Umberto Eco, scrittore. Lo straordinario successo internazionale de Il nome della rosa, apparso nel 1980, ha consacrato in tutto il mondo Umberto Eco come romanziere, ma Eco è stato molto di più. È stato uno studioso di estetica medievale e un semiologo; è stato un saggista, un critico, un polemista. Dalle pagine dell’Espresso, Eco è stato una presenza costante nel dibattito pubblico italiano. Il libro che gli ha dato la più grande notorietà ha in parte almeno oscurato il resto del suo lavoro: eppure libri come l’«Opera aperta», la «Struttura assente» o il «Trattato di semiotica generale» hanno avuto una grande importanza nella cultura italiana degli anni Sessanta e Settanta, contribuendo a modificare il panorama delle scienze umane. L’interesse filosofico per il tema dell’interpretazione è legato, in Italia, alla diffusione dell’ermeneutica, fondata anzitutto sulla tradizione tedesca otto-novecentesca, ma anche sulla tradizione semiotica americana inaugurata da Charles Sanders Peirce, e studiata in Italia da Carlo Sini, a Milano, e da Umberto Eco e la sua scuola, a Bologna.
Però, per i meccanismi della comunicazione di massa, Eco è anzitutto l’autore del romanzo italiano forse più letto e famoso della seconda metà del Novecento. Traduzioni in decine di lingue, decine di milioni di copie vendute nel mondo. Eco conosceva molto bene quei meccanismi. Li studiò anzi, in libri come «Apocalittici e integrati», in cui metteva a tema la cultura popolare, il romanzo poliziesco, il fumetto, il Kitsch, la televisione. La cosa suscitò qualche perplessità. Pietro Citati recensì il saggio di Eco mostrando tutto il suo sospetto verso questa spregiudicata operazione che osava impiegare gli strumenti della cultura alta per spiegare e comprendere la cultura bassa. In realtà, non molto diversamente Roland Barthes si dedicava, in Francia, a fare l’analisi semiologica dei «miti d’oggi». In Italia però faceva scandalo che si mostrassero parimenti degni di attenzione «Platone ed Elvis Presley». Eco ha raccontato una volta quando ebbe la rivelazione: partecipando a un serissimo convegno accademico, al quale era invitato il fior fiore degli studiosi della mitologia antica, pensò di cavarsela d’impaccio occupandosi delle storie a colori di Superman: «insomma, arrivo a Roma e inizio la relazione posando sul tavolo la mia pila di fumetti di Superman. Che faranno, mi cacciano? Nossignore, mi scompaiono metà dei fumetti».
C’è molto non del suo percorso intellettuale, in questo divertito aneddoto, ma del suo stile: umori satirici e moralistici, grande attenzione al quotidiano, venature illuministiche, qualche tentazione pedagogica e una naturale vocazione politica, nella misura in cui in una società democratica è politica, per definizione, ogni attenzione alla vita quotidiana. «Fare la teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria del giovedì prossimo», diceva ancora Eco. Che probabilmente non avrebbe voluto occuparsi d’altro, tanto come studioso di Tommaso d’Aquino quanto come osservatore della fenomenologia di Mike Buongiorno. Quello del quiz al giovedì sera, cioè appunto del giovedì prossimo, e di ciò che gravita intorno ai poli magnetici della massa e della cultura popolare, a cui Eco si dedicava certo mantenendo la distanza dell’ironia, ma senza manicheismi, e senza usare le venature apocalittiche tipiche della cosiddetta grande cultura. Per cui lui stesso non potrà troppo dispiacersi se in virtù di quegli stessi meccanismi che studiava, per Wikipedia e per il mondo sarà anzitutto conosciuto e apprezzato come autore de «Il nome della rosa» o de «Il Pendolo di Foucault», piuttosto che come serissimo studioso di Kant o della semiotica strutturale.
(Il Mattino, 20 febbraio 2016)