbaglio?

 

M.A.: Caro Direttore, potrei citarLe l’Associazione Italiana di Psicologia, o quella dei pediatri americani, o l’indagine recentissima di Simon Crouch (Australia) apparsa su Public Health lo scorso anno: non credo che renderemmo un buon servizio alla scienza, e ai lettori, se considerassimo questi e tanti altri studi ispirati solo da simpatia per l’omogenitorialità. Non è chiaro nemmeno perché allora non dovrei supporre che il lavoro che Lei cita non manifesti un pregiudizio di segno opposto. Lo stesso cardinal Bagnasco mi pare parli, giustamente, di più profonde questioni antropologiche, non di aspetti psicologici o sociologici. Se poi Lei concorda nel ritenere che escludere l’adozione per le coppie omosessuali sia una limitazione della libertà, posso comprendere l’invito al legislatore italiano perché consideri peculiarità storiche o culturali del nostro Paese, ma non certo far discendere dal contesto sociale una compressione dei diritti. Non diversamente, si è ragionato in passato, in Italia e non solo, a proposito del voto alle donne: non mi metterei, pertanto, su quella via.

Voglio spendere una parola anche sul mio riferimento ai casi empirici. Mi sono espresso con prudenza, è vero, ma con decisione metto qui un punto di metodo: in una società liberale, tocca a chi intende vietare dimostrare che un certo bene sarebbe danneggiato, in assenza del divieto, e che il divieto non comporta una discriminazione. Queste dimostrazioni, che io sappia, non ci sono.

C’è invece la preoccupazione del Cardinal Bagnasco (dico così per far prima): la capisco e sono pronto a discuterne.

Intanto però chiarisco l’equivoco. In Parlamento si parla di unioni civili. È il frutto di una mediazione, di vincoli costituzionali e rapporti politici. Ma dal fatto che il testo sarà chiamato a normare una vita in comune distinta dalla vita familiare non segue che non possa prevedere l’adozione. Se qualcosa segue, è se mai il sospetto che le (comprensibili) paure su utero in affitto e maternità surrogata, sollevate per vietare l’adozione, siano ingigantite un po’ strumentalmente, visto che la stepchild adoption c’è già: simili pratiche non sono infatti prerogativa delle coppie gay.

 

A.B.: Caro Professore, non escludo che la ricerca da me citata sia inficiata da un pregiudizio, rilevo solo che è l’unica compiuta su una platea di 15mila casi che valuti, non il parere dei genitori adottanti o degli operatori impegnati a sostegno di queste famiglie, come la maggior parte delle ricerche da lei citate, ma l’esito, comparato con un campione di riferimento di figli di coppie etero, dello sviluppo affettivo e, soprattutto, della realizzazione individuale dei figli di coppie gay desunta da alcuni parametri per così dire oggettivi (come il lavoro, il reddito, la stabilità familiare, ecc.). Purtroppo questa ricerca conferma ciò che – e qui mi consenta di utilizzare le sue parole – “empiricamente pare”: e cioè la maggiore volatilità e instabilità della coppia gay rispetto a quella etero. E ciononostante riconosco che questi risultati possano in parte essere fuorvianti. Perché sono convinto che a condizionare il destino individuale di molti figli di coppie gay contribuisca il clima di discriminazione e di intolleranza in cui la loro adolescenza, e soprattutto quella dei loro genitori, è stata vissuta. Tuttavia, se restiamo su un piano puramente pragmatico, e cioè l’interesse dei minori, non mi pare che esistano le condizioni e le garanzie per aprire a un’istituzione così delicata come quella dell’adozione. Anche perché, caro professore, si fa presto a dire “famiglie gay”. Nel cartello dei soggetti che si batte per diritti delle Unioni civili ci sono gruppi che espressamente rivendicano l’ambiguità come l’essenza del loro orientamento sessuale e della loro stessa identità. Spero che lei mi creda se le dico che nutro nei confronti di costoro il massimo rispetto, tuttavia le chiedo: un minore che fosse affidato alla cura e all’educazione di una “famiglia” transgender dovrebbe ritenersi tutelato dallo Stato che ne ha deciso l’affidamento e l’adozione?

Vengo poi al secondo punto e cioè la giustificazione dei limiti che lo Stato pone alle libertà individuali, e tralascio il paragone da lei portato con il precedente del suffragio femminile, poiché sono certo che non le sfuggirà, così come non è sfuggita alla stessa Carta costituzionale,  l’enorme distanza tra i diritti politici e quelli personalissimi che coinvolgono la vita e lo sviluppo della personalità dei minori e di cui qui discutiamo. Lei sostiene che in un ordinamento liberale tutto ciò che non è espressamente vietato è lecito, ma qui non è in discussione un divieto, bensì se mai l’estensione di un diritto e di una responsabilità che lo Stato riconosce da sempre all’istituzione familiare. E qui mi pare che nel suo ragionamento drammaticamente sfugga la consapevolezza che in democrazia il contenuto della libertà non prescinde dal limite. È solo attraverso questa travagliata dialettica tra la libertà, come espressione delle possibilità dell’uomo, e il senso del limite che nascono i diritti. Il senso del limite qui coincide con la responsabilità sociale dei genitori nei confronti dei figli. Il fatto che la Corte costituzionale riconosca la genitorialità un diritto incoercibile dell’individuo non esclude che lo Stato imponga limiti e pretenda garanzie per il soggetto destinatario dell’adozione. Questa garanzia si chiama famiglia, ed è tanto più robusta quanto più rappresenta un’istituzione laica fondata su sedimenti di civiltà. Lei non lo dice espressamente, ma mi consenta di intuire che volentieri chiamerebbe famiglia a tutti gli effetti quella tra due omosessuali. Mi consenta di dirle che sarebbe più coerente al fine di sostenere la legittimità delle adozioni gay.

 

M.A.: Caro Direttore, non ho dubbi: sarebbe più coerente parlare di famiglie gay e reclamare l’adozione. Ma non si tratta di incoerenza del mio parlare, bensì della necessaria opera di mediazione, come ho già scritto, dati i vincoli costituzionali e i rapporti di forza in Parlamento. Ma pensare che il significato delle parole non muti, o che non mutino le cose stesse, per via del dettato costituzionale, può funzionare, forse, sul piano della dialettica politica e della norma giuridica, ma è perlomeno ingenuo sul piano teoretico.

Ingenuità che avverto in chi parla della famiglia come di un dato naturale, quando persino cose come l’attaccamento materno ricevono un supplemento di significato decisivo dalla loro connotazione storico-culturale.

Sui risultati della ricerca che di nuovo mi adduce, mi permetta però di essere tranchant, invece di fare qui la gara a chi ha i dati meglio fondati: lei crede veramente che il Parlamento italiano si appresti a votare contro evidenza empirica e risultanze scientifiche? Un Parlamento ottusamente geocentrico in tempi copernicani? Mi permetta di pensare l’esatto contrario (e di raggelare, quando mi informa che tra i parametri di valutazione “oggettivi” il suo studio includeva il reddito: ma questo, dirò così, è un’altra storia).

Mi pare più importante agghiacciare, però, per un altro motivo che si insinua nel suo ragionamento, e che so essere diffuso. Il contesto è discriminatorio, lei dice, e invece di combattere la discriminazione pretende di convincermi che ci si debba ad essa adeguare. Ma no! Quel contesto lo si può cambiare – e per rispetto dei diritti degli omosessuali lo si deve. Si possono poi introdurre tutte le tutele del mondo perché la cura e l’educazione del minore sia garantita, anche in una “famiglia” omosessuale, proprio come lo è in una famiglia eterosessuale.
Mi sorprende però che lei rilutti a scendere sul terreno che dovrebbe trovare più congeniale, quello propriamente antropologico. A mio parere è lì, in strati profondi della cultura e della psiche umana, che la legge, o ciò che la legge consente, smuove le cose. È nell’immaginario, nella rappresentazione di sé dell’uomo e della donna, e, certo, nel modo in cui si definiscono ambiti di vita e di relazione, che qualcosa accade. Dovremmo discutere dunque di questo, dei rapporti fra natura e cultura: cosa che peraltro non si fa con gli studi scientifici da lei addotti. Il concetto di natura che qui è in gioco tutto è, infatti, meno che un concetto scientifico. Eppure trovo che si parli di naturalità di questo e di quello con disinvoltura sorprendente. Ci sono cose naturali che non hanno più alcun valore – le unghie, ad esempio, che gli ungulati apprezzano molto ma io non particolarmente – e cose culturali che hanno un valore straordinario, cioè tutta o quasi l’opera dell’uomo, compresa ovviamente la religione. Siamo sicuri che sia la natura – quale natura? – a consentirci di tracciare oggi le necessarie linee di demarcazione?

 

A.B.: Caro Professore, parto dalla sua osservazione finale e non posso che convenire con essa. Tuttavia, io fin qui non ho mai parlato di natura, né in maniera esplicita né indiretta. Ho definito piuttosto la famiglia un sedimento della civiltà, volendo intendere esattamente quella sintesi dialettica che tra natura e cultura si ridefinisce in un processo lungo quasi tremila anni, cioè dal tempo in cui – lei me lo insegna – nacque la filosofia greca. La solidità e l’unicità della famiglia è proprio un fatto che si compie nella storia e nella cultura: è questa la ragione del suo essere istituzione in senso sostanziale e del suo non essere duplicabile attraverso un’opera di ingegno o di fantasia da parte di una maggioranza parlamentare. Se la mia coscienza grida all’orrore dell’utero in affitto, non è in nome del diritto di natura e meno che mai del confessionalismo religioso. Ma della dignità della persona. La step child adoption, nelle forme previste dal decreto Cirinnà, porta la gravissima responsabilità morale di esporre la donna a una schiavitù e a una mercificazione del proprio corpo simile a quella da cui tanto la battaglia per l’aborto quanto la lotta alla prostituzione si sono adoperate per sottrarla. Mi consenta di chiederle se davvero lei è convinto che il pericolo della maternità surrogata sia ingigantito strumentalmente. Se non conosce la subalternità e la povertà che inducono donne povere e disagiate di ogni latitudine a cedere il proprio ventre per un prezzo direttamente proporzionale alla ricchezza pro-capite del paese di appartenenza, sottoscrivendo un contratto che impone loro di abortire qualora i genitori committenti cambino idea in corso d’opera. Oppure crede anche lei, come qualche femminista italiana convertita all’ideologia del desiderio e del consumo (non tutte, per fortuna), che la firma sul contratto con cui le donne cedono il proprio utero, come fosse un garage, sia una garanzia di libertà e di autodeterminazione?

Ma c’è un secondo punto del suo ragionamento che merita una risposta. Lei mi accusa di riconoscere l’esistenza della discriminazione e, invece di combatterla, di pretendere di convincerla ad adeguarsi ad essa. Temo che questo punto di vista si fondi su un errore. Combattere la discriminazione significa spegnere l’intolleranza verso il diritto di ciascun omosessuale di vivere e dichiarare il proprio orientamento sessuale, non significa riconoscere e promuovere diritti e doveri esclusivi che la società assegna all’istituzione familiare. Se così non fosse, devo pensare che lei mi consideri intollerante per il solo fatto di essere contrario al matrimonio tra gay. Mi piace pensare che non sia così.

M.A.: Caro Direttore, forse siamo d’accordo su un punto: non può essere il mercato o la trattativa privata a definire i lineamenti di una nuova genitorialità. Vedo anch’io i rischi di mercificazione che lei denuncia e penso che sia legittimo adottare strumenti di tutela. Se ho parlato di un pericolo ingigantito strumentalmente è perché distinguo il riconoscimento di un diritto dai mezzi con i quali esso dovesse essere ottenuto. Si può usar male o bene di un diritto, ma la possibilità che se ne usi male non è per mio conto sufficiente a negarlo del tutto. L’esclusività di diritti e doveri della famiglia tradizionale è però il punto in discussione: non posso assumerlo come un punto di arrivo, solo perché è il punto al quale siamo (e in verità non siamo già più, per quanto essa è cambiata e sta cambiando per conto suo). Mi convince la sua proposta di descrivere la famiglia come un sedimento storico profondo, «sintesi di natura e cultura». Come tutto ciò che è storico, però, cambia. Non sono così disinvolto dal considerare il cambiamento come un bene di per sé. Ma, allo stesso modo, non ho più ragioni, né filosofiche né scientifiche, per considerare la permanenza di una tradizione di per sé un valore. Sull’una e sull’altra cosa noi uomini siamo insomma condannati a ragionare, e a decidere.  Ma poiché sono d’accordo con lei nel farlo in nome della dignità della persona, non posso non chiedermi quale dignità venga calpestata dal riconoscere il diritto a una coppia omosessuale di avere dei bambini. Lei mi chiede se negarlo significa essere intollerante. Temo di inciampare sulle parole, e di erigere muri mentre cerchiamo un terreno comune di dialogo. Così le propongo uno scambio cordiale: io non giudico lei intollerante, lei non giudichi me permissivo (oppure, sul piano storico-filosofico, nichilista). Con il metro della moderna coscienza giuridica e morale, dovrei giudicare intolleranti pure, faccio per dire, Platone e Sant’Agostino: li capisco più a fondo, così sentenziando? Non credo. Preferisco perciò fare uno sforzo di comprensione in più, e chiederle altrettanto.

A.B.: Caro Professore, non ho mai preteso di giudicarla, e con questo intendo dire che rispetto – pur non condividendole – le posizioni di chi come lei difende l’estensione dei diritti civili senza se e senza ma. Però la invito in chiusura di questa piacevole conversazione a considerare l’opportunità di una sintesi, che fin qui la politica e talvolta le stesse istituzioni – penso al presidente della Camera Boldrini – non hanno cercato con autentica convinzione. Pochi giorni fa le piazze italiane sono state invase da un milione di persone che si battevano per il disegno di legge Cirinnà così com’è concepito, cioè con l’istituzione di un similmatrimonio con annessi i diritti di adozione per le coppie gay. Sabato le stesse piazze torneranno a riempirsi su iniziativa di chi la stessa legge abiura in toto. Pensiamo davvero di poter concepire due società che vivono l’una a fianco all’altra con valori opposti e con regole che riguardano le forme primarie e decisive delle relazioni umane imposte grazie all’esiguo numero di voti di una maggioranza parlamentare? Crediamo davvero di poter risolvere questo lacerante conflitto, che attraversa in due il Paese, con un atto di forza politico? Oppure c’è ancora spazio per cercare uno spazio comune capace di far germogliare i punti di contatto e il dialogo tra due sponde sociali evitando che si trasformino in due enclavi? Mi permetta di consegnarle, salutandola, questa domanda.

(Il Mattino, 28 gennaio 2016)

 

 

 

 

Se le aule diventano terra di nessuno

maxresdefault

Il sangue nel lavandino e sul pavimento. Gli studenti inorriditi. I professori sconvolti. Non è ancora chiaro se si è trattato di un litigio finito male, o se – com’è più probabile – l’aggressore avesse già in animo di colpire la vittima, ancor prima di affrontarlo. Certo, aveva il coltello con sé. Certo, ha inferto scientemente i colpi al collo e all’addome, per poi cercare di disfarsi dell’arma. Una sequenza assai poco casuale. Ma premeditata o no che fosse,  l’aggressione avvenuta nell’istituto salernitano Da Vinci-Genovesi, nella zona alta del centro cittadino, desta parecchio allarme. Il dirigente scolastico ha subito affermato che l’episodio sarebbe potuto avvenire anche in strada: non toccherebbe dunque alla scuola portarne anzitutto la croce. Ed è vero, se con ciò si vuol dire che non si è trattato di bullismo, e neppure – con tutta probabilità – di ragioni sentimentali o passionali, tipiche dell’età. Di mezzo, insomma, non ci sono angherie o gelosie. C’era però una rivalità, che è sicuramente cresciuta anche nelle aule e nei corridoi della scuola.

Il punto, però, non è quello di appurare se fra i motivi, leciti oppure illeciti, di uno scontro così violento, vi fossero o no dinamiche legate alla vita scolastica. Può darsi, come può darsi di no. Gli inquirenti se ne occuperanno. In fondo, entrambi i ragazzi portano con loro un vissuto complicato, difficile, legato a contesti familiari e sociali in cui persino un accoltellamento può non rappresentare un’evenienza del tutto improbabile. E su Facebook un (presunto) cugino della vittima ha già minacciato di restituire le coltellate alla «banda di r.» che ha agito ieri mattina.

Il punto, però, è la soglia. Se ancora vi sia una soglia da varcare, quando un ragazzo, tutti i ragazzi in età dell’obbligo entrano in una scuola. Una soglia invisibile, che forse si vedrebbe ancor meno se all’ingresso vi fossero tornelli e metal detector, ma che tuttavia distingue e valorizza lo spazio dell’istituzione pubblica dal mondo di fuori. Dentro si fa scuola: si insegna e si impara. Dentro vi sono maestri e allievi, un sapere viene trasmesso e un apprendimento ha luogo. Dentro accade qualcosa come una formazione, e si costruisce una socialità diversa da quella che si vive in famiglia o tra gli amici. Una socialità fondata non su un affrontamento a due, come fra amici (o fra rivali), ma su un rapporto triadico, nella dimensione cioè del pubblico, dell’istituzione e della regola.

Se quella soglia non v’è, la scuola non esiste più. Se un accoltellamento può avvenire indifferentemente dentro un’aula o per strada, allora non c’è più nessuna differenza, nessuno spazio qualificato in forza delle funzioni che vi si esercitano e dei ruoli che vi si assumono. Se la soglia non è più avvertita, allora in aula non vi sono più studenti e dietro le cattedre non vi sono più docenti.

Non è ciò che intende dire il dirigente, quando onestamente afferma che il ferimento poteva avvenire anche fuori: al termine dell’orario scolastico, per esempio, un minuto dopo essere usciti dall’istituto. Tuttavia quel minuto è essenziale: quel minuto fa la differenza, ha il significato di un riconoscimento – di un rispetto, si dovrebbe dire – che evidentemente è perduto, se il coltello può essere brandito ovunque.

Viviamo in una regione che vanta – si fa per dire – i più alti indici di dispersione scolastica. Spesso le scuole sono avamposti in territorio nemico (anche se non il caso del Genovesi di Salerno). Il Presidente del Consiglio ha fatto suo il mantra di Tony Blair, per dare il significato della recentissima riforma scolastica: «education, education, education». Ogni sforzo è certo apprezzabile e i primi a compierli sono i docenti che entrano in aula ogni giorno. Sono davvero gli eroi del nostro tempo, per quanto poco venga riconosciuta la centralità della loro funzione. Portano oneri e responsabilità enormi, e invece di onori si vedono piovere sul capo rogne di ogni tipo: figuratevi con quale tranquillità potranno tenere lezione d’ora in poi, in quell’istituto. Il fatto è che da lungo tempo la scuola non è più un «hortus conclusus», un luogo protetto o un porto sicuro. È giusto, in verità, che sia aperta ai cambiamenti della società, lo è meno se così aprendosi perde ogni tratto distintivo: a forza di inseguire quello che accade fuori, nessuno si accorge più di trovarsi dentro. E tutto quello che accade fuori può ormai succedere anche tra i banchi. Chi ci guadagna, se davvero va a finire così? Non la scuola, ma nemmeno il resto della società.

(Il Mattino, 16 febbraio 2016)

Einstein, Socci e la relatività delle teorie

Kand

Funziona così nelle grandi testate, figuriamoci nelle piccole o piccolissime. Che quando c’è la notizia si prova, se ne vale la pena, a commentarla. Ma passa un giorno, ne passano due: addio commento. Vale anche per Left Wing e la rilevazione delle onde gravitazionali: notizia della settimana scorsa, perché tornarci? All’università immagino e mi auguro che se ne parli ancora a lungo, ma sui giornali sono già uscite di scena.

A meno che. A meno che tu non t’imbatta, con un giorno di ritardo, in un’occasione propizia: nel commento di Antonio Socci, su Libero.

(continua su Left Wing)

Il Festival dei record e del vuoto pneumatico

Immagine

È dura la vita per quelli della mutazione antropologica. Quando Sanremo ottiene lo share più alto degli ultimi undici anni e tutte le serate, una dopo l’altra, superano in scioltezza i dieci milioni di telespettatori, c’è poco da fare: quelli della mutazione antropologica, che da Pasolini in poi denunciano il «genocidio culturale» a cui avremmo assistito, non li ascolta più nessuno. Le lucciole scomparvero per colpa dei tubi catodici dei televisori, sul finire degli anni Sessanta: poi è arrivato tutto il resto. Fino al trionfo di luci della scenografia sanremese di quest’anno, dove era obiettivamente difficile trovare, anzi anche solo cercarvi  una lucciola.

Ma se non possiamo permetterci una critica così radicale come quella di Pasolini alla società dei consumi – critica radicale e fondamentalmente errata: perché rassegnata, perché disperata, perché attenta solo a quel che soccombe e non anche a quel che nella società resiste, o rinasce – possiamo però insinuare il dubbio che altri ragionamenti si possono comunque fare, oltre a raccontare il successo. Non apocalittici, ma nemmeno del tutto integrati.

Brignano, ad esempio. Certo, non si può riassumere nelle sue battute grevi il senso dell’operazione Sanremo della Rai: per un attore che pesca nel repertorio più trito della comicità tradizionale, c’è pur sempre una Virginia Raffaele che sorprende tutti per bravura e intelligenza. Ma resta da capire se vi sia un’altra spiegazione – diversa da quella di Pasolini: la scomparsa delle lucciole, la mutazione antropologica, il genocidio culturale, la sparizione dell’umanità dell’uomo – nelle risate che accolgono la sua descrizione del rapporto uomo/donna: «Te l’appizzo e vado via. Te l’appoggio e nemmeno te ne accorgi». Ride il pubblico, ride Carlo Conti, ridono un po’ tutti: e come si fa a non ridere? Ma se anche quelle risate fossero irresistibili – e francamente non mi pare proprio – rimane da chiedersi che cosa significhino.

La risposta migliore è: nulla. Non significano nulla. Uno vuol ridere senza farsi troppe domande: è sempre stata questa la funzione dello spettacolo, del varietà, dell’intrattenimento. Perciò dargli chissà quale peso sarebbe quasi come se un tempo qualcuno si fosse tolto lo sfizio di fare la fenomenologia – che so? – di Mike Buongiorno.

Ora però si dà il caso che la fenomenologia di Mike Buongiorno – il conduttore televisivo più popolare, che ha rischiato persino di essere nominato senatore a vita – qualcuno (Umberto Eco) l’ha fatta. Ma oggi: oggi chi fa la fenomenologia di Carlo Conti? O chi passa al setaccio la comicità dei comici à la Brignano? Chi osa, in un soprassalto di scuola francofortese, prendersela con l’industria culturale? Se qualcuno lo facesse, si concederebbe una bella capriola dialettica e la metterebbe forse così: proprio il fatto che quelle risate non significano nulla è il problema. O perlomeno dovrebbe essere oggetto di analisi. Che cosa vuol dire infatti che il principale spettacolo della più grande impresa culturale del Paese può veicolare senza difficoltà roba che non ha la pretesa di dir nulla?

Gli Stadio, per dirne un’altra. Hanno vinto, anzi stravinto, visto che è andata a loro pure la serata delle cover, complice la mozione degli affetti che li legava a Lucio Dalla e alla sua sera dei miracoli. Gli Stadio al Festival c’erano già stati, otto anni fa. Ma per vincere hanno dovuto aspettare il 2016. Cosa però propriamente hanno dovuto aspettare? Probabilmente solo di invecchiare. Come del resto è successo a Vecchioni, o ai Pooh. Il Festival di Sanremo in effetti è una specie di Paradiso: dove i rapper si ingentiliscono, le vecchie glorie resuscitano, e il lupo dimora a fianco dell’agnello. Così gli Stadio in crisi di paternità hanno trionfato, figurandosi un genitore che sembra saperla lunga, ma in realtà non ha un bel nulla da insegnare alla figlia.

Di nuovo: il nulla. E questa idea che nessuno abbia da insegnare alcunché. Non nei testi delle canzoni (ma questa è storia vecchia), ma neppure negli inserti comici, o tra i superospiti. Persino Renato Zero, che con il passar degli anni ha ritenuto sempre più indispensabile rifilare un suo sermoncino, è parso che volesse raccontare solo quello che ha a mala pena imparato lui, non avendo più molto altro da dire agli altri. Ed è stato bello vedere canzoni che un tempo volevano essere trasgressive finire centrifugate in un medley banale e spensierato.

Le battute sulla politica, infine, quelle che dopo tutto l’applauso lo strappano sempre? Non pervenute, o quasi.

Ora, la Rai fa il suo mestiere. Si affida a ottimi professionisti, e mette in onda cinque serate cinque, una dietro l’altra, in cui tutto fila liscio. Tempi giusti, momenti coinvolgenti come l’esibizione del pianista Ezio Bosso (l’unica che abbia osato dire la sua, sulla musica e sulla vita), ed altri di gran richiamo, come Roberto Bolle in versione pop.

Ma l’impressione che i risultati siano ottenuti con una scelta culturalmente rinunciataria, per non dire regressiva, rimane. Si dirà: per fortuna sono finiti i tempi in cui si rovinavano due o tre ore di sano divertimento pur di infilarci la morale, o l’ideologia. Ed è vero. Ma scansare tutti i conflitti, tutte le asperità, tutte le contraddizioni: possibile che sia l’unica strada? Sicuramente la Rai ha la sua mission aziendale: ma qual è? Forse Sanremo non c’entra niente. Sanremo è come quei film commerciali, che fanno grandi incassi e permettono a una casa cinematografica di sperimentare, di cercare nuove strade, nuovi talenti. Se è così: siamo a febbraio. Attendiamo fiduciosi il prosieguo della stagione televisiva.

(Il Mattino, 15 febbraio 2016)

Se si cerca un assessore come un’auto usata

Immagine.jpg

A.A.A. Assessore cercasi. Come si vende un auto usata, o si cerca un nuovo amore. A Quarto il sindaco Rosa Capuozzo si è messa, tramite avviso pubblico, alla ricerca di un ingegnere civile che faccia l’assessore ai Lavori Pubblici.

Il Movimento Cinque Stelle ha scaricato il sindaco. Lo psicodramma è passato attraverso la fase della riflessione, poi dello sconforto e delle dimissioni, infine – colpo di scena! – del ritiro delle dimissioni sul filo di lana dell’ultimo giorno utile.

E così Rosa Capuozzo non solo è tornata ad amministrare la città, ma ha ripreso a farlo con il solito piglio grillino. Nell’annuncio pubblicato dal Sindaco c’è, infatti, tutto il credo del Movimento in una mirabile sintesi.

Primo punto: l’Assessore ai Lavori Pubblici non può non essere, per il sindaco, un ingegnere civile. Chi, più di un ingegnere, può occuparsi di lavori pubblici? In base alla stessa logica, la delega alla sicurezza e alla legalità dovrebbe andare a un poliziotto o a un carabiniere; quella allo sport e alle politiche giovanili a un giovanotto fresco reduce da una corsa campestre. E così via. L’idea che per certi incarichi si debba avere anche un profilo politico, e che le elezioni si fanno per quello, altrimenti basterebbe scorrere gli albi degli ordini professionali, evidentemente non appartiene alla mentalità a cinque stelle.

Secondo punto: il Sindaco nomina l’assessore. Si tratta di un rapporto fiduciario. Ma nel Movimento si diffida di simili rapporti. Se scelgo una persona che conosco, il sospetto è che la scelgo non perché è brava, ma perché la conosco. Quindi, meglio un emerito sconosciuto. Competente: lo scelgo infatti in base al curriculum. Ma di cui ignoro le idee, la visione, tutto. Pare evidente che la condizione ideale per i Cinque Stelle sarebbe il completo anonimato.

Ieri Repubblica ha domandato a Roberto Fico, a cui la notorietà sta evidentemente nuocendo,se la vicenda di Quarto – come quella di Gela: l’ultimo sindaco sfiduciato dallo Staff di Grillo – non dimostri che i candidati sindaci vengono scelti dal Movimento senza che li si conosca bene. La vera domanda sarebbe stata se i grillini non si facciano un punto d’onore di scegliere donne e uomini che non conoscono affatto, che non sanno nemmeno da dove vengono, chi sono, cosa fanno.

E infatti, ecco l’ultima pillola dispensata dall’avviso pubblico del sindaco Capuozzo: l’assessore ai lavori pubblici di Quarto non deve essere di Quarto. Non deve avere la residenza a Quarto. Poi l’avviso è stato corretto, perché qualcuno deve aver fatto presente al sindaco che era, francamente, un po’ troppo. Ma l’idea è la stessa: se è di Quarto, avrà le sue conoscenze e i suoi interessi. Il che lo rende automaticamente sospettabile di alto tradimento. Meglio, molto meglio se a Quarto si mandasse l’assessore ai lavori pubblici di Gela, e a Gela quello di Quarto. E’ un’idea: siccome i grillini li scelgono tutti competenti, le città da loro amministrate se li potrebbero bellamente scambiare. Quelli di Livorno andare a Parma, quelli di Parma andare a Livorno, e così il disinteresse è assicurato, la moralità salva.

In realtà, l’ideologia sottostante è la stessa: la politica è il male. Ovunque si costruiscono rapporti politici, lì domina necessariamente il vizio e la corruzione. Fico lo ha detto con ancor più chiarezza quando ha spiegato ieri che loro non candidano “nomi forti”: quindi a Roma niente Di Battista e a Napoli niente Di Maio. Non ha chiarito, per la verità, perché al videoforum di Repubblica sia andato proprio lui, che il nome forte se lo sta facendo (sia pure con qualche ammaccatura), ma insomma è lo stessa solfa: loro non candidano politici, ma cittadini. Se uno vale uno, i cittadini in questione potrebbero pure non avercelo un nome un cognome e un volto, tanto contano le idee, il programma, i principi del movimento su cui indefessamente vigila lo Staff di Grillo.

Risultato: negli enti locali una classe dirigente credibile e affidabile non c’è e non ci può essere. Non può formarsi: è negata in principio. In compenso c’è Grillo, c’è Casaleggio, e ci sono i membri del Direttorio: loro sono sempre più conosciuti, e sempre più cresce, dentro il Movimento, il loro capitale politico.

(Il Mattino, 13 febbraio 2016)

Filosofia della vita quotidiana

Vita quotidiana

 

Qual genere di sapere è la filosofia? Domanda che l’accompagna da che il mondo dura. Il che non vuol dire che non abbia una risposta. Anzi: ne ha due. Se non siamo troppo moderni, e non pretendiamo di caratterizzare il sapere esclusivamente in base al metodo, bensì muovendo dai suoi oggetti, ci imbattiamo infatti in due grandi stili di risposta. Secondo il primo, la filosofia si occupa di oggetti particolarmente eminenti, fuori della portata del sapere scientifico e del senso comune: Dio, oppure il nulla, o l’inizio di tutte le cose. Per l’altro, la filosofia si occupa invece della domanda la più banale di tutte: «che cos’è una cosa?». Il che non toglie che i filosofi non abbiano provato a collegare l’una domanda all’altra, di andare da quest’ultima su su fino alla prima, su Dio o sul tutto.

Nell’ultimo paio di secoli la filosofia ha compiuto invece il percorso opposto: giù giù verso la fertile bassura dell’esperienza, come la chiamava Kant, o verso un’ontologia della vita fattizia, come invece la chiamava Heidegger, slargando il campo sino a includervi la dimensione ordinaria dell’esistenza. Anzi: pretendendo di impostare l’intera questione del senso dell’essere a partire da lì, dalla vita quotidiana.

A una fenomenologia della vita quotidiana è dedicato l’ultimo libro di Enrica Lisciani Petrini, studiosa del pensiero francese contemporanea molto attenta all’intersezione della filosofia con i linguaggi dell’arte e della musica. L’esplorazione del quotidiano è infatti condotta in questo libro, con l’aiuto delle più grandi esperienze del Novecento. Nelle sue pagine si incontrano Debussy e Kubrick, Proust e Schönberg, Klee e Bergman. Si ascolta il Wozzeck di Berg e si guarda una fotografia di Evans. Si legge la Psicopatologia di Freud e si assiste a una pièce di Brecht. Un sapiente incastro di esperienze e pratiche artistiche costruito fuori dai tradizionali steccati disciplinari e con grande libertà di mezzi concettuali. Il che non vuol dire che non formi un pensiero rigoroso del presente, organizzato intorno a una tesi di fondo: che sia la dimensione impersonale e anonima della vita quella che restituisce più verità alle nostre vite di quanta gliene prestino le pose soggettivistiche costruite intorno ai concetti di io, coscienza, persona. Il quotidiano sfugge, scriveva Blanchot, perché «è privo di soggetto». Resta forse da chiedersi, infine, quale sia, e se vi sia, non la forma estetica o filosofica, ma la forma politica che corrisponde a questa sparizione del soggetto, che domina tanta parte della vita e del pensiero contemporaneo.

Enrica Lisciani Petrini, Vita quotidiana. Dall’esperienza artistica al pensiero in atto, Bollati Boringhieri.

(Il Mattino, 14 febbraio 2016)

 

 

Quarto, la giravolta del sindaco

Acquisizione a schermo intero 10022016 204442.bmpLa storia dei 150.000 euro di multa per l’eletto che, violando le regole, procura un danno d’immagine al Movimento sembra uscita da una caricatura di Crozza. E invece è uscita dal codice di comportamento dei candidati a Cinque Stelle al Campidoglio. Difficile sapere, però, quando vi è entrata: prima o dopo il colpo di scena di Quarto, dove il sindaco Capuozzo ha ritirato le dimissioni decidendo di rimanere in sella con un’altra maggioranza, o semplicemente con chi ci sta? Forse la premiata ditta Grillo&Casaleggio deve aver pensato che, certo, se Rosa Capuozzo avesse dovuto sganciare un pacco di euro ci avrebbe pensato su mille volte di più, prima di contraddire il verbo grillino. Quindi è deciso: multe salatissime a chi disobbedisce, in vista di chissà quale altra pena – pecuniaria, fisica o spirituale – che metta ferrei vincoli là dove la Costituzione italiana non li prevede.

Per l’articolo 67 della nostra Carta, infatti, non c’è vincolo di mandato, e così, per dirla con le auree parole con le quali Beppe Grillo salutò l’inizio di questa legislatura, finisce che l’eletto fa «il c…che gli pare».

Ma quando queste idee hanno cominciato ad entrare in circolo? In realtà, dacché esistono i Parlamenti moderni e la democrazia rappresentativa. Non sorprenderà tuttavia scoprire che il più inflessibile propugnatore del vincolo di mandato è stato quel furente giacobino che rispose al nome di Maximilien de Robespierre. In testa (finché, almeno, la ebbe sulle spalle) Robespierre aveva un paio di idee fisse che si ritrovano pari pari nel nostrano Movimento a Cinque Stelle. La prima riguarda la rieleggibilità: per l’Incorruttibile (così era soprannominato), un mandato basta e avanza. Allo stesso modo, una delle prime battaglie di Grillo è stata quella relativa alla limitazione del numero dei mandati: due, non di più. Meno severità e rigore, ma stesso proposito: infragilire i processi politici e costituzionali, per decapitare (metaforicamente, ma non solo) la classe dirigente e proporne a furor di popolo il rinnovamento completo. L’altra idea meravigliosa, che produce gli stessi effetti, riguarda appunto il mandato imperativo: l’eletto deve essere ridotto a un semplice delegato, e non deve ricevere nessun affidamento di cui non sia chiamato a rispondere non già di fronte al corpo elettorale, ma dinanzi al Tribunale del popolo (nel caso di Robespierre) o allo Staff di Beppe Grillo (nel caso del recente regolamento romano).

Certo, i grillini hanno buon gioco nel fare il conto dei parlamentari che cambiano casacca. Effettivamente, moltiplicarne il numero per 150.000 farebbe un bel gruzzolo. Ma un simile ragionamento ha il torto di saltare a piè pari il problema, che riguarda non già la coerenza o la furfanteria personale, e neppure solo i costumi parlamentari nostrani ma, più in generale, la debolezza di partiti e culture politiche. Compresa quella grillina, qualunque essa sia, visto l’elevato numero di deputati e senatori che hanno lasciato il Movimento, nonostante il muro di carte bollate, codici e regolamenti costruito dal caro (nel senso di costoso) leader.

Altra cosa è la crisi del paradigma rappresentativo in sé e per sé, che regge le sorti della politica moderna da Thomas Hobbes in poi. Tema vasto, molto più vasto di meetup e streaming grillini (a proposito: che fine han fatto? Com’è che si è passato dalle dirette web ai gruppi chiusi sui social network?). Difficile però a dirsi come possa essere più democratico ricevere una lettera in cui un non meglio precisato «Staff» stabilisce chi è dentro e chi è fuori, oppure chi deve sganciare centinaia di migliaia di euro e chi no. La democrazia parlamentare senza vincoli di mandato ha molti difetti ma ha almeno un pregio: rafforza la posizione del parlamentare dinanzi al suo capo. È infatti il capo che annoda i vincoli, non il popolo. È il capo che giudica e manda (le lettere). Rispetto alla democrazia di rito grillino, la democrazia parlamentare senza vincoli di mandato è più difficile che si rovesci in autocrazia.

L’unico partito più o meno strutturato che c’è su piazza, il Pd, questa volta ha dunque ragione nel presentare in Parlamento una proposta di legge, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che risponde all’esigenza di dettare pratiche democratiche trasparenti all’interno dei partiti. Con tutti i suoi difetti, e nonostante la forte presa personale di Renzi sul partito, non si può dire dei democratici meno che mandino lettere per espellere o multare questo o quello in base all’arbitrio di uno solo (o del suo “Staff”). Se mai, al  Pd si deve chiedere di avere più coraggio, e mettere mano anche alla materia dei rapporti con le lobbies. Le quali, quando operano nell’oscurità, hanno una capacità di corruzione di gran lunga superiore a quella che possono esercitare quando esercitano alla luce del sole la loro pressione. Se la pressione, infatti è visibile, il cittadino avrà un elemento in più per giudicare il comportamento partitico o parlamentare. Sarà più chiaro chi vuole cosa, e per chi vota sarà maggiore l’onere di indicare le ragioni del proprio voto.

L’onere politico, intendo, non quello finanziario che Grillo&Casaleggio si propongono di addossare ai voltagabbana. Ma, a pensarci, che razza di consiglieri si propongono di selezionare, se considerano che i loro comportamenti possano essere imbrigliati con una multa?

(Il Mattino, 10 febbraio 2016)

La misura della verità

Acquisizione a schermo intero 09022016 205923.bmpChi vede il corpo di un ragazzo torturato e ucciso avverte non solo il dolore enorme e lo strazio, ma anche un’altra esigenza lancinante: vuole verità. Verità: costi quel che costi. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, che reca i segni delle violenze subite, le autorità italiane chiedono in queste ore che sia fatta piena luce sull’assassinio, e usano parole ferme e nette. Ma sanno anche quali profonde relazioni l’Occidente, e l’Italia in particolare, intrattiene con l’Egitto del generale Al-Sisi. Relazioni economiche, politiche, geostrategiche. Perciò è difficile sottrarsi alla domanda più scomoda, la più scabrosa: quanta verità siamo in grado di sopportare? Vogliamo davvero tutta la verità, e soltanto la verità? Non siamo disposti a scendere a patti con nessuno: non per  il petrolio egiziano né per la pace a Tripoli?

No, non siamo disposti. E non c’è motivo di avere dubbi delle parole di nessuno. Ma la verità non è solo affare di parole. La verità non è una pellicola adesiva trasparente che si attacca o si stacca con facilità dalle nostre proposizioni, come il retro delle figurine dall’album delicato dei nostri pensieri. No: è molto di più. La verità si conficca e penetra nella carne degli uomini, nella forma della società, nella vita delle istituzioni. La verità, come del resto l’errore.

Quanto era vero, allora, che con la primavera araba anche l’altra sponda del Mediterraneo avrebbe finalmente conosciuto la democrazia? Quanto abbiamo creduto e fatto nostra quella storia? Abbiamo pensato che una folata di vento avrebbe fatto cadere uno dopo l’altro tutti i regimi autocratici, come un fragile castello  di carte. Ben presto, però, all’entusiasmo è seguita la delusione, quando sono tornati i militari, quando gli squarci di democrazia aperti dalle persone che a centinaia di migliaia occuparono piazza Tahrir, al Cairo, si sono purtroppo richiusi. È stato dunque un errore, ma non è vero che un errore, una volta corretto, non lascia alcuna traccia. Di tracce ne lascia, invece: nella difficoltà di riorientare giudizi e politiche. Di prendere le misure al nuovo potere che ha stabilizzato l’Egitto e di cui l’Occidente, dopo la sbandata di cinque anni fa e nel disordine in cui versa tutta l’area, non può fare a meno.

C’è Occidente, del resto, perché c’è un Oriente: volenti o nolenti, raccontando che cosa sono i musulmani, che cosa sono i palestinesi o che cos’è il Medioriente noi raccontiamo noi stessi. Cinque anni fa la solida e cinica realpolitik che ci permetteva di tenere come alleato Mubarak senza farci troppe domande sui suoi metodi è franata. In maniera certo precipitosa, inaspettata, affrettata: però è franata. Le cose non sono andate come speravamo, col risultato che una politica netta e chiara per quella regione del mondo non ce l’abbiamo più. O almeno: la dose di verità che siamo in grado di sopportare non è più lo stessa. A torto o a ragione. Non si torna mai al punto di prima. Non ci si scrolla mai veramente di dosso gli errori e le verità per le quali passiamo.

Così oggi nulla in apparenza è cambiato rispetto a qualche anno fa, e come sinceri democratici chiediamo tutta la verità. Sta infatti qui il discrimine fra regimi autocratici come quello di Al-Sisi e regimi democratici come il nostro. Solo i primi hanno la polizia non soltanto per proteggere, ma anche per spaventare. Solo i primi hanno assoluto bisogno di quei coni d’ombra, di quelle strade buie, di quegli scantinati deserti in cui poter sequestrare un uomo, un ficcanaso, un testimone scomodo o semplicemente uno che è capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sequestrarlo, e picchiarlo. Sequestrarlo, e torturarlo. Fino alla morte. E nel frattempo predisporre e dare alla luce la versione ufficiale, col mandato di occupare il più a lungo possibile la scena.

L’ambasciator italiano che ha raccontato le ore angosciose del ritrovamento, la visita all’obitorio, i gelidi colloqui con le autorità egiziane, non ha dato mostra di volersi accontentare, anzi. Con grande determinazione, e senza nemmeno usare modi troppo felpati, ha rappresentato lo sconcerto dell’Italia per l’assassinio di un nostro connazionale che ha tutte le sembianze di un delitto commissionato per motivi politici.

Ma la politica ha le sue ragioni che a volte la buona fede dell’opinione pubblica democratica non è detto sia forte abbastanza  per volerle conoscere, e magari cambiare. Sa allora chinarsi sui suoi morti, secondo la misura della verità che la pietà umana richiede, ma non più trarre da una morte orribile una qualche verità che guidi anche la sua politica. Non si usano i morti, si dice, ma non è vero: altrimenti non vi sarebbero tutti i monumenti che vediamo. Ma usarli è difficile, è la cosa più difficile del mondo. Piangerli è più facile, ci vuole meno forza e meno verità.

(Il Mattino, 07 febbraio 2016)