Archivi del giorno: febbraio 15, 2016

Il Festival dei record e del vuoto pneumatico

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È dura la vita per quelli della mutazione antropologica. Quando Sanremo ottiene lo share più alto degli ultimi undici anni e tutte le serate, una dopo l’altra, superano in scioltezza i dieci milioni di telespettatori, c’è poco da fare: quelli della mutazione antropologica, che da Pasolini in poi denunciano il «genocidio culturale» a cui avremmo assistito, non li ascolta più nessuno. Le lucciole scomparvero per colpa dei tubi catodici dei televisori, sul finire degli anni Sessanta: poi è arrivato tutto il resto. Fino al trionfo di luci della scenografia sanremese di quest’anno, dove era obiettivamente difficile trovare, anzi anche solo cercarvi  una lucciola.

Ma se non possiamo permetterci una critica così radicale come quella di Pasolini alla società dei consumi – critica radicale e fondamentalmente errata: perché rassegnata, perché disperata, perché attenta solo a quel che soccombe e non anche a quel che nella società resiste, o rinasce – possiamo però insinuare il dubbio che altri ragionamenti si possono comunque fare, oltre a raccontare il successo. Non apocalittici, ma nemmeno del tutto integrati.

Brignano, ad esempio. Certo, non si può riassumere nelle sue battute grevi il senso dell’operazione Sanremo della Rai: per un attore che pesca nel repertorio più trito della comicità tradizionale, c’è pur sempre una Virginia Raffaele che sorprende tutti per bravura e intelligenza. Ma resta da capire se vi sia un’altra spiegazione – diversa da quella di Pasolini: la scomparsa delle lucciole, la mutazione antropologica, il genocidio culturale, la sparizione dell’umanità dell’uomo – nelle risate che accolgono la sua descrizione del rapporto uomo/donna: «Te l’appizzo e vado via. Te l’appoggio e nemmeno te ne accorgi». Ride il pubblico, ride Carlo Conti, ridono un po’ tutti: e come si fa a non ridere? Ma se anche quelle risate fossero irresistibili – e francamente non mi pare proprio – rimane da chiedersi che cosa significhino.

La risposta migliore è: nulla. Non significano nulla. Uno vuol ridere senza farsi troppe domande: è sempre stata questa la funzione dello spettacolo, del varietà, dell’intrattenimento. Perciò dargli chissà quale peso sarebbe quasi come se un tempo qualcuno si fosse tolto lo sfizio di fare la fenomenologia – che so? – di Mike Buongiorno.

Ora però si dà il caso che la fenomenologia di Mike Buongiorno – il conduttore televisivo più popolare, che ha rischiato persino di essere nominato senatore a vita – qualcuno (Umberto Eco) l’ha fatta. Ma oggi: oggi chi fa la fenomenologia di Carlo Conti? O chi passa al setaccio la comicità dei comici à la Brignano? Chi osa, in un soprassalto di scuola francofortese, prendersela con l’industria culturale? Se qualcuno lo facesse, si concederebbe una bella capriola dialettica e la metterebbe forse così: proprio il fatto che quelle risate non significano nulla è il problema. O perlomeno dovrebbe essere oggetto di analisi. Che cosa vuol dire infatti che il principale spettacolo della più grande impresa culturale del Paese può veicolare senza difficoltà roba che non ha la pretesa di dir nulla?

Gli Stadio, per dirne un’altra. Hanno vinto, anzi stravinto, visto che è andata a loro pure la serata delle cover, complice la mozione degli affetti che li legava a Lucio Dalla e alla sua sera dei miracoli. Gli Stadio al Festival c’erano già stati, otto anni fa. Ma per vincere hanno dovuto aspettare il 2016. Cosa però propriamente hanno dovuto aspettare? Probabilmente solo di invecchiare. Come del resto è successo a Vecchioni, o ai Pooh. Il Festival di Sanremo in effetti è una specie di Paradiso: dove i rapper si ingentiliscono, le vecchie glorie resuscitano, e il lupo dimora a fianco dell’agnello. Così gli Stadio in crisi di paternità hanno trionfato, figurandosi un genitore che sembra saperla lunga, ma in realtà non ha un bel nulla da insegnare alla figlia.

Di nuovo: il nulla. E questa idea che nessuno abbia da insegnare alcunché. Non nei testi delle canzoni (ma questa è storia vecchia), ma neppure negli inserti comici, o tra i superospiti. Persino Renato Zero, che con il passar degli anni ha ritenuto sempre più indispensabile rifilare un suo sermoncino, è parso che volesse raccontare solo quello che ha a mala pena imparato lui, non avendo più molto altro da dire agli altri. Ed è stato bello vedere canzoni che un tempo volevano essere trasgressive finire centrifugate in un medley banale e spensierato.

Le battute sulla politica, infine, quelle che dopo tutto l’applauso lo strappano sempre? Non pervenute, o quasi.

Ora, la Rai fa il suo mestiere. Si affida a ottimi professionisti, e mette in onda cinque serate cinque, una dietro l’altra, in cui tutto fila liscio. Tempi giusti, momenti coinvolgenti come l’esibizione del pianista Ezio Bosso (l’unica che abbia osato dire la sua, sulla musica e sulla vita), ed altri di gran richiamo, come Roberto Bolle in versione pop.

Ma l’impressione che i risultati siano ottenuti con una scelta culturalmente rinunciataria, per non dire regressiva, rimane. Si dirà: per fortuna sono finiti i tempi in cui si rovinavano due o tre ore di sano divertimento pur di infilarci la morale, o l’ideologia. Ed è vero. Ma scansare tutti i conflitti, tutte le asperità, tutte le contraddizioni: possibile che sia l’unica strada? Sicuramente la Rai ha la sua mission aziendale: ma qual è? Forse Sanremo non c’entra niente. Sanremo è come quei film commerciali, che fanno grandi incassi e permettono a una casa cinematografica di sperimentare, di cercare nuove strade, nuovi talenti. Se è così: siamo a febbraio. Attendiamo fiduciosi il prosieguo della stagione televisiva.

(Il Mattino, 15 febbraio 2016)

Se si cerca un assessore come un’auto usata

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A.A.A. Assessore cercasi. Come si vende un auto usata, o si cerca un nuovo amore. A Quarto il sindaco Rosa Capuozzo si è messa, tramite avviso pubblico, alla ricerca di un ingegnere civile che faccia l’assessore ai Lavori Pubblici.

Il Movimento Cinque Stelle ha scaricato il sindaco. Lo psicodramma è passato attraverso la fase della riflessione, poi dello sconforto e delle dimissioni, infine – colpo di scena! – del ritiro delle dimissioni sul filo di lana dell’ultimo giorno utile.

E così Rosa Capuozzo non solo è tornata ad amministrare la città, ma ha ripreso a farlo con il solito piglio grillino. Nell’annuncio pubblicato dal Sindaco c’è, infatti, tutto il credo del Movimento in una mirabile sintesi.

Primo punto: l’Assessore ai Lavori Pubblici non può non essere, per il sindaco, un ingegnere civile. Chi, più di un ingegnere, può occuparsi di lavori pubblici? In base alla stessa logica, la delega alla sicurezza e alla legalità dovrebbe andare a un poliziotto o a un carabiniere; quella allo sport e alle politiche giovanili a un giovanotto fresco reduce da una corsa campestre. E così via. L’idea che per certi incarichi si debba avere anche un profilo politico, e che le elezioni si fanno per quello, altrimenti basterebbe scorrere gli albi degli ordini professionali, evidentemente non appartiene alla mentalità a cinque stelle.

Secondo punto: il Sindaco nomina l’assessore. Si tratta di un rapporto fiduciario. Ma nel Movimento si diffida di simili rapporti. Se scelgo una persona che conosco, il sospetto è che la scelgo non perché è brava, ma perché la conosco. Quindi, meglio un emerito sconosciuto. Competente: lo scelgo infatti in base al curriculum. Ma di cui ignoro le idee, la visione, tutto. Pare evidente che la condizione ideale per i Cinque Stelle sarebbe il completo anonimato.

Ieri Repubblica ha domandato a Roberto Fico, a cui la notorietà sta evidentemente nuocendo,se la vicenda di Quarto – come quella di Gela: l’ultimo sindaco sfiduciato dallo Staff di Grillo – non dimostri che i candidati sindaci vengono scelti dal Movimento senza che li si conosca bene. La vera domanda sarebbe stata se i grillini non si facciano un punto d’onore di scegliere donne e uomini che non conoscono affatto, che non sanno nemmeno da dove vengono, chi sono, cosa fanno.

E infatti, ecco l’ultima pillola dispensata dall’avviso pubblico del sindaco Capuozzo: l’assessore ai lavori pubblici di Quarto non deve essere di Quarto. Non deve avere la residenza a Quarto. Poi l’avviso è stato corretto, perché qualcuno deve aver fatto presente al sindaco che era, francamente, un po’ troppo. Ma l’idea è la stessa: se è di Quarto, avrà le sue conoscenze e i suoi interessi. Il che lo rende automaticamente sospettabile di alto tradimento. Meglio, molto meglio se a Quarto si mandasse l’assessore ai lavori pubblici di Gela, e a Gela quello di Quarto. E’ un’idea: siccome i grillini li scelgono tutti competenti, le città da loro amministrate se li potrebbero bellamente scambiare. Quelli di Livorno andare a Parma, quelli di Parma andare a Livorno, e così il disinteresse è assicurato, la moralità salva.

In realtà, l’ideologia sottostante è la stessa: la politica è il male. Ovunque si costruiscono rapporti politici, lì domina necessariamente il vizio e la corruzione. Fico lo ha detto con ancor più chiarezza quando ha spiegato ieri che loro non candidano “nomi forti”: quindi a Roma niente Di Battista e a Napoli niente Di Maio. Non ha chiarito, per la verità, perché al videoforum di Repubblica sia andato proprio lui, che il nome forte se lo sta facendo (sia pure con qualche ammaccatura), ma insomma è lo stessa solfa: loro non candidano politici, ma cittadini. Se uno vale uno, i cittadini in questione potrebbero pure non avercelo un nome un cognome e un volto, tanto contano le idee, il programma, i principi del movimento su cui indefessamente vigila lo Staff di Grillo.

Risultato: negli enti locali una classe dirigente credibile e affidabile non c’è e non ci può essere. Non può formarsi: è negata in principio. In compenso c’è Grillo, c’è Casaleggio, e ci sono i membri del Direttorio: loro sono sempre più conosciuti, e sempre più cresce, dentro il Movimento, il loro capitale politico.

(Il Mattino, 13 febbraio 2016)