Archivi del mese: marzo 2016

L’accoglienza e i controlli fuori tempo

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Il cammino che ha percorso la religione, nei paesi europei, non rende semplice l’integrazione di forti identità confessionali. Charles Taylor, filosofo canadese, tra i maggiori studiosi contemporanei dei processi di secolarizzazione, ha riassunto la formula dell’esperienza americana, così differente da quella europea, in questi termini: va’ nella Chiesa che vuoi, ma vacci. Una formula che la maggior parte degli europei oggi non saprebbe o vorrebbe fare propria. Taylor aggiungeva poi questa parola di commento: «quando anche gli imam fecero la loro comparsa alle colazioni di preghiera, tra i preti, i pastori e i rabbini, fu il segno che l’Islam era stato invitato a far parte di uno stesso consesso». Di nuovo: un invito simile non sembra che possa venir formulato dalla generalità dei cittadini europei (a parte, naturalmente, lo spirito ecumenico di pochi). Chi lo vuole un imam a colazione? Per Taylor, la spiegazione starebbe in ciò, che mentre l’integrazione nella società statunitense è avvenuta «attraverso» la fede o l’identità religiosa,in Europa l’integrazione ha potuto compiersi «solo ignorando, marginalizzando o relegando nella dimensione del privato ogni eventuale identità religiosa». Le ragioni di questa differenza sono molte e complesse, e affondano le loro radici in una storia plurisecolare; il risultato però è questo: in America, tutto ciò che può iscriversi in una forma di patriottismo nazionale mantiene un contatto con la sfera del religioso; non così in Europa, dove forme anche varie e declinazioni anche diverse di religione civile si sono di molto raffreddate. L’Unione Europea è anzi – per continuare con la metafora –il punto di maggior freddezza che l’umanità abbia mai raggiunto, quanto a temperatura religiosa. E però l’immigrazione porta in Europa uomini e donne che hanno invece un rapporto ancora molto intenso con la religione. Non sto parlando di varianti fondamentaliste o integraliste o fanatiche, che è facile giudicare un pericolo per la convivenza democratica: parlo della più comune esperienza religiosa, di precetti, presenze rituali, cerimonie. A noi europei tutto ciò ormai fa strano, molto più strano che non agli americani, che infatti hanno percentuali più alte di credenza e pratica religiosa.

Il confronto con l’esperienza americana è importante, perché nessuno dubita che la società americana sia, anzitutto nelle sue istituzioni politiche, una società secolarizzata. Ma lì la secolarizzazione convive più facilmente con le manifestazioni dello spirito religioso di quanto non accada da noi.

Non propongo queste considerazioni per trarne la conclusione che dunque il problema è nostro: del nostro palcoscenico ideologico, così poco ospitale nei confronti della credenza religiosa.  Nient’affatto: abbiamo tutto il diritto di essere ciò che siamo. Dico solo che è difficile, che i processi di integrazione sono complicati, per quanto – io credo – necessari. Investono cioè strutture profonde della società, che non sempre hanno l’elasticità necessaria per resistere alle tensioni e torsioni a cui sono sottoposte, soprattutto nei tempi di crisi. È bene saperlo. Possiamo certo contare sulla buona volontà di molti, ma non è detto che basti, e soprattutto non è detto che si abbia davvero tutto il tempo che ci vuole. Anzi: politicamente parlando, a ogni attentato è certo che il tempo a disposizione si accorcia (e i terroristi ovviamente lo sanno).

La notizia dell’arresto del cittadino algerino a Bellizzi mi ha dato però due cose da pensare. La prima, è la cosa alla quale più spesso ho associato il nome di Bellizzi, da qualche anno almeno a questa parte. Dico piazza Antonio De Curtis, e la statua di Totò (una delle prime, se non la prima in Italia). Domando: quanto tempo ci vuole a un cittadino algerino, che passa per quella piazza e qualche volta si siede vicino a quella statua, per innamorarsi di un film di Totò, per ridere delle sue battute? Con certe sue smorfie è più facile, ma con certi suoi giochi di parole? Quanto tempo ci vuole a capirli, a spiegarli, a farli propri e magari a tirarli fuori la sera con gli amici? Se ci vuol tempo, e un bel po’ di vita in comune, quanto ce ne vuole per tradurre tutto il resto di una cultura e di una forma di vita? Lo sforzo – ripeto – è indispensabile, e rinunciarvi è stupido, oltre che insensato. Ma bisogna sapere che in ogni traduzione del genere, sono mondi interi che vengono a confronto, e provano a riversarsi l’uno nell’altro.

La seconda cosa a cui ho pensato è come mai il sindaco abbia annunciato, all’indomani dell’arresto di Djamal Eddine Ouali, che si procederà al censimento dei circa seicento immigrati presenti a Bellizzi, molti dei quali costretti a vivere in condizioni poco dignitose. Nessuno però capisce perché un’Amministrazione si ponga solo l’indomani il problema di sapere chi vive, dorme, lavora nel territorio comunale. Possiamo infatti scomodare lo spirito europeo e quello americano, Charles Taylor e il secolarismo, e fare le più dotte riflessioni sulle mediazioni culturali necessarie per unire le sponde del Mediterraneo, le religioni del Libro o più semplicemente i ricchi e i poveri, e quelli che non hanno più nulla dietro di sé e quelli che si tengono stretti quel (poco o molto) che hanno per sé, ma se poi c’è bisogno di un arresto clamoroso per accorgersi di seicento immigrati finora invisibili, è molto difficile ragionare di politiche di integrazione o di sicurezza, di accoglienza o di controlli. Finisce che possiamo solo augurarci che chi viene qui venga per cercare di vivere una vita decente, perché gliene verrà del buono anche a lui.

(Il Mattino, 29 marzo 2016)

Le speculazioni e il dovere di fare chiarezza

riunione_dipartimentiSe per antimafia si intende anzitutto un moto di partecipazione, alimentato da passione politica e civile, di antimafia l’Italia ne ha un bisogno assoluto, oggi come ieri. Una religione civile, ha scritto ieri Isaia Sales su queste pagine. Un insieme di dispositivi, anche simbolici, di pratiche e di manifestazioni che rafforzino il senso di appartenenza dei cittadini a una medesima entità statale. Una memoria comune, condivisa, in cui è bene che si iscrivano i segni che hanno lasciato gli uomini e le donne caduti per mano delle mafie, perché hanno difeso lo Stato e le sue leggi. E oggi come ieri questa difesa è indispensabile.

Ma l’antimafia è anche altro. La stessa memoria diviene culto e ha i suoi officianti, dediti a volte a interessi e commerci di ben altra natura (e il più delle volte meschini). Lo ha detto il Procuratore Lo Voi a Palermo, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ma lo ha ripetuto anche ieri il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti: c’è chi specula sull’antimafia, chi si costruisce una posizione. C’è chi fa, ma c’è pure chi dice di fare, e dicendo ci ricava il suo lucro.

Ma non è l’unico aspetto su cui varrebbe la pena discutere criticamente. La riflessione è in parte in corso, a dire il vero. E non mi riferisco certo alle parole eccezionalmente gravi di Luigi Di Maio, che è arrivato a scrivere  che don Peppe Diana è stato ucciso una seconda volta «non dai camorristi ma da premier, sottosegretari e ministri». Il motivo di questo durissimo j’accuse (e di questo pessimo esempio di strumentalizzazione politica di uno dei simboli dell’antimafia)? Il blocco dei fondi ai familiari delle vittime dei reati di tipo mafioso. Il punto è che non di blocco si tratta, ma della volontà di vederci chiaro nei criteri di erogazione dei rimborsi delle spese legali. Qualunque persona ragionevole capisce di cosa si tratta: del timore che qualcuno ci mangi su. Si può condurre una verifica del genere? Non solo si può: si deve.

Allo stesso modo, in novembre la Camera dei Deputati ha approvato a larga maggioranza la riforma dell’Agenzia dei beni confiscati (ora  al Senato). A detta ormai di tutti, l’Agenzia così com’è non funziona. Le norme più stringenti approvate dovrebbero scongiurare una gestione familistica dei beni (nuovi casi Saguto, insomma) e dovrebbero anche aiutare, tramite l’istituzione di un apposito fondo, la loro capacità di produrre nuovamente utili, salvaguardando posti di lavoro. Restano però due dubbi, che è doveroso manifestare senza che nessuno – si spera – prenda la penna e ci dia dell’assassino. Il primo riguarda l’assegnazione e la destinazione di questi beni. Il giusto timore di farli finire nuovamente in mani sbagliate, e la giusta volontà di sostenere grazie a quei beni iniziative di carattere sociale (la religione civile) rischia di fatto di sottrarre ingenti risorse ai normali circuiti di mercato. Si può costruire intorno all’antimafia un’attività economica separata? Il secondo dubbio, più strettamente giuridico, riguarda una procedura che di fatto blocca attività e beni di carattere economico prima che intervenga un giudicato. Anche qui un punto di domanda va posto, anche solo per ragioni di scuola, ed è bene che sia posto ogni qual volta si agisce per ragioni di carattere emergenziale.

Tutta l’antimafia nasce infatti sotto il segno dell’emergenza. Ma quanto dura un’emergenza? E quali effetti produce un’emergenza  perenne, che si protrae per più di una generazione? In Italia, c’è un filo non mai interrotto che lega le scelte di politica criminale in materia di contrasto alla criminalità organizzata a quelle compiute decenni fa contro il terrorismo politico. Ma il terrorismo è stato sconfitto, le mafie no. Ora, ci sono tre aspetti principali intorno a cui continua a ruotare un percorso di carattere emergenziale, ai fini di repressione del fenomeno, senza che sia mai introdotta nel dibattito pubblico una riflessione seria, laica, sulla loro efficacia. E cioè: l’indurimento delle pene da un lato, l’inasprimento dei sistemi di sanzione cautelare dall’altro, il potenziamento dell’arsenale degli strumenti processuali dall’altro ancora. Anche in questo caso, c’è bisogno di un confronto di merito, senza anatemi e senza demonizzazioni, perché fare in sostanza due tipi di processo – uno per i mafiosi, l’altro per tutti gli altri – è almeno discutibile in linea di principio, se i principi naturalmente, li si prende da un’idea sufficientemente liberale di diritto penale.

Infine, la cosa più difficile. Lo ripeteva anche Roberti ieri, nell’intervista al Mattino. Rete idrica, servizi pubblici, scuole aperte al pomeriggio: questa è lotta alla mafia. In mancanza, sono le mafie non solo a dare opportunità di lavoro alla manovalanza che reclutano in contesti economici e sociali degradati, ma anche a costruire reti di integrazione sociale, a offrire codici culturali e simbolici: un’altra religione civile, insomma, rovesciata rispetto a quella dello Stato. Un’ideologia che non si forma solo in interstizi e per le incrinature dei poteri pubblici, ma diviene anzi il tessuto normale di vita di interi strati sociali. Se questo continua ad accadere, non ci sarà uso di simboli o celebrazione di processi che tenga.

(Il Mattino, 21 marzo 2016)

 

 

 

Brambilla, i grillini e le vittorie decise col telecomando

Acquisizione a schermo intero 19032016 120930.bmpMatteo Brambilla c’è. Che ci sia ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa. Perché da quando è stato incoronato dalle comunarie napoletane a candidato sindaco dei Cinquestelle ha fatto fagotto ed è andato via. Scomparso. Sparito. Forse ha temuto di fare la fine di Patrizia Bedori: catapultata a sorpresa a sindaco di Milano, ha dovuto mollare la spugna perché giudicata inadeguata. Prima che qualcuno dalle parti della Casaleggio Associati gli riservi analogo trattamento, il Brambilla avrà pensato che gli serviva del tempo per prepararsi a dovere. Come fanno i ragazzi quando si avvicina l’interrogazione: si prendono qualche giorno di assenza per mandare giù tutto il programma, prima di far ritorno sui banchi di scuola, con tutte le cose che servono in testa.

Ormai però è pronto per l’interrogazione, cioè per la blindatissima conferenza stampa allestita oggi dai capi del Movimento. Ovviamente i giornali, come i professori, non potevano aspettare il loro comodo. Per cui hanno nel frattempo spulciato le tracce (non poche, in verità) che Matteo Brambilla ha lasciato nella sua lunga frequentazione della rete, quando poteva twittare in santa pace senza avere tutti gli occhi addosso. E hanno trovato gridata ai quattro venti la sua fede juventina – che non è il miglior biglietto da visita, sotto il Vesuvio – o scoperto che questo posato ingegnere brianzolo, che meritoriamente si occupa da una vita di ambiente e rifiuti, è anche uno che perde facilmente la pazienza. Almeno dietro la tastiera. Certo, con il pingue consenso dei 276 votanti online (in lettere: duecentosettantasei) che gli son valsi la candidatura grillina, deve rapidamente abbandonare i panni scalmanati vestiti finora sui social media. Ma questo è il meno. La casa madre di Gianroberto Casaleggio c’è per quello: per cucirgli addosso una strategia comunicativa efficace, che lo rilanci come alternativa credibile e affidabile alla guida della città partenopea. Solo che serve una settimana di silenzio e di duro lavoro: il tempo di mettere gli auricolari al candidato, e pilotarlo tra le fauci affamate dei giornalisti (pochi, e ben selezionati, mentre gli attivisti verranno con ogni probabilmente tenuti fuori della porta, perché spira aria di contestazione).

Fin troppo facile fare dell’ironia, perché questo Brambilla ce le ha davvero tutte: i natali monzesi, il tifo per la Juventus, il cognome che più meneghino non si può, i twit che neanche il Gasparri più arrabbiato. Però dicevamo: è il meno. C’è anche un lato serio della vicenda, che va raccontato.

Dicono infatti le cronache che la vittoria del Brambilla è il risultato di una vera e propria congiura. Vittima illustre la candidata più accreditata della vigilia, Lucia Menna. Che ha scoperto solo a spoglio concluso il patto segretissimo che gettava lei nella polvere e sollevava il Brambilla sugli altari. In breve: anche i grillini hanno i loro bravi pacchetti di voti, o di clic, e li spostano con accordi sottobanco e ordini di scuderia calati probabilmente dall’alto. La scena che ieri ha raccontato il Mattino è degna di un film: il candidato che partecipa al festeggiamento insieme con tutti i militanti, in cui magari la rivale gli avrà sportivamente stretto la mano, perché siamo tutti sulla stessa barca e tutti uniti marciamo verso un comune obiettivo, e che poi però sgattaiola via, è stanco e torna a casa dalla moglie Teresa, e invece nel cuore della notte raggiunge la festa quella vera, quella con i congiurati, con quelli che hanno ordito la trama e fregato gli altri. E lì assapora fino in fondo il piacere maligno del tradimento.

Tradimento? Non è una categoria della politica, certo. Ma per le dinamiche che si muovono all’interno di un gruppo di fedeli, di devoti proseliti, di arrabbiati zeloti, funziona perfettamente.

Il fatto è che, una volta di più, nel paradiso della democrazia diretta quando si arriva al voto succede di tutto, meno che la pacifica presa d’atto del risultato. Quello che va in scena è l’opposto della democrazia: non bastano i meetup, non bastano le autocandidature e le votazioni online, se con un tratto di penna il simbolo può essere ritirato, la lista cancellata, a insindacabile giudizio dello staff di Beppe Grillo, cioè del proprietario commerciale del marchio, a cui spetta comunque l’ultima parola. Come agli ayatollah nella democrazia sciita.

La stessa cosa sta succedendo anche nel resto della Campania. A Salerno i grillini si sono divisi. Divisa anche la delegazione parlamentare. Hanno votato, l’esito della consultazione non mette d’accordo nessuno, gli uni sfiduciano gli altri, alcuni commettono il peccato mortale di frazionismo, tutti corrono da Re Salomone ma nessuno fa un passo indietro per il bene del Movimento, e finisce che salomonicamente Grillo toglie di mezzo la lista: e così i Cinquestelle a Salerno non ci saranno. E non ci saranno neppure a Caserta. Pure lì: tante belle riunioni, tante belle iniziative per un programma partecipato, il meetup che vota e sceglie, ma la certificazione col bollino di Grillo non arriva, come la cittadina senatrice Wilma Moronese aveva già lasciato cortesemente intendere.

Ora, siccome nel Movimento sono tutti onesti, a cosa si deve un così alto e così irriducibile tasso di litigiosità? Non c’è che una spiegazione: all’assenza di veri legami politici fra gli aderenti al Movimento. Che si raccolgono intorno a singole tematiche e soprattutto a un profondo rigetto di tutti gli altri partiti, ma non hanno evidentemente trovato ancora una vera ragione per stare insieme. Cioè: per accettare la logica del male minore, e le mediazioni e i compromessi necessari per stare insieme. Così l’unica maniera di rimanere uniti è lasciar fare a Casaleggio. Che qualche volta fa, e qualche altra disfa, secondo che gli aggrada.

P.S. Quelli di Benevento, invece, ce l’hanno fatta! Tanti auguri alla cittadina candidata Marianna Farese.

(Il Mattino – Napoli, 19 marzo 2016)

Se la sinistra disconosce il realismo

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La zuppa e il pan bagnato. Il referendum sulle trivellazioni marine e la condanna di Verdini: se non è l’una cosa, è l’altra ad agitare le acque in casi dei democratici. È indubbio che le sfide più importanti del 2016, da cui dipenderà il prosieguo della legislatura, siano le elezioni amministrative prima, il referendum costituzionale poi. E però ogni giorno ha la sua pena, e ieri a far penare il Pd sono state prime le trivelle, poi le disavventure giudiziarie del senatore toscano.

Vediamo. Ad aprile si vota sulla possibilità di rinnovare le concessioni alle piattaforme petrolifere già in attività al largo delle coste italiane. I nove consigli regionali che hanno preso l’iniziativa referendaria avevano proposto anche altri, più ampi quesiti, ma il governo li ha disinnescati introducendo modifiche alla legislazione vigente, e così la Consulta ha ammesso un unico referendum. Siccome i punti principali della strategia energetica del Paese non sono toccati dal referendum in questione, è chiaro, e lo ammettono anche i proponenti, che la consultazione ha un significato eminentemente politico. Ma se la minoranza del Pd la cavalca diviene anche una cartina di tornasole dei nodi irrisolti nel rapporto del partito democratico con la base dei propri iscritti e militanti, e con l’opinione pubblica.

Se vincessero i sì, il voto verrebbe immediatamente tradotto dalle associazioni ambientaliste in un perentorio invito a tagliare in modo drastico l’uso dei combustibili fossili. Ora, non è che tale invito, col voto o senza il voto di aprile, possa essere preso a cuor leggero. La conferenza di Parigi, conclusasi recentemente, ha affermato che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia «urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta», e non è possibile fronteggiare una simile minaccia senza una progressiva decarbonizzazione dell’economia. Quasi duecento Paesi hanno sottoscritto queste conclusioni (che attendono però le ratifiche nei parlamenti nazionali). E però, se la direzione di marcia è tracciata, resta il dovere dei governi di ragionare realisticamente sul modo in cui conseguire gli obiettivi indicati a Parigi. Dall’affermazione di principio all’implementazione delle politiche il passo non è affatto breve. E siamo al punto. Perché il partito democratico è incalzata da una rigida coscienza ambientalista, assai diffusa presso la sua base, per la quale qualunque scostamento dal principio è un inaccettabile cedimento morale. Se il paragone non urtasse le sensibilità degli uni e degli altri si potrebbe dire: anche l’elettore di sinistra, non solo quello cattolico, è cresciuto in questi vent’anni a pane e valori non negoziabili. È cresciuto cioè in una forma larvata di grillismo morale, impastata di intransigenza e indignazione puramente verbale, che si traduce in una crescente insofferenza verso ogni forma di mediazione politica fra gli interessi in gioco. A volte si tratta del più schietto interesse nazionale altre volte di interessi privati (le compagnie petrolifere, in effetti, esistono), ma in un caso o nell’altro ci si scontra sempre con il rifiuto di comporre le spinte ideali con le esigenze materiali. Sta qui, d’altra parte, la crisi e anzi l’inconsistenza dei partiti politici italiani, il cui compito di mediazione viene rifiutato quasi a priori, come se il solo fatto di tenere in considerazione anche il piano dell’interesse equivalesse di per sé a un inaccettabile cedimento morale.

Così le minoranze di sinistra, fuori e dentro il partito democratico, possono sempre far sponda, per imbarazzare il governo, con un’opinione pubblica, che da venti e passa anni ha imparato a sospettare per principio dell’attività politica, e a cui non si può mai dire fino in fondo come stanno le cose, cosa si può o non si può fare.

Lo si vede bene se solo si pensa alle furibonde polemiche sollevate in questi giorni da Bersani e compagnia sull’eredità dell’Ulivo, che Renzi avrebbe dilapidato snaturando il Pd. Ora però, se vi è un campione dell’ulivismo questi è Prodi. E a Prodi le trivelle non dispiacciono affatto, anzi è presumibile che, fosse al governo, non si barcamenerebbe molto diversamente. L’Adriatico di Prodi non sarebbe diverso, insomma, da quello di Renzi: come la mettiamo?

Poi, nello stesso giorno in cui ci si vergogna dell’astensione del Pd al referendum, arriva pure la condanna di Denis Verdini, ed è come agitare il panno rosso dinanzi al toro sempre imbufalito dell’indignazione morale. Di nuovo il rumore di fondo del grillismo democratico cresce. Come si fa a governare con Verdini? Probabilmente, lo si fa né più né meno come lo si faceva ieri con Berlusconi, quando, a causa della mancanza dei numeri in Parlamento, si formava il governo Letta. La qual cosa potrà certo meritarsi un giudizio negativo, sui risultati dell’azione di governo, ma un conto è non condividere il jobs act, oppure la legge elettorale, un altro è provare a costruire pregiudiziali morali grandi come macigni. La cui conseguenza è nell’immediato, qualche difficoltà supplementare per chi è al governo, ma nel lungo periodo è la condanna della politica a un permanente stato di minorità. Quanto convenga alla democrazia italiana vivere sempre sotto questa permanente ipoteca dallo sgradevole sapore moralistico non è dato sapere. Però va così.

(Il Mattino, 18 marzo 2016)

Se la transizione archivia anche l’utopia liberale

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Insieme con Giorgia Meloni, candidata a sindaco di Roma, c’è Matteo Salvini. I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti, ha spiegato Berlusconi, cercando di ridimensionare il significato della rottura che ha mandato il frantumi il centrodestra. Ma è singolare: il primo passo compiuto da Berlusconi, quando scese in campo più di vent’anni fa, fu quello di dichiarare che, fosse stato cittadino della capitale, avrebbe votato per Gianfranco Fini, che si era allora candidato contro Francesco Rutelli non come leader di Alleanza Nazionale, ma come segretario del Msi, il partito di Giorgio Almirante. Tutto è insomma cominciato con lo sdoganamento della destra missina, e tutto sembra, agli occhi immalinconiti di Berlusconi, che ritorni da quelle parti.

Non è così. Non si tratta di un ritorno di fiamma. Si tratta invece della fine del centrodestra come lo abbiamo conosciuto finora. Molte sono le ragioni, ma ve ne sono tre che sembrano pesare più di tutte.

Una è senz’altro l’appannamento della leadership di Berlusconi. Complice l’età, complici le disavventure giudiziarie e l’impossibilità di candidarsi, la stella del Cavaliere è ormai irrimediabilmente declinata. E a gridare che il re è nudo in questi mesi sono stati in molti: da Bondi a Fitto a Verdini, per rimanere solo nei dintorni dell’ultima legislatura.

Un’altra ragione è la consunzione del cemento ideologico del blocco di centrodestra costruito da Berlusconi: l’argine contro la sinistra illiberale. All’inizio il Cavaliere parlava volentieri di comunisti, ma anche quando ha dovuto aggiornare il vocabolario, gli è bastato mettere un ex- o un post- a fianco della parola comunista, per tirarla ancora per le lunghe, e comunque per dipingere il centrosinistra come una roba vecchia, fatta di rottami della storia. Poi è arrivato Renzi, e quella retorica non ha avuto più nemmeno un minimo di parvenza. Renzi, bisogna che il centrodestra impari a contrastarlo in un’altra maniera. Comunque lo si giudichi, con lui non si può più dire che «son sempre gli stessi».

La terza ragione è la più rilevante, se si guarda al nostro Paese in un’ottica internazionale. Non c’è solo il miliardario populista Trump, che in America sconquassa, con la sua corsa vincente alle primarie, i tradizionali confini dell’old party repubblicano. Ci sono pure, anzi soprattutto, i nazionalismi e i populismi che si affermano in Europa. Ve ne sono di specie diversa: in Grecia come in Austria, in Ungheria come in Polonia, in Olanda come in Gran Bretagna. A Matteo Salvini piace molto la destra lepenista d’Oltralpe, alla quale pare proprio volersi ispirare. Ma in giro per l’Europa di modelli del genere ce ne sono diversi. Per questo tipo di destra: diffidente nei confronti dell’Europa, diffidente nei confronti dell’immigrazione, diffidente nei confronti dell’establishment, Berlusconi non funziona più. Forza Italia aveva infatti tenuto dentro di sé più di un’anima: c’era l’insofferenza nei confronti della politica politicante; c’era l’accentuazione del leaderismo, c’era una qualche forma di richiamo ai valori tradizionali. Ma c’erano anche tratti liberali, e una dimensione di apertura nei confronti del futuro, della modernità, delle forze sane dell’economia e della società che era parte essenziale del messaggio di Berlusconi. Ecco, forse il tratto più vistoso nel passaggio che si sta consumando nel centrodestra riguarda proprio la coloritura morale della nuova destra di Salvini e Meloni. Complice la crisi delle istituzioni economiche e l’impasse dell’Unione Europea, complici i venti di guerra nel Medioriente e in tutta l’area del Mediterraneo, destra oggi significa molto più paura che speranza.

Una politica della paura non è detto che non sia vincente. Di sicuro, i margini di manovra si vanno restringendo, in Europa, per le posizioni moderate dei popolari e dei conservatori. Se ne accorge la Merkel, che perde le elezioni nei Länder a favore di forze euroscettiche e nazionaliste, e se ne accorge Cameron in Gran Bretagna, anche lì a causa di crescenti spinte nazionaliste. Il fatto è che però la mossa del leader leghista, che silura i candidati di Forza Italia a Roma come a Torino impone al centrodestra di passare attraverso il lavacro di una sconfitta alle amministrative che si fa di ora in ora più probabile. Si tratta, insomma, di un percorso ad ostacoli. È presto per dire se Salvini ha fatto bene i suoi calcoli, o se in fondo sta solo dando una mano al centrosinistra, che i suoi grattacapi al livello locale ce li ha ma che a confronto col big bang del centrodestra finiscono con l’essere improvvisamente ridimensionati. A meno che non benefici di questa grandissima confusione sotto il cielo il Movimento Cinquestelle. E allora, l’azzeramento del sistema politico italiano come l’abbiamo conosciuto finora si sarà finalmente completato.

(Il Mattino, 17 marzo 2016)

Se i Cinquestelle cambiano pelle

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Con la rinuncia di Patrizia Bedori a correre per la poltrona di sindaco di Milano forse una nuova pagina è stata scritta. Non solo nella storia del Movimento Cinque Stelle, ma pure in quella di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Al primo, infatti, non toccò forse in sorte di morire perché re Alboino se l’era preso a corte e quello, abituato alla vita semplice dei campi, alle rape e ai fagioli, ne morì? Nel nuovo episodio, la semplice cittadina Patrizia Bedori, che gli attivisti del movimento avevano scelto come loro candidata, viene compulsata non da re dei Longobardi ma addirittura da Gianroberto Casaleggio, che la sente, la interroga, la soppesa e le dà un po’ di tempo per pensarci bene. Il tempo passa e la Bedori getta la spugna: evidentemente, non vuol fare la fine di Bertoldo. Del resto, a proposito di commedia, era intervenuto pure Dario Fo, le cui simpatie grilline sono note, per dirsi preoccupato dalla ragazza, cacando dubbi sulla sua adeguatezza.

Ora si sprecano i commenti dei giornali sulle offese sessiste che la Bedori ha ricevuto in queste settimane, e che l’hanno convinta a fare un passo a lato. Le hanno detto che è «brutta, grassa e obesa»; l’hanno definita «nulla facente super cazzolara svogliata», l’hanno descritta come casalinga e disoccupata con l’intento di denigrarla, ma prima di cercare nel mare della Rete o tra gli avversari politici i motivi di tanta ostilità è nello staff della Casaleggio e Associati che la Bedori si sarà trovata dipinta come la Marcolfa, la moglie di Bertoldo: tanto saggia ma alquanto fuori posto, così che alla fine «ottiene grazia di potersene tornare di dove era venuta».

Cos’è accaduto? O meglio: cosa sta accadendo dalle parti dei Cinque Stelle? Le offese: d’accordo. Ma sono le parole di solidarietà – che dai gran capi del Movimento non sono arrivate – a fare ancor più notizia. Perché è evidente che la Bedori non riusciva a convincere Casaleggio dal giorno dopo l’esito delle comunarie. Basta guardare le altre candidature nel frattempo emerse: la Raggi a Roma, la Appendino a Torino, la Menna o la Verusio a Napoli. Tutte professioniste affermate, tutte persone con i titoli di studio e le esperienze di lavoro giuste, tutte solidamente ancorate nella media borghesia. Chi è avvocato, chi è bocconiana e imprenditrice, chi professoressa e chi esperta informatica: l’epoca delle Ciarambino, delle impiegate pubbliche o delle semplici casalinghe, insomma, volge al termine, e il fatto che i profili che la Rete sta selezionando si somiglino fra di loro lascia intendere abbastanza chiaramente che molto poco spazio viene lasciato al caso. Quando vien fuori una Marcolfa, re Alboino e la sua corte – cioè il suo staff – possono apprezzare la saggezza popolare, in un ultimo omaggio al principio per cui uno vale uno, ma poi sono ben contenti se la Marcolfa si prende Bertoldino e si ritira in buon ordine.

Questo dunque sta accadendo. La fase in cui si imbarcava di tutto e di più, ingrossando il Movimento delle istanze più diverse, di spinte radicali, estremiste o semplicemente strampalate (le scie chimiche, i chip sotto pelle, ma anche la generosa foga civica dei volontari che si battono su singole issues) viene per il momento accantonata, e i Cinque Stelle provano a definire meglio il proprio profilo, offrendo un’immagine che li renda meglio riconoscibili all’elettorato. Non più semplicemente come cittadini qualunque, ma come cittadini competenti, affidabili, votabili non solo dalle poche centinaia di amici attivisti del meet up, che partecipano alle votazioni online, ma anche dal resto della cittadinanza. Che al saggio deve andare a scegliere non il condomino più incazzato, ma l’amministratore più capace, e più capace di dialogare coi mondi diversi delle professioni, degli affari, delle imprese.

Rimane la retorica della democrazia diretta, del portavoce in luogo del leader, delle decisioni prese ogni volta tramite la consultazione di tutti su tutto. C’è evidentemente una contraddizione, se poi le scelte vere non possono avvenire se non in una direzione, che l’attività di marketing politico della Casaleggio & Associati è in grado di indicare. Ma lo aveva spiegato bene qualche tempo fa Massimo Bordin: la democrazia diretta si chiama così perché c’è sempre qualcuno che la dirige. Senza la mediazione dei partiti – che nella retorica grillina, com’è noto, sono il male – una Patrizia Bedori non ha nulla da opporre all’aria che tira in Rete, e a chi la soffia. Del resto lo ha spiegato lo stesso Casaleggio, una volta: «La Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore. Può essere che si affermino entrambi». Già: può essere.

(Il Mattino, 15 marzo 2016)

Perché a Napoli serve una svolta

43196014-strada-con-la-freccia-su-sfondo-isolato-con-ombraMi candido: così Bassolino annunciò la sua corsa, l’autunno scorso. Ci fossero state o no le primarie, ci fosse stato o no il Pd, Bassolino si sarebbe candidato. Lo disse chiaro e tondo: «appartengo a Napoli, non al Pd». Poi però le primarie ci sono state e il Pd è riemerso da anni di appannamento, per usare un eufemismo. Ha messo in campo due candidati, uno dei quali – Valeria Valente – le primarie le ha vinte. Così ora pare che Bassolino voglia puntare a Palazzo San Giacomo indipendentemente non dalle primarie, ma dal suo esito: non è la stessa cosa.

Ricordare come sono andate le cose non è inutile. E mi riferisco alla politica, non alle vicende della giornata elettorale, allo strascico di polemiche, alla teoria dei ricorsi, alle accuse di brogli. Non intendo sottovalutare gli episodi che si sono verificati davanti ai seggi. Intendo valutarli per quel che sono: risibili. Chiunque volesse sostenere che il video di Fanpage attesta un’alterazione del risultato che ne falsifica l’esito sfiderebbe sia la matematica che la logica. La matematica è inutile discuterla. Quanto alla logica, domando: come si ritiene che il consigliere Borriello – uno dei protagonisti del video – abbia portato voti alla Valente? Se convincendo e persuadendo, nulla quaestio. Se invece in virtù di un rapporto distorto, clientelare, addirittura monetario (un euro per un voto: ma davvero?), quel rapporto è evidente che non lo ha costruito domenica 6 marzo, ma sta in piedi oggi come ieri. Ieri però Borriello firmava la candidatura di Bassolino (e lo sosteneva e lo ha sostenuto in tutti i mesi e anni precedenti). L’ultimo dunque che può censurarne il comportamento è proprio l’ex sindaco, che Borriello conosce da sempre, di cui ha accolto con favore l’appoggio, e del cui «tradimento» si è poi rammaricato: di cosa si rammaricava, allora? La matematica sta a protezione dell’esito del voto, che ha coinvolto trentamila napoletani, non dieci o dodici votanti. La logica a protezione del buon senso, che vuol se mai vederci chiaro non nei comportamenti eticamente censurabili di Borriello, ma nella partita politica delle primarie e, poi, del voto amministrativo.

Le cose sono dunque andate così: che prima, quando Bassolino scese in campo, il Pd napoletano non c’era. Adesso c’è. Si può ben dire che c’è, ma ammaccato, malconcio, confuso, inadeguato. Si può anche aggiungere che c’è, ma è del tutto insufficiente per la sfida del governo della città. Se lo si dice, però, si vota centrodestra. Oppure De Magistris (per votare addirittura i Cinquestelle ce ne vuole): non si vota Pd, o centrosinistra. Non si fa la lista per far perdere nell’ordine: la Valente, il centrosinistra napoletano, Matteo Renzi. Ci si può girare attorno quanto si vuole, ma questo è il punto al quale sono le cose.

Ma, si dice, le cose sono andate così proprio perché si è inventata una candidatura – quella di Valeria Valente – al solo scopo di sbarrare il passo ad Antonio Bassolino. Un po’ più di lungimiranza avrebbe dovuto spingere il Pd napoletano a riconoscere il seguito che Bassolino ha ancora in città, invece di costruire la santa alleanza contro di lui. Mi domando perché. Perché il Pd avrebbe dovuto certificare la propria non esistenza in vita accettando di sostenere chi ha voluto candidarsi indipendentemente dal Pd – azzerando anzi tutto quello che c’è stato dopo di lui, nella più personale delle sfide –,salvo poi confluire nella partita delle primarie, probabilmente perché convinto di avere un consenso più ampio di quello poi ottenuto (e che più ampio sarebbe stato, se Borriello non avesse tradito: ma Borriello, appunto).

La candidatura di Valeria Valente è invece il primo atto politico compiuto dal Pd da cinque anni a questa parte. Il Pd ha prima deciso di non rassegnarsi alle supplenze della società civile: non era affatto scontato, viste le prove di un recente passato. Poi, ha voluto dare alla scelta compiuta la legittimazione piena delle primarie. La Valente sarebbe infatti potuto passare anche con il solo voto della Direzione del partito: in quel caso, però, Bassolino avrebbe forse detto che il Pd si chiudeva a riccio e fatto la sua lista. Ma così no, così ha accettato di stare al gioco, di scendere sullo stesso terreno: non può adesso trasformarlo nel campo di Agramante delle sue proprie rivalse personali.

Ma anche se ci poniamo in una diversa prospettiva, e guardiamo piuttosto alla sfida con De Magistris, non è privo di significato che ci arrivi la Valente, piuttosto che Bassolino. A chi la pensa diversamente non è evidentemente capitato – come è capitato a me ieri – di aprire il libro di Marc Fumaroli, «Parigi-New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini». Volumone dottissimo, coltissimo, eruditissimo, di uno dei mostri sacri della critica d’arte contemporanea, a leggere il quale però si inciampa, nelle prime pagine, in una «immensa discarica fetida» nel caldo dell’estate napoletana. Giudizio sbrigativo di un vecchio francese reazionario? Sicuramente. Ma se un Accademico di Francia ne è rimasto così impressionato da parlarne in mezzo a Parigi e a New York, come pensare che nella campagna elettorale di primavera gli avversari politici risparmino a Bassolino e al Pd la lettura di simili pagine? Certo, su quella esperienza amministrativa si possono dare i più diversi giudizi, ma non si può negare che quella stagione i napoletani l’abbiano chiusa, e chiusa nel modo più netto, per il centrosinistra: votando Cesaro, Caldoro, poi De Magistris. Una sequenza che ammette poche repliche. E obbliga – almeno in sede politica: in sede storica i giudizi saranno certo più articolati – a percorrere strade nuove e a costruire nuove proposte. Per una volta che il Pd l’ha fatto, si vuole tornare un’altra volta indietro, C’è infine un contesto politico nazionale e regionale favorevole: perché l’elettore di centrosinistra dovrebbe allora complicarsi ancora la vita, inseguendo le rivincite di Bassolino? E come può lui stesso non pensare che il suo dovere, se davvero vuol creare un’alternativa a De Magistris, è sostenere fino in fondo la vincitrice delle primarie?

(Il Mattino, 13 marzo 2016)