Apple ha detto di no. L’Fbi ha chiesto all’azienda di Cupertino di accedere ai dati dell’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due assassini della strage di San Bernardino, in California. L’accesso richiede la decrittazione del telefono cellulare, e la Apple si é rifiutata di fornire alla polizia federale l’assistenza tecnica necessaria a violare il codice di protezione dei dati. Ne aveva il diritto? Sì, dal momento che il giudice aveva dato facoltà all’azienda di contestare l’ordinanza. Ma non è detto che finisca qui, e che le esigenza di sicurezza alla fine non prevalgano sulla protezione della privacy che la Mela ha inteso assicurare opponendo il suo diniego. Non è detto cioè che il rifiuto di collaborare non venga superato da una nuova ordinanza del giudice.
Il conflitto però ci riporta indietro, molto indietro. Ci riporta a tempi precedenti l’invenzione moderna della sovranità. La quale nasce come quell’autorità sopra la quale non ve n’è nessun’altra, e alla quale tutti gli altri poteri della società devono sottostare. Certo, si tratta di una nascita contrastata, e intimamente dialettica: non vi sarebbe motivo di erigere sopra le nostre teste un potere così grande, infatti, se questo potere non desse in cambio qualcosa. Sicurezza, innanzitutto: era quello che pensava Hobbes, il più grande teorico della sovranità statale. Ed è in nome della sicurezza che l’Fbi ha chiesto all’azienda di Copertino di entrare nel cellulare, cioè nella sfera privata personale di Farook. Ma i pensatori liberali, che dopo Hobbes hanno continuato a lavorare sull’idea di sovranità, hanno aggiunto alla relazione col potere sovrano qualcos’altro: che sicurezza sarebbe mai quella che mette nelle mani di qualcuno un potere così assoluto da potersi infilare ovunque? Chi mai può sentirsi sicuro, se non vi è alcuno spazio in cui essere garantiti dalle intromissioni altrui? E soprattutto, a che serve esser sicuri, se non si è anche liberi?
Sono stati a lungo questi i termini del problema politico moderno: sicurezza e libertà. Come si è complicata nel tempo l’idea di sicurezza, dovendo includere una qualche misura di libertà, così in seguito si è complicata pure l’idea stessa di libertà, che è venuta via via includendo dimensioni sempre più ampie del vivere civile e sociale.
Ma con la decisione di Tim Cook, il Ceo della Apple, di dire no agli agenti federali, i termini non sembrano complicarsi soltanto, ma più radicalmente paiono mutare. Comunque finirà il conflitto, e posto pure che finirà per davvero in un’aula di tribunale e per la decisione di un giudice, magari dopo il ricorso dell’Fbi, quello che è andato in scena somiglia a uno scontro di tipo nuovo, anzi molto antico. Ricorda quello avveniva prima dell’invenzione moderna dello Stato, prima della costruzione della sovranità, molto prima della politica democratica, quando i re, ben lungi dal comandare assolutamente, dovevano misurarsi con altri poteri, assai poco remissivi. Dovevano cioè venire a patti, senza poter imporre una soggezione assoluta. Fu il caso della Magna ChartaLibertatum, concessa da Giovanni Senzaterra. Molti la ricordano come il primo riconoscimento dei diritti dei cittadini, ma di fronte al re non stavano affatto cittadini, bensì i baroni del regno d’Inghilterra. Tim Cook, Bill Gates e gli altri signori della Rete come i baroni del terzo millennio, dunque? In un certo senso sì, il paragone non è così strampalato. Perché, certo, la Apple difende la libertà personale dei suoi clienti, ma per l’appunto, si tratta di «suoi clienti».Non siamo noi a difenderci dalle incursioni dell’Fbi. Ma è un’azienda, il cui potere non è contenuto entro i confini dello Stato nazionale e che quindi è sempre più difficile circoscrivere – territorialmente e giuridicamente – a ergersi, come i baroni inglesi nella brughiera di Runnymede, a difensori della nostra libertà. Ciò che peraltro i maghi di Cupertino (i tecnici di oggi sono i maghi di ieri) non intendono cedere all’Fbi, non sono i dati privati del killer di San Bernardino, ma la chiave che consentirebbe all’agenzia federale l’accesso illimitato all’utenza Apple. Un po’ come cedere le chiavi del proprio castello. La Apple difende cioè la propria esclusiva, un proprio privilegio. La nostra libertà è in gioco solo indirettamente, grazie allo scudo che non noi ma il nostro cavaliere senza macchia e senza paura oppone al sovrano. Il che però vuol dire che abbiamo la nostra libertà solo nell’ambito del vassallaggio a cui la Apple ci costringe. Siamo divenuti vassalli del sistema Apple, da che eravamo cittadini dello Stato.Istintivamente facciamo il tifo per la Mela di Cook, perché è la Apple che ci mette tra le mani oggetti così accattivanti come gli iPhone e gli iPad, mentre quelli dell’Fbi ci sembrano cattivi e portano le pistole. Ma attenzione: non è che senza volerlo ci stiamo infeudando a poteri assai meno democratici di quelli che abbiamo conosciuti finora, finendo così dalla padella nella brace?
(Il Mattino, 18 febbraio 2016)