È dura la vita per quelli della mutazione antropologica. Quando Sanremo ottiene lo share più alto degli ultimi undici anni e tutte le serate, una dopo l’altra, superano in scioltezza i dieci milioni di telespettatori, c’è poco da fare: quelli della mutazione antropologica, che da Pasolini in poi denunciano il «genocidio culturale» a cui avremmo assistito, non li ascolta più nessuno. Le lucciole scomparvero per colpa dei tubi catodici dei televisori, sul finire degli anni Sessanta: poi è arrivato tutto il resto. Fino al trionfo di luci della scenografia sanremese di quest’anno, dove era obiettivamente difficile trovare, anzi anche solo cercarvi una lucciola.
Ma se non possiamo permetterci una critica così radicale come quella di Pasolini alla società dei consumi – critica radicale e fondamentalmente errata: perché rassegnata, perché disperata, perché attenta solo a quel che soccombe e non anche a quel che nella società resiste, o rinasce – possiamo però insinuare il dubbio che altri ragionamenti si possono comunque fare, oltre a raccontare il successo. Non apocalittici, ma nemmeno del tutto integrati.
Brignano, ad esempio. Certo, non si può riassumere nelle sue battute grevi il senso dell’operazione Sanremo della Rai: per un attore che pesca nel repertorio più trito della comicità tradizionale, c’è pur sempre una Virginia Raffaele che sorprende tutti per bravura e intelligenza. Ma resta da capire se vi sia un’altra spiegazione – diversa da quella di Pasolini: la scomparsa delle lucciole, la mutazione antropologica, il genocidio culturale, la sparizione dell’umanità dell’uomo – nelle risate che accolgono la sua descrizione del rapporto uomo/donna: «Te l’appizzo e vado via. Te l’appoggio e nemmeno te ne accorgi». Ride il pubblico, ride Carlo Conti, ridono un po’ tutti: e come si fa a non ridere? Ma se anche quelle risate fossero irresistibili – e francamente non mi pare proprio – rimane da chiedersi che cosa significhino.
La risposta migliore è: nulla. Non significano nulla. Uno vuol ridere senza farsi troppe domande: è sempre stata questa la funzione dello spettacolo, del varietà, dell’intrattenimento. Perciò dargli chissà quale peso sarebbe quasi come se un tempo qualcuno si fosse tolto lo sfizio di fare la fenomenologia – che so? – di Mike Buongiorno.
Ora però si dà il caso che la fenomenologia di Mike Buongiorno – il conduttore televisivo più popolare, che ha rischiato persino di essere nominato senatore a vita – qualcuno (Umberto Eco) l’ha fatta. Ma oggi: oggi chi fa la fenomenologia di Carlo Conti? O chi passa al setaccio la comicità dei comici à la Brignano? Chi osa, in un soprassalto di scuola francofortese, prendersela con l’industria culturale? Se qualcuno lo facesse, si concederebbe una bella capriola dialettica e la metterebbe forse così: proprio il fatto che quelle risate non significano nulla è il problema. O perlomeno dovrebbe essere oggetto di analisi. Che cosa vuol dire infatti che il principale spettacolo della più grande impresa culturale del Paese può veicolare senza difficoltà roba che non ha la pretesa di dir nulla?
Gli Stadio, per dirne un’altra. Hanno vinto, anzi stravinto, visto che è andata a loro pure la serata delle cover, complice la mozione degli affetti che li legava a Lucio Dalla e alla sua sera dei miracoli. Gli Stadio al Festival c’erano già stati, otto anni fa. Ma per vincere hanno dovuto aspettare il 2016. Cosa però propriamente hanno dovuto aspettare? Probabilmente solo di invecchiare. Come del resto è successo a Vecchioni, o ai Pooh. Il Festival di Sanremo in effetti è una specie di Paradiso: dove i rapper si ingentiliscono, le vecchie glorie resuscitano, e il lupo dimora a fianco dell’agnello. Così gli Stadio in crisi di paternità hanno trionfato, figurandosi un genitore che sembra saperla lunga, ma in realtà non ha un bel nulla da insegnare alla figlia.
Di nuovo: il nulla. E questa idea che nessuno abbia da insegnare alcunché. Non nei testi delle canzoni (ma questa è storia vecchia), ma neppure negli inserti comici, o tra i superospiti. Persino Renato Zero, che con il passar degli anni ha ritenuto sempre più indispensabile rifilare un suo sermoncino, è parso che volesse raccontare solo quello che ha a mala pena imparato lui, non avendo più molto altro da dire agli altri. Ed è stato bello vedere canzoni che un tempo volevano essere trasgressive finire centrifugate in un medley banale e spensierato.
Le battute sulla politica, infine, quelle che dopo tutto l’applauso lo strappano sempre? Non pervenute, o quasi.
Ora, la Rai fa il suo mestiere. Si affida a ottimi professionisti, e mette in onda cinque serate cinque, una dietro l’altra, in cui tutto fila liscio. Tempi giusti, momenti coinvolgenti come l’esibizione del pianista Ezio Bosso (l’unica che abbia osato dire la sua, sulla musica e sulla vita), ed altri di gran richiamo, come Roberto Bolle in versione pop.
Ma l’impressione che i risultati siano ottenuti con una scelta culturalmente rinunciataria, per non dire regressiva, rimane. Si dirà: per fortuna sono finiti i tempi in cui si rovinavano due o tre ore di sano divertimento pur di infilarci la morale, o l’ideologia. Ed è vero. Ma scansare tutti i conflitti, tutte le asperità, tutte le contraddizioni: possibile che sia l’unica strada? Sicuramente la Rai ha la sua mission aziendale: ma qual è? Forse Sanremo non c’entra niente. Sanremo è come quei film commerciali, che fanno grandi incassi e permettono a una casa cinematografica di sperimentare, di cercare nuove strade, nuovi talenti. Se è così: siamo a febbraio. Attendiamo fiduciosi il prosieguo della stagione televisiva.
(Il Mattino, 15 febbraio 2016)