Chi vede il corpo di un ragazzo torturato e ucciso avverte non solo il dolore enorme e lo strazio, ma anche un’altra esigenza lancinante: vuole verità. Verità: costi quel che costi. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, che reca i segni delle violenze subite, le autorità italiane chiedono in queste ore che sia fatta piena luce sull’assassinio, e usano parole ferme e nette. Ma sanno anche quali profonde relazioni l’Occidente, e l’Italia in particolare, intrattiene con l’Egitto del generale Al-Sisi. Relazioni economiche, politiche, geostrategiche. Perciò è difficile sottrarsi alla domanda più scomoda, la più scabrosa: quanta verità siamo in grado di sopportare? Vogliamo davvero tutta la verità, e soltanto la verità? Non siamo disposti a scendere a patti con nessuno: non per il petrolio egiziano né per la pace a Tripoli?
No, non siamo disposti. E non c’è motivo di avere dubbi delle parole di nessuno. Ma la verità non è solo affare di parole. La verità non è una pellicola adesiva trasparente che si attacca o si stacca con facilità dalle nostre proposizioni, come il retro delle figurine dall’album delicato dei nostri pensieri. No: è molto di più. La verità si conficca e penetra nella carne degli uomini, nella forma della società, nella vita delle istituzioni. La verità, come del resto l’errore.
Quanto era vero, allora, che con la primavera araba anche l’altra sponda del Mediterraneo avrebbe finalmente conosciuto la democrazia? Quanto abbiamo creduto e fatto nostra quella storia? Abbiamo pensato che una folata di vento avrebbe fatto cadere uno dopo l’altro tutti i regimi autocratici, come un fragile castello di carte. Ben presto, però, all’entusiasmo è seguita la delusione, quando sono tornati i militari, quando gli squarci di democrazia aperti dalle persone che a centinaia di migliaia occuparono piazza Tahrir, al Cairo, si sono purtroppo richiusi. È stato dunque un errore, ma non è vero che un errore, una volta corretto, non lascia alcuna traccia. Di tracce ne lascia, invece: nella difficoltà di riorientare giudizi e politiche. Di prendere le misure al nuovo potere che ha stabilizzato l’Egitto e di cui l’Occidente, dopo la sbandata di cinque anni fa e nel disordine in cui versa tutta l’area, non può fare a meno.
C’è Occidente, del resto, perché c’è un Oriente: volenti o nolenti, raccontando che cosa sono i musulmani, che cosa sono i palestinesi o che cos’è il Medioriente noi raccontiamo noi stessi. Cinque anni fa la solida e cinica realpolitik che ci permetteva di tenere come alleato Mubarak senza farci troppe domande sui suoi metodi è franata. In maniera certo precipitosa, inaspettata, affrettata: però è franata. Le cose non sono andate come speravamo, col risultato che una politica netta e chiara per quella regione del mondo non ce l’abbiamo più. O almeno: la dose di verità che siamo in grado di sopportare non è più lo stessa. A torto o a ragione. Non si torna mai al punto di prima. Non ci si scrolla mai veramente di dosso gli errori e le verità per le quali passiamo.
Così oggi nulla in apparenza è cambiato rispetto a qualche anno fa, e come sinceri democratici chiediamo tutta la verità. Sta infatti qui il discrimine fra regimi autocratici come quello di Al-Sisi e regimi democratici come il nostro. Solo i primi hanno la polizia non soltanto per proteggere, ma anche per spaventare. Solo i primi hanno assoluto bisogno di quei coni d’ombra, di quelle strade buie, di quegli scantinati deserti in cui poter sequestrare un uomo, un ficcanaso, un testimone scomodo o semplicemente uno che è capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sequestrarlo, e picchiarlo. Sequestrarlo, e torturarlo. Fino alla morte. E nel frattempo predisporre e dare alla luce la versione ufficiale, col mandato di occupare il più a lungo possibile la scena.
L’ambasciator italiano che ha raccontato le ore angosciose del ritrovamento, la visita all’obitorio, i gelidi colloqui con le autorità egiziane, non ha dato mostra di volersi accontentare, anzi. Con grande determinazione, e senza nemmeno usare modi troppo felpati, ha rappresentato lo sconcerto dell’Italia per l’assassinio di un nostro connazionale che ha tutte le sembianze di un delitto commissionato per motivi politici.
Ma la politica ha le sue ragioni che a volte la buona fede dell’opinione pubblica democratica non è detto sia forte abbastanza per volerle conoscere, e magari cambiare. Sa allora chinarsi sui suoi morti, secondo la misura della verità che la pietà umana richiede, ma non più trarre da una morte orribile una qualche verità che guidi anche la sua politica. Non si usano i morti, si dice, ma non è vero: altrimenti non vi sarebbero tutti i monumenti che vediamo. Ma usarli è difficile, è la cosa più difficile del mondo. Piangerli è più facile, ci vuole meno forza e meno verità.
(Il Mattino, 07 febbraio 2016)